“Se tutti i danesi fossero ebrei”, opera teatrale postuma di Evgenij A. Evtušenko

Evgenij A. Evtušenko, Se tutti i danesi fossero ebrei. Traduzione di Evelina Pascucci. A cura di Lorenzo Gafforini. Con un saggio introduttivo di Francesco De Napoli. Lamantica Edizioni, Brescia, 2022, p. 243. Pubblicata in Italia in prima edizione mondiale.


di Matteo Miele

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Evgenij A. Evtušenko, il celebre poeta siberiano conosciuto in tutto il mondo non soltanto per le sue opere letterarie ma anche per le battaglie politiche e civili da lui combattute a tutto campo, divenne nel corso degli anni talmente popolare da essere identificato, sia in Patria che all’estero, come un istrionico tribuno contrassegnato da tutta una serie di appellativi, da Poeta del disgelo ad Enfant terrible. Invero, l’epiteto più fedele al personaggio era quello di cittadino del mondo, nemico giurato del potere e di tutte le subdole forme di trasformismo politico favorite dai frequenti capovolgimenti della storia.

Da insuperabile cittadino del mondo, nel lunghissimo poema Fukù! (1989) Evtušenko prese di mira ironicamente le sentinelle dei tanti confini e steccati che dalla notte dei tempi dividono l’umanità in bellicose fazioni tra loro ferocemente contrapposte: «Io vi rispetto / guardie di confine dai volti rosei, / custodi del nostro Paese, dagli occhi sempre aperti, / ma è bello tuttavia / che nel libro di Lenin “Stato e rivoluzione” / sia preannunciato un mondo / senza confini.»

Sono versi che sintetizzano ottimamente sia la genuina vena poetica che le profonde ragioni dell’impegno internazionalista di Evtušenko, la cui complessa personalità emerge in maniera scultorea dalla brillante opera teatrale Se tutti i danesi fossero ebrei, l’unica pièce scritta da Evtušenko, pubblicata postuma in Italia, in prima edizione mondiale, dall’Editrice Lamantica (Brescia, 2022, pp. 243), nella traduzione di Evelina Pascucci.

Nei fittissimi XVIII Quadri lungo i quali si snoda la trama, si alternano con ripetuti e imprevedibili colpi di scena due vicende parallele: da una parte, la storia di un personaggio esistito realmente, la principessa Leonora Cristina vissuta nel XVII secolo e figlia del re di Danimarca Cristiano IV, la quale fu imprigionata per oltre vent’anni in una torre carceraria dai suoi stessi familiari sotto l’accusa di tradimento; dall’altra, una vicenda ambientata durante la seconda guerra mondiale ancora in Danimarca al tempo del rastrellamento degli ebrei, vicenda che vede protagonista una ragazza ebrea anch’essa di nome Leonora Cristina, figlia d’un orefice prigioniero dei nazisti che la ragazza cerca disperatamente di salvare.

All’interno della trama si riscontrano continui rispecchiamenti di situazioni analoghe al di là del salto epocale, caratterizzate da sostituzioni di ruoli: Evtušenko intende ammonire severamente i lettori circa i continui “corsi e ricorsi” della storia, dai quali gli uomini sono incapaci di trarre utili insegnamenti. Ed è quanto annotò nel suo diario segreto, il 14 marzo 1683, la Principessa Leonora Cristina. Sono i versi con i quali si apre la pièce: “Ogni generazione – nella polvere e nel sangue – / depreca i propri errori amari; / ma le nuove di ripeterli mai saran stanche…”

Sul piano stilistico, la pièce risente molto dei classici del teatro russo – da Puškin a Gogol, da Gor’kij a Bulgàkov -, altresì sensibile alla lezione dei maggiori drammaturghi europei del Novecento, da Brecht a Sartre, da Beckett a Ionesco. Non mancano impliciti rimandi alle teorizzazioni di Tzvetan Todorov sul fantastico e sulla fiaba.

L’opera teatrale è preceduta da uno studio introduttivo di Francesco De Napoli, il quale, alla luce degli insegnamenti della pièce, si sofferma sulla vocazione pacifista del Poeta siberiano e soprattutto si propone di ristabilire la verità storica contro lo stillicidio di accuse mosse ai danni dello stesso Evtušenko, anche dopo la sua morte avvenuta nel 2017. In pratica, ad Evtušenko molti rimproverano d’essere stato una figura piuttosto equivoca del panorama culturale d’oltrecortina, sempre in bilico tra la dissidenza e una tacita e complice adesione al regime sovietico.

De Napoli sviluppa la sua difesa di Evtušenko prendendo in esame anzitutto uno dei primi scritti del giovane Ženja – diminutivo di Evgenij -, l’Autobiografia precoce. Postille marginali (1963), scritta a Parigi «in una settimana di passione», come confessò l’autore qualche tempo dopo. A questo volume De Napoli affianca la seconda autobiografia di Evtušenko pubblicata dopo oltre un trentennio, Non morire prima di morire. Fiaba russa (1995), comparando attentamente i rispettivi contenuti e la forma con osservazioni molto pertinenti e originali, che in questa sede non è il caso di affrontare.

Basta dire che nell’Autobiografia precoce Evtušenko raccontò alcuni avvenimenti chiarificatori della sua formazione giovanile, che contribuirono a radicare in lui determinate convinzioni. L’episodio forse più significativo avvenne nel 1938. Ženja aveva appena cinque anni quando vide per l’ultima volta il nonno materno Ermolaj, uno dei capi della rivoluzione bolscevica del 1917 sui Monti Urali. Una notte suo nonno entrò nella cameretta di Ženja recando in mano una bottiglia di vodka e una piccola confezione di cioccolatini al liquore. Disse Ermolaj al nipotino: «Dobbiamo brindare!». Ženja gli chiese a cosa brindare, e il nonno rispose: «Alla rivoluzione!». Ermolaj era già a conoscenza del proprio destino, con ogni probabilità perché sottoposto a interrogatori dalle autorità sovietiche. Quella stessa notte il nonno fu prelevato e deportato nei campi di lavoro con l’accusa di “alto tradimento”, e di lui la famiglia non ebbe più notizie. Questo terribile episodio permeò l’intera giovinezza del Poeta, il quale, guardandosi intorno, capì che nell’URSS esistevano innumerevoli casi simili a quello di nonno Ermolaj. Nel ribelle Ženja si radicò un’idea: la rivoluzione era stata tradita, ma non da suo nonno che era stato uno degli artefici di quella rivoluzione, bensì dalla dispotica e sanguinaria tirannia di Stalin. Alla morte del dittatore georgiano subentrò Chruščëv, il quale sfidando l’apparato sovietico rimasto sostanzialmente stalinista, denunciò i crimini di Stalin inaugurando la stagione del “disgelo”. Evtušenko credette che gli ideali di nonno Ermolaj stavano per trovare finalmente il loro riscatto, e scese in campo con passione per sostenere il disgelo di Chruščëv. Tra gli alti e bassi di un contesto sempre più tragicomico – come osserva De Napoli – alla destituzione di Chruščëv seguì la restaurazione stalinista di Leonid Bréžnev, durante la quale Evtušenko dovette fare ricorso a tutto il proprio ingegno e talento per non rimanerne travolto, come ricordò nella poesia «Passeggiando sul cornicione” (2004), dove troviamo versi di forte e beffardo risentimento: “Come sopravvissi negli anni staliniani? / Perché a volte uscii / dalla finestra del nono piano (…)».

La scomparsa del gerontocrate Bréžnev segnò l’iniziò di una nuova era, purtroppo destinata a durare poco: la perestroika di Michail Gorbačëv, che trovò carico di entusiasmo Evtušenko. Il Poeta si candidò alla Duma in favore del padre della perestroika, dove venne eletto fino a diventare uno dei più stretti collaboratori dello stesso Gorbačëv. La fine della perestroika sancì anche la fine dell’URSS, accompagnata da forti rivolgimenti sociali di marca reazionaria che stavano cancellando quel poco che era rimasto del socialismo democratico di Gorbačëv. Evtušenko decise allora di trasferirsi con la famiglia a Tulsa, in Oklahoma, dove gli era stata offerta una cattedra universitaria di letteratura russa e cinematografia.

In conclusione, Francesco De Napoli nel suo studio riesce a dimostrare come il comportamento lineare e coerente del cittadino del mondo Evtušenko è da ritenersi eticamente corretto: il Poeta del disgelo era sostanzialmente un idealista che credeva nei valori di fondo della rivoluzione del 1917, come dimostrano i suoi rapporti di fraterna amicizia con figure come Ernesto Che Guevara, Fidel Castro e con il poeta cileno Pablo Neruda. Nel contempo egli si impegnò – finché gli fu possibile – nel tentativo di trasformare il regime sovietico nel socialismo dal volto umano vagheggiato da Chruščëv e poi, in parte, messo in atto da Gorbačëv.

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.