D’Annunzio e il non-finito. Appunti di lettura sulla “Violante dalla bella voce”

D’Annunzio e il non-finito. Appunti di lettura sulla Violante dalla bella voce.

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di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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Assai di recente è stato edito un manipolo di appunti dannunziani dedicati a una progettata e mai portata a termine raccolta di Studi su Gesù. Ci informa il curatore dei testi che «l’insieme di scritti, appunti, taccuini, parabole […] specificamente dedicati a Gesù» copre «un arco di scrittura che va dagli esordi giornalistici a Il libro delle Vergini del 1884 e su fino al Libro segreto del 1935»1. Non è certo questo il primo caso di una costellazione testuale a cui il poeta si è dedicato per decenni lasciando in sospeso il progetto di partenza. L’esempio richiamato mostra in modo evidente uno degli aspetti più complessi del cantiere dannunziano. Sappiamo infatti molto bene che il non-finito è una delle caratteristiche più importanti di tale cantiere, e che, al di là di ogni eventuale – difficile da credere – progettualità del caso (da confrontarsi, invece, il caso Gadda)2, è possibile rinvenire una casistica assai ampia di processualità creative che proprio del non-finito rappresentano l’evoluzione interna.

Da quando la filologia si è adoperata al fine di perlustrare le molteplici aree del lavoro dannunziano (Ciani, Gibellini, Riccardi, Montagnani, etc.)3 è emersa l’immagine di uno scrittore che dava al testo prima ancora che un valore simbolico (certo fondamentale) un valore, diremmo, empirico. Anche pochi appunti, poche frasi, magari in stile nominale, persino costituiti da soli elenchi di sostantivi, o da piccole descrizioni rubate allo spirito di osservazione, come esercizi della memoria, potevano occorrere in momenti di nuova spinta creativa anche a distanza di parecchi lustri. I primi testimoni di tutto ciò, come ben noto, sono da anni i due ponderosi volumi dei Taccuini, accanto ai quali vanno tenute le infinite lettere. Senza scomodare ulteriormente la teoresi di Genette, o di chi per lui, sappiamo anche che la maggior parte di queste testimonianze racchiude di per sé un valore testuale molto alto. Non credo, per fare un esempio, sia possibile leggere per intero i taccuini dannunziani come leggiamo un Journal di fine ottocento, o un diario novecentesco, ma questo assunto, se ricondotto a una precisa dialettica, non nasconde l’ipotesi che nei taccuini siano presenti felici tratti di scrittura che, di per sé, non esiteremmo a ricondurre a stile e forma degli stessi Journaux o ad altri esemplari diaristici. Sono, per lo più, appunti visivi, talvolta già declinati secondo l’indice simbolico, campioni di plurime possibilità del descrittivo, sottratti a una predilezione per il particolare plastico. I Taccuini sono, in effetti, un esempio concreto di «memoria materiale» che, in quanto tale, torna all’uso ogni qualvolta d’Annunzio ha sentito la necessità di recuperare immagini, campioni visivi o tessere descrittive.

Un altro piano di lavoro a cui invece occorrerebbe dare maggior rilievo è quello riguardante gli appunti di lettura e specifiche sottolineature. La biblioteca del Vittoriale, è noto, offre un campionario vastissimo in tal senso, ancora da esplorare nella sua interezza. Alla luce di quella che sintetizziamo essere la poetica dannunziana, su cui non è qui necessario aprire alcuna parentesi, è evidente che la pagina di un romanzo, di un trattato scientifico, di un catalogo, di un vocabolario specialistico, non è mai indice a sé stante da riferirsi come punto d’appoggio (eludo volontariamente l’ormai troppo gravoso concetto di fonte), ma è elemento attivo della produzione testuale. Il segno lasciato ai margini di un paragrafo, di una frase, di una parola, diventa esso stesso simbolo di reificazione, soprattutto in un autore come d’Annunzio per il quale il segno materiale è già di per sé un segno (quasi liturgico) della memoria. Del d’Annunzio «lettore segreto» ha parlato magistralmente Giorgio Zanetti4, il quale ci ha fornito alcuni campioni utili al nostro discorso di fondo, mostrando quanto profonda, per fare solo sporadici esempi, sia stata la lettura di un Ruskin, piuttosto che di un Cocteau o di un Malraux. La sottolineatura, in d’Annunzio, non è solo segnale, è qualcosa in più, è orma progettuale. E anche in questo caso, tornando al paradigma ipotetico, chissà quanti passaggi testuali sono ricaduti sotto l’attenzione dannunziana, segnati materialmente sui libri, immediatamente pensati come modelli per prossime elaborazioni testuali, e poi rimasti nell’incompiuto.

Nomen omen, il non-finito in d’Annunzio, nel suo complesso, è una strada troppo vasta per essere anche solo sfiorata in questa zona liminare. Aggiungo soltanto che la modalità più rappresentativa di tale disposizione creativa è certamente la riscrittura: dal taccuino alla pagina di romanzo; dal taccuino alla prosa di ricerca; dalla poesia alla pagina di memoria; dalla poesia alla poesia; etc. Si tratta insomma di dare il giusto credito a quelle che Starobinski chiamava le «ragioni del testo»5 e che in d’Annunzio motivano una costante manipolazione che fa dell’atto creativo un ricchissimo impegno artigianale.

Ma veniamo al nostro caso specifico, estratto da un’area precisa della produzione dannunziana, quella cosiddetta «notturna», dell’«esplorazione d’ombra» e degli «aspetti dell’ignoto». Occorrono anzitutto minimi dati editoriali filologici6. Nel 1911, stando in terra di Francia, d’Annunzio aveva iniziato la propria esplorazione memoriale attraverso le Faville del maglio, lasciate sulle pagine del «Corriere della Sera» di Luigi Albertini. Siamo ancora lontani dai volumi Treves del 1924 e del 1928. La pubblicazione delle Faville inizia il 23 luglio. Le prime sette puntate (per un totale di tredici testi) sono occupate da appunti per lo più ricavati dai taccuini7. Ognuna di esse reca una data (spesso manipolata per scelta strategica); sulla rivista sono senza titolo (che acquisiranno invece nei volumi Treves). Ma quello che interessa prendere qui in esame è l’insieme del secondo blocco (come il primo, preceduto dal titolo Faville del maglio, sottotitolo memoranda): la pubblicazione inizia il 25 febbraio del 1912 e termina il 17 marzo. Il numero della prima puntata registrato sul «Corriere» è il IX (Eurialo De Michelis ha a suo tempo indicato l’errore: sarebbe dovuto essere l’VIII: seguono infatti correttamente il IX, il 3 febbraio, e il X, il 17 marzo). La terza puntata si chiude con il caratteristico «continua», ma non segue alcuna pubblicazione relativa. Infatti si ha poi una terza serie, avviata il 25-26 dicembre 1912, che sarà in volume il Compagno dagli occhi senza cigli. A questo blocco d’Annunzio dedicherà spazio e rielaborazione nel tomo II del ’28. Il secondo blocco, invece, è rimasto incompiuto e non più manipolato. Si tratta della Violante dalla bella voce, che verrà pubblicata solamente nel 1970 a cura di De Michelis8.

Troviamo anzitutto un’indicazione precisa riferita alle tre faville che compongono la Violante in una lettera a Emilio Treves del 24 agosto 1912:

«Forse vedesti, or è alcuni mesi, nel Corriere due o tre «faville» su la Voce: uno studio della Voce umana. L’ultima incominciava una narrazione, che ha una fine tragica: «il mirabile viso della Violante dilaniato dal levriere…». La pubblicazione nel Corriere fu interrotta, e ora sono sul punto di riprenderla»9.

«Studio della Voce umana» dunque. Poche righe dopo, sempre nella lettera a Treves, ecco l’idea dell’autore di scorporare il blocco e farne un volume «simile a quello della Contemplazione», che ha visto la luce nello stesso anno (nel mese di aprile sempre sul «Corriere della Sera» e poi in volume presso Treves)10:

«Il vorrei dunque lasciare inedita la continuazione, dando al Corriere altre «faville», e pubblicare il libretto. La prosa è squisitissima, e certe «intuizioni» nel séguito sono molto singolari. La fine è tragica e appassionata. Anche per un sentimento di pudore, desidero di non stampare questa «confessione» in un giornale cotidiano»11.

Il 26 agosto, sempre a Treves, viene ribadito anche il titolo complessivo, La Violante dalla bella voce. Come noto non se ne farà nulla. Non proseguirà la pubblicazione né per la rivista né per l’editore (sino al 1915 d’Annunzio promette a Treves di portare a termine il lavoro, poi si perdono le tracce anche della promessa, se non sino a una sinteticissima lettera dell’11 novembre 1924 in cui l’autore lamenta a Guido Treves la mancanza delle «bozze della Violante dalla bella voce e del dialogo finale»12). Non aggiungo ulteriori dati, tutti enucleati puntualmente da De Michelis nella sua edizione dell’opera. Diverse sono le congetture riguardanti le ragioni dell’abbandono del lavoro (da Aldo Capasso a Emilio Mariano a De Michelis; riassunte da quest’ultimo), su cui tornerò. Mi limito per ora a ribadire e a specificare la natura, sospesa, di questa narrazione che permette di ascrivere il progetto alla categoria del non-finito da cui ho preso le mosse. Tale categoria permette da subito una rilettura del testo, diremmo, aperta, apparentemente svincolata da immediati limiti narratologici. De Michelis ha parlato di un «quasi-racconto» e Arnaldo di Benedetto ha suggerito l’idea di una vicenda come susseguirsi di epifanie13. Ricordo che già le Faville del primo blocco ci hanno abituati a una materia plurale gestita da elementi comuni, simbolici anzitutto: la delineazione di una memoria plastica scovata anzitutto nel momento percettivo e creativo.

Occorre verificare dunque sul piano tematico (e stilistico), quali sono i temi su cui vengono costruite le tre puntate della Violante.

L’incipit della prima puntata fa rifluire la già sperimentata alchimia che lega materia marmorea ad astrattezza musicale. Il marmo della Cantoria di Santa Maria del Fiore di Luca della Robbia offre una prima sillabazione plastica del movimento musicale e sonoro. Il rilievo dell’artista «esprime» un canto a cinque voci. E come d’Annunzio ha inteso reperire nelle Faville precedenti, anche in questo caso ciò che maggiormente lo seduce e attrae è l’investigare il modulo segreto che presiede all’armonia dell’operazione artistica14. Luca della Robbia sarebbe in possesso del «sentimento plastico della musica», motore per l’invenzione di «ritmi» che diventano, neoplatonicamente, «figure geometriche»15. Riecheggiano evidentemente le teoresi di Angelo Conti e, più in generale, del leonardismo fin-de-siècle16. Anche se va aggiunto che in d’Annunzio si va a poco a poco educando una precisa e disinvolta educazione al visivo che è referenza delle forme, chiamate a istituire un circuito tra concreto e astratto, tra plastico ed effimero17. Questa particolare istituzione del fenomeno artistico rende ancor più efficace l’idea di un non-finito intrinseco sia al gesto artistico sia all’opera che, riflettendo il concetto, resta indefinita nel suo stesso proporre significati di là dalla superficie medesima. Che il simbolo sia il principale dispositivo per tentare di conoscere la realtà è un dato che d’Annunzio a questa altezza cronologica ha già fatto sedimentare a fondo18; ora s’aggiungono gli incentivi di una memoria visiva che diventa a sua volta schermo sul quale si possono proiettare tutte le caleidoscopiche necessità, infinite e indefinite, della semantica simbolica19. È una memoria del visivo che funziona anche nel caso specifico che stiamo leggendo. Non è un caso che la situazione incipitaria del nostro testo favillare trovi riscontro nella poesia Il fanciullo dalla prima parte di Alcyone:

Te certo vide Luca della Robbia,

ti mirò Donatello,

operando le belle cantorìe.

[…]

E tu danzavi le tue melodie,

nudo fanciul pagano,

àlacre nel divin marmo apuano

come nell’aria, condudendo i cori20.

In entrambi i casi le composizioni di Luca della Robbia si specchiano (e si frappongono) in quelle di Donatello. È qui tematizzato l’incanto della pietra; la capacità della materia di contenere una modulazione ritmica che l’artista sa percuotere. Come nelle prime Faville, d’Annunzio insiste sulla capacità dell’artifex di indurre l’inerte al di là del tempo e, in questo caso, al di là del silenzio (la poetica del silenzio di Novalis e dei proto-romantici è sempre presente al poeta, anche attraverso la mediazione di Conti)21. Sono motivi ben noti alla pagina dannunziana, largamente discussi nelle pagine del Fuoco. Qui non solo si gioca il potenziale semantico delle statue, ma anche l’organigramma simbolico della pietra22, che lega a distanza i nomi di questi scultori con Michelangelo e via via addietro sino al «senso ellenico delle cose», laddove luce e pietra sono codici che contrassegnano una medesima, segreta, melodia.

La descrizione che prosegue nei paragrafi successivi, sorretta dall’istituto dell’ekphrasis riferito all’impianto marmoreo osservato, testimonia una grammatica della sinestesia che giustifica il confluire degli stati della forma («le pieghe della tunica e del manto sono musicali come le dita che toccano le corde, come le labbra che modulano i carmi») (12), concludendosi nella tipica epifania panica dei sensi (ancora di memoria alcyonia): «e tutta la profonda foresta è in ascolto come ogni sua foglia sia mutata in orecchia eretta» (13). Il materiale luminoso, metamorfico, alcyonio è presente in tutta la descrizione, che diventa epifania musicale. Il punto di partenza per il sortilegio è individuato negli elementi della natura, colti nel loro divenire, nella loro metamorfosi che è significato d’arte:

«Penso che a lui [a Luca della Robbia] s’inumidissero i cigli al verzicare delle foglie nuove quando appena schiuse lucevano non men di quelle c’egli invetriava; e imagino che non potesse trattener le lacrime vedendo sorgere il tenero dito verde in vetta a quel pino che gli dava sì belle pigne pei festoni o biancheggiare il primo fiore di quel torto cotogno col qual gareggiava in produrre la mela gialliccia e laguginosa». (15)

Il pretesto visivo serve a significare il motivo della musica e della voce. L’ekphrasis richiamata infatti non offre solo referenze visive, come si è detto, ma anche musicali, e stabilisce il tipico legame ermeneutico agito nell’esercizio figurativo23. D’Annunzio parte dal sostrato marmoreo per modulare un concerto di voci. Si tratta del motivo della «maschera viva che il canto crea sul volto di chi canta, la quale ha una misteriosa rispondenza col timbro» (16). L’insistenza della ripresa di temi alcyoni sta a indicare quell’intreccio continuo che si è precisato agli inizi del discorso; intreccio secondo il quale un particolare dettaglio estetico viene riadoperato ogni qualvolta si tratta di circoscrivere le capacità percettive e interpretative del soggetto. Siamo, come s’è detto, agli inizi della stagione notturna, ma l’educazione simbolica dei sensi perdura senza limiti di poetica così com’era nella più viva stagione solare. Per di più, s’aggiunga, con parole di Emerico Giachery, che «il referente […] per la notturna fatica di trascrizione artistica sia già esso stesso arte»24.

Riprendendo poi motivi provenienti da una specifica cultura medievale, legata alla metafisica delle affectiones, d’Annunzio arriva a indicare la voce come «tentacolo dell’anima oscurissima». Si intrecciano così più motivi cari allo scrittore. Da un lato, e su questo tornerò inevitabilmente, il gioco estetico-perfettivo, tra seduzione e ossessione, della voce. Basti solo fare un cenno alla somiglianza delle voci delle due donne nel Piacere. Dall’altro è richiamata in queste pagine tutta una specifica cultura europea connessa ai problemi dell’acustica, del suono e della vocalità25. Per sintetizzare i modelli culturali, basti ricordare la ripresa dei problemi legati all’«intonation de [l]a voix» discussi da Théodule Ribot nel volume dedicato alle Maladies de la personnalité del 1885 e più volte ristampato, ben noto a d’Annunzio26. Ma il punto di incontro è ancora più significativo. Perché tra le righe l’autore lascia una frase su cui è bene soffermarsi perché racchiude un’idea della voce e della parola che è di per sé una dichiarazione di poetica di non poco conto, soprattutto pensando alla perizia pregrammaticale pascoliana. D’Annunzio non dichiara qui una parentela con ciò che sperimenta Pascoli, ma certamente si sofferma su un punto nevralgico relativo al rapporto tra parole e suono che ha scosso la sensibilità di entrambi gli scrittori. Nel Fuoco il poeta discuteva del «Motivo» come trasposizione della «parola dell’Elemento», della trasfigurazione da suono a voce, come se nel primo fosse secretato il senso e nella seconda la forma. Questa duplicità ancora neo-platonica sta a origine di plurali sviluppi tanto del ritmo quanto dell’astrazione simbolica. È in tale direzione che il gesto vocale chiude in se stesso la perifrasi di tutti i sensi proiettati sul reale:

«Dove si compie questa sorta d’alchimia enarmonica per cui l’essenza musicale del sentimento occupa e trasmuta il vocabolo vacuo? Non una parola ma il suono d’una parola determina i grandi eventi reali e ideali». (18)

L’ultimo periodo è estremamente significativo: è il «suono d’una parola» a determinare «i grandi eventi reali e ideali», come se la parola stessa fosse, a sua volta, proiezione di un pensiero musicale originario e pregno di potenziale semantico da esperire. Il fonosimbolismo assume dunque alla luce di queste dichiarazioni un aspetto estremamente significativo, teso anche a sostenere una prosa che ricorre più alle ermeneutiche ritmiche che non alle distensioni strutturali27, quasi una valenza «ultra-grammaticale» se volessimo azzardare una quarta categoria da aggiungere a quelle continiane pensate per Pascoli28.

Dopo queste disamine, teoriche e descrittive, restando sempre nella prima puntata della Favilla, d’Annunzio introduce uno spazio mnemonico col ritmo di un «Mi ricordo», ribattuto poco oltre con un altro «mi ricordo ancóra». Il primo spazio memoriale, come già sperimentato in altre faville, è situato durante un viaggio, in treno29. Alla stazione, presentata in modo analitico attraverso l’accatastamento di dettagli, diremmo quasi espressionistici per la loro tensione plastica, cromatica e formale, all’acme dell’idea che «tutta la vita era ignominia e rimbombo», ecco l’epifania d’una voce alzatasi a interrompere l’«orrore»:

«Ed ecco, nello scompartimento attiguo, una voce feminea, ricca e dolce come quella che imaginiamo abitare il divino petto di Calliope, si levò d’improvviso, in suono di festa come se parlasse a rallegrare un bimbo sonnacchioso, ripetendo più volte il nome della città notturna: “Nabresina! Nabresina!” E l’orrore s’interruppe. “Nabresina!” E mi parve di bere d’un fiato quella tazza piena del caldo Sud – a beaker full of the warm South – sospirata dal poeta d’Endimione». (20)

La memoria culturale è sempre tesissima. Al potere evocativo della voce si assommano la forza del “nome” pronunciato (evocato), la metafora del bere (tipicissima in d’Annunzio, specie in chiave sinestetica)30 e il canto dell’usignolo (dall’Ode to a Nightingale di John Keats – che potrebbe ricondurci al sortilegio musicale descritto nel giardino dell’Innocente)31.

La prima epifania, sorta nel primo ricordo, è legata a una situazione ferroviaria; la seconda epifania, poco oltre, scatta durante una cavalcata. Non occorre insistere oltre su questi due motivi centrali nell’opera dannunziana. Cambia ora completamente la situazione spaziale: il Cairo, nella Moschea dei Fatimiti. Specularmente al primo blocco-ricordo, d’Annunzio procede dapprima elencando elementi negativi, pesanti, orridi: «teste truci o difformi, corrose da morbi o ingombre di sudiciume, avanzi di stirpi distrutte, di religioni morte, di catastrofi senza memoria» – quasi come se a quest’altezza lo scatto epifanico non potesse che sorgere, dantescamente, dopo le peggiori nefandezze somatiche –, passando ancora per la metafora del bere, in tal caso della «sete», e infine l’epifania della voce:

«E giù per la scala dello Studio della gente siria discendeva una voce tanto divina ch’io mi credetti voltare la pagina dell’ombra e nell’altra pagina mirare l’Arcangelo giunto col Profeta al bacino paradisiaco di Kaotzer sul cui margine sorgono le cupole di rubini, di smeraldi e di perle». (21-22)

La voce è ancor più carica di potenziale semantico perché pronuncia odi sacre. L’ascolto di tali suoni coincide con un acutizzarsi dell’attenzione, e una perdita del principium individuationis che figura, nella fattispecie, come volo spazio-temporale nella memoria. Memoria visiva e memoria acustica circonfondono la sensazione primaria, maturando così l’idea di una esperienza di là dal senso comune. Due ricordi, due situazioni stranianti e sospese, al fine di introdurre un terzo caso, quello che viene solo anticipato nella prima puntata: «altri ricordi ho di voci maliose; ma uno è di tutti il più bello perché è pieno di dolore» (23). Sarebbe stato difficile non prevedere l’innesto del patimento, pensando all’esperienza notturna che mescida piaceri e dolori (anzitutto della carne) profondendo costantemente ispirazioni neo-francescane e martirizzanti.

Il primo blocco dunque si configura come molte altre faville già edite sul «Corriere». Sia per quanto concerne il piano descrittivo, che sovrasta quello narrativo, sia per la carica simbolica del dettato, sia, infine, per la specificità metaletteraria che sostenta la sillabazione, attenta e fittizia, della memoria. L’anticipazione finale (e il Continua) suggerisce un primo (seppur molto labile) sospetto di differenziazione dall’impianto favillare sino ad allora sperimentato. Le prime Faville erano in sé chiuse, sospese in un tempo della memoria senza possibilità di durata. Un tempo, semmai, verticale presiedeva a evoluzioni e modificazioni interne. E vedremo che, seppure nelle intenzioni ci sia l’idea di una continuità narrativa, anche nella Violante si rigenera questo tipo di vincolo (connaturato al progetto simbolista).

Così come nella Leda senza cigno anche all’inizio della seconda puntata della Violante l’autore adduce qualcosa che sta nel «libro segreto della […] memoria», quasi a dover di necessità imprimere un carattere memoriale e veritativo alle pagine a seguire; nonché suggerire l’evidente richiamo all’incipit della Vita nuova dantesca. In generale, come si è potuto mostrare anche altrove, la memoria di Dante è fortemente presente alla scrittura favillare. La seconda puntata si apre in modo particolare: mentre nella prima parte i ricordi erano scanditi da incipit chiarificatori ed evidenti, ora il tema del ricordo è inserito nel testo a partire da un altro testo (memoriale) precedente; se non una vera e propria mise en abyme, certo un duplice livello delle dimensioni temporali. La prima memoria messa a verbale è tutta fatta di reminiscenze percettive proposte all’interno dell’abituale intelaiatura artistica. Al centro del ricordo: la Donna d’oltremare, mascherata anzitutto dai “nomi”, prima Meliadusa poi Violante, per la «somiglianza con la più bionda fra le donne di Jacopo Palma». Il riferimento è alla tela di Palma il Vecchio (1480-1528) dedicata alla figlia del pittore, Violante. Troviamo ragguagli sul quadro nel Taccuino XXX del 1899 nonché un rapidissimo appunto nel Taccuino 12 del medesimo anno32.

Poco oltre, introducendo il secondo ricordo, d’Annunzio ancora segue il sentiero delle riflessioni metaletterarie. E questa volta lo fa ipotizzando un «Trattato della Traspiantazione»; il termine, nel corso dell’Ottocento, si trova perlopiù in trattati di chirurgia e medicina. Qui sta a indicare un principio centrale della poetica dannunziana (dell’analogia del segno), specificato poco oltre in chiave metaforica:

«Nulla è più commovente che il ritrovar d’improvviso una traccia o una figura d’arte nota e diletta in un luogo estraneo, come un fiore del nostro clima in un orto settentrionale». (29-30)

Il protocollo analogico, che induce e conduce l’epifania, è descritto come il riconoscimento di qualcosa di estremamente noto, ben sedimentato nella memoria, all’interno di un contesto, di una forma, di un orizzonte, invece, nuovo, mai visto prima. L’identificazione del noto nell’ignoto fa scattare la vicenda epifanica, l’effetto di «trasognamento». Va specificato però, perché è caratteristico in d’Annunzio, che tale dettaglio frapposto fra dimensioni note e ignote, è ricavato da esperienze dei sensi, e non tanto della coscienza (e difficilmente apre spazi dilatati del tempo perduto come in Proust). Si ripete dunque fondo la centralità di una memoria, s’è detto, materiale, e artistica. Gli esempi che seguono nel testo lo dimostrano ampiamente. Leggiamone un campione scelto quasi casualmente tra gli esempi proposti dall’autore:

«Non altrimenti un giorno a Sant’Eustorgio, entrando nella Cappella di San Pietro Martire edificata da Pigello Portinari gestore fiorentino delle rendite del Duca di Milano, con una novissima allegrezza mi parve quasi respirarvi a un tratto un po’ dell’aria che palpita intorno al pergamo del Duomo di Prato, già pènsile nido de’ miei sogni puerili; poiché quei putti grassocci, dalle facce piene sotto le dense ciocche, atteggiati a un ardito vigore, non erano se non i fratelli dei giocondi danzatori pratesi; e le pingui campane di frutti, se bene senza battaglio, sonavano per me la melodia che s’ode a primavera in sul Bisenzio, là dove Mona Amorrorisca ride al Firenzuola. Più dolce mi parve, in una basilica d’opera laterizia e in un inverno nebbioso, perché fuor di luogo e fuori di tempo? Non so. O lo so bene». (31, sottolineatura mia)

È lampante che la resa pratica dello scatto epifanico abbia come pretesa nei confronti del lettore una cultura del dettaglio artistico di non poco conto. Gioco che, come sappiamo, d’Annunzio già orchestrava sagacemente nelle pagine del Piacere33.

Il lungo excursus metaletterario, farcito di esempi dottissimi dal punto di vista della cultura figurativa, è servito a d’Annunzio per ricapitolare la modalità di osservazione lasciata nei confronti della «Donna d’oltremare». Ogni eventuale traccia narrativa è stato sino a qui surclassata dalla mania accumulatoria di dettagli simbolici. I tempi seguono questa dinamica. Al passato è, sino a qui, relegato il compito di giustificare l’osservazione epifanica, l’azione del dispositivo analogico attraverso il quale conoscere il reale; al presente è preservata l’eventuale azione da sviluppare: «Ora ogni giorno è in me qualcosa di quel sentimento insolito e recondito, quando guardo la Donna d’oltremare che cammina su l’ombra dei cipresso» (32-33). Il vivere del soggetto si limita a «visioni» e «meditazioni», e ogni immagine termina col produrre interiormente «la fluidità dei pensieri musicali». Tutto il ritmo della pseudo-narrazione è scandito secondo le pagine di tale «rubrica» che compone, come annunciato dall’autore in apertura, il «libro segreto della memoria». Brevissimi periodi legano i passaggi ivi ricavati, nei quali avviene il ritrovamento di lontane similitudini e distanti esperienze simboliche.

E a poco a poco che si prosegue nella lettura di questi lacerti del passato ci si rende conto che l’attenzione dannunziana insegue sempre la scoperta di un «ritmo» musicale «infinito». Sia esso celato nella natura, sia nelle pietre destinate a diventare altro da sé per opera dello scultore (ritorna il nome di Michelangelo). Ed ecco, poco, oltre un’altra significativa parentesi metaletteraria, in cui si fronteggiano i segni del ritmo e la rêverie dell’indefinito:

«Qual ritmo plastico modella la sostanza del mondo? Le generazioni delle piante, delle rocce, della nuvole sono immuni dalla bruttezza; così certe specie di animali. Si può dire che i caratteri della deformazione e della miseria fisica si facciano più frequenti e più palesi nelle bestie prossime a noi. Un fantasma della nostra mestizia esala dalla carcassa d’un vecchio cavallo stanco, dal muso d’un cane malato o negletto. Ma l’indeterminabile diversità del volto umano, ma le imprevedute apparizioni della bellezza fuor d’ogni legge di retaggio e di cultura, ma le viventi imitazioni che talvolta la Natura fa dei tipi eternati dall’Arte, ma le recenti mistioni di sangue colate in un’impronta antica, ma i simulacri di Apollo, di Erme o di Pallade risorgenti in carne dalla profondità della barbarie, ma il supremo fiore d’una stirpe dischiuso sul ramo d’una stirpe estranea ed avversa, ma tutti questi travagli e giochi divini della specie efimera si compiono in un mistero più stupendo di quello che aggruppa le nebulose». (35-36)

Il bisogno di metafisica qui presentato è ancora quello che a d’Annunzio ha insegnato Angelo Conti negli anni luminosi consumati tra il Fuoco e le Laudi, il Conti della Beata riva, ma soprattutto il Conti della Georgica dello spirito e del Ritmo della musica. La scrittura del mondo è segnata negli effetti dei sensi e, scrive Conti, «ogni cosa del mondo ha un ritmo». Il simbolo, a sua volta, scaturisce da una dialettica inquieta, sospinta tra superficie e profondità, tra «visione profonda» e linee del volto delle cose; una dialettica che conduce all’emozione estetica veduta nel mistero dell’«idea»34. L’arte mima dunque se stessa nelle «forme», nella transizione delle «forme», sino a ritrovarsi come puro simulacro mentale che riceve senso dalla «Natura». Le operazioni della memoria stanno nel mezzo a stimolare l’imagery prodotta. In questa teoresi dei sensi la «bellezza» è «impreveduta», e il mistero che ne consegue, velato di malinconia, come ebbe a sensibilizzare lo Hofmannsthal lettore del Trionfo della morte, sopravvive di nuova vita nel transitorio.

Il passaggio successivo dipana un tableau figurativo che insegue la «favola» che fa di Violante non più la «figliuola di Jacopo e amica di Tiziano», bensì «l’incendio», il suo nome diventa quello «di una stagione ardente e ambrata intra Fusina e Murano» (37). Scorrendo il tableau richiamato l’autore si concede la già utilizzata ricerca dei segni della bellezza attraverso la trasfigurazione artistica. Il decoro figurale di Violante appare dalla trascrizione figurativa di svariate icone lucidamente sovrapposte (d’Annunzio richiama le «Tre sorelle», le «Lucrezie», le «Flore», le «Veneri», sino all’«Allegoria dell’amor sacro e dell’amor profano»). L’iconografia non passa ancora però al dettato sonoro; tutto appare al ricordo suscitato dal «nome della Donna d’oltremare», tranne, per il momento, la voce «ch’era forse più bella della sua bellezza e impensatamente più bella divenne quando successe l’orribile strazio» (38), quasi già a preludere che il codice sonoro sarà l’unico continuo depositario di un senso del bello che le altre dimensioni sono destinate a infrangere.

La terza puntata si apre all’insegna del silenzio, solita prefigurazione di ogni dettaglio sonoro e musicale. La creatura osservata è «taciturna». Ancora un’insistenza figurativa collabora alla sostanzializzazione della figura. Tutto è predisposto a suscitare il sortilegio del contrasto. La voce attesa deve sopravvivere e intervenire dopo un silenzio che pare essere «cumulo dei secoli». Ecco dunque il primo vero scatto narrativo (in fondo debolissimo di per sé) di questi testi proporsi dalla voce viva di Violante. Quella che solitamente è attenzione visiva che connatura il protagonista del dettato si trasforma nella seduzione del vero che la donna (definita «Amazone maschia») che il soggetto ha dinanzi inscena attraverso il dialogo: «Ella mi cercava di là dalla mia arte, mi scrutava nel fondo della mia migliore amarezza» (43). Per quanto concerne l’identificazione del profilo femminile, la critica ha fatto sia il nome di Romaine Brooks (verrebbe da pensare al soggiorno di d’Annunzio a Ciboure nel ’12) sia quello di Nathalie de Goloubeff. Ma credo sia più efficace alla prova del testo l’idea, prima di Emilio Mariano e ribadita poi da Pietro Gibellini, di vedere nella donna una «sovrapposizione di figure»35 (perché non suggerire dunque anche i nomi dell’«amazone» Natalie Clifford Barney e di Ida Rubinstein?).

Torniamo al testo. L’ipnotica voce di Violante non può non suscitare nello scrittore anche l’icona della Sirena, che, nella fattispecie, promette una «grande solitudine». Appare, a questo punto, l’ennesima figurazione dei seducenti poteri di una femme-fatale che porta all’esperienza limite della morte, «fino alla soglia», e che sa guardare «come una Medusa che non tema l’arpe di Perseo» (46). Il gioco di seduzione/crudeltà continua nella richiesta di Violante di avere come dono il cane da corsa più amato dal protagonista36. La scelta cade su Timbra, «una grande cagna di quella razza tartara che nell’originaria steppa asiatica difendeva la tenda contro le belve notturne e non temeva di battersi col leopardo»; la descrizione dell’animale prosegue a lungo.

La scena si sposta poi al momento in cui il poeta conduce Timbra alla villa di Violante. Una certa ansietà crescente ritma il percorso del protagonista alla ricerca della donna nel giardino della vecchia villa toscana. La ricerca e il cammino seguono la trasfigurazione della donna, la quale torna ad essere simulacro di figure d’arte. I passaggi sono giocati sul binomio presenza/assenza di Violante. Lei non c’è (come viene ripetuto a Timbra), ma restano i segni/simboli di un suo passaggio. A poco a poco la ricerca, all’interno di una scenografia metamorfica, fatta di profumi e rovine, diventa quasi itinerario mistico, sino all’epifania della voce:

«Era la voce magnetica. Armonizzata con la visione, sonò come l’argento. Non potevo sapere perché quell’allegrezza sbigottita mi desse un così gran sussulto; né perché tanto mi tremasse il cuore, quando udii la stessa voce mutata gridare: «No! No!» Ma certo quell’accento d’angoscia e di terrore non fu se non un’illusione dell’udito, nella sonorità della scala, mentre appunto le mie mani mi scorrevano su gli orecchi, su i cigli, su le narici, su le gote per toglierne il fastidio dei fili di ragno». (51)

La vicenda non è così conclusa. Il materiale a suo tempo prodotto da De Michelis presentava anzitutto una «quarta favilla»; poi le «note per “La Violante”»; la «Sera del solstizio» e le pagine del Libro segreto dedicate alla vicenda. Volendo però qui intendere il progetto non-finito quello esclusivo delle pagine del «Corriere della Sera» non procederò nella lettura degli altri testi. È evidente, specie dalle pagine del Segreto, che la vicenda di Violante-Hermia (così viene specificato il suo nome da d’Annunzio)37, conclusasi con un «evento tragico», è nella mente di d’Annunzio una storia conclusa, e definita. Non lo è stato nella sua trasfigurazione simbolica. I passaggi, le ricche pause lirico-descrittive, hanno dato origine a un tempo sospeso e verticale. Il non-finito resta dunque connaturato allo stesso progetto simbolista che di per sé può sì ipotizzare una chiusura, diremmo, orizzontale del tempo (anche se non realizzata nel nostro caso), ma non può permetterla nella sua verticalizzazione. Anche il dispositivo ekphrastico adoperato per garantire una forma di conoscenza assoluta e totale è ingestibile ipotizzando una chiusura e una compiutezza del dettato. Tante possono infine essere le ulteriori cause, contingenti o meno, che hanno lasciato queste tre faville sole sulle pagine del «Corriere della Sera», senza alcuna prosecuzione (per quanto promessa). Quasi certamente, ripetendo e chiudendo, i caratteri simbolici, la tensione meta-letteraria, l’intenzione incantatoria delle atmosfere hanno contribuito a sospendere il bisogno di chiusura, evidenziando la traccia di una rêverie dell’incompiuto che può trovare da sé le sue, eventuali, fascinazioni.


NOTE

1 Gabriele d’Annunzio, Studi su Gesù. Appunti, Taccuini, Parabole, a cura di Angelo Piero Cappello, Reggio Calabria, Iareni, 2021, pp. 12-13.

2 Gadda è, nel Novecento italiano, uno degli esempi maggiori della fenomenologia del non-finito. Cfr. almeno il volume Meraviglie di Gadda, a cura di Monica Marchi e Claudio Vela, Pisa, Pacini, 2014. Il rapporto d’Annunzio-Gadda è stato affrontato sotto svariati aspetti (cfr. ad esempio Antonio Zollino, Il vate e l’ingegnere. D’Annunzio e Gadda, Pisa, ETS, 1998). Offrirebbe sicuramente risultati interessanti procedere anche con un confronto tra i due scrittori sulle metodologie di lavoro, sulle processualità genetiche e su certe approssimazioni testuali.

3 Cfr. Cristina Montagnani, Pierandrea De Lorenzo, Come lavorava d’Annunzio, Roma, Carocci, 2018.

4 Cfr. Giorgio Zanetti, D’Annunzio lettore segreto, in Memorie, autobiografie e diari nella letteratura italiana dell’Otto e Novecento, a cura di Anna Dolfi, Nicola Turi e Rodolfo Sacchettini, Pisa, ETS, 2008, pp. 161-182.

5 Jean Starobinski, Le ragioni del testo, Milano, Mondadori, 2003. Sul motivo del non-finito cfr. Non finito, opera interrotta e modernità, a cura di Anna Dolfi, Firenze, FUP, 2015.

6 Per i quali cfr. Clelia Martignoni, Le prime «Faville del maglio» (1911-1913), in D’Annunzio notturno. Atti dell’VIII Convegno di studi dannunziani, a cura di Edoardo Tiboni, Pescara, Fabiani, 1987, pp. 63-81; Ead., «Sull’elaborazione delle “Faville del maglio”», in D’Annunzio, il testo e la sua elaborazione. «Quaderni del Vittoriale», 5-6, ottobre-dicembre, 1977, pp. 308-53; Ead., «Intorno alle Faville del maglio e alla sperimentazione diaristica» in Gabriele d’Annunzio 150. “Vivo, scrivo”, a cura di Giordano Bruno Guerri, Milano, Silvana Editore, 2014, pp. 65-75.

7 Per questo gruppo di Faville mi permetto di rimandare al mio D’Annunzio o della malinconia. Le Faville del maglio: esempio di Journal intime, in «Otto/Novecento», XL, 2, 2016, pp. 23-44.

8 Gabriele d’Annunzio, La Violante dalla bella voce, a cura e con un saggio di Eurialo De Michelis, Milano, Mondadori, 1970; indicherò tra parentesi il numero di pagina riferendomi a questa edizione.

9 Gabriele d’Annunzio, Lettere ai Treves, a cura di Gianni Oliva, con la collaborazione di Katia Berardi e Barbara di Serio, Milano, Garzanti, 1999, p. 458.

10 Cfr. Clelia Martignoni, Altri «Aspetti dell’ignoto»: sulla Contemplazione della morte, in D’Annunzio a cinquant’anni dalla morte. Atti dell’XI Convegno internazionale di studi dannunziani, Pescara, 9-14 maggio 1988, a cura di Edoardo Tiboni, 2 Voll., Pescara, Centro nazionale di studi dannunziani in Pescara, 1989, Vol. II, pp. 363-381. Cfr. anche Carla Pisani, Filologia e poesia tra Pascoli e d’Annunzio, Venezia, Marsilio, 2010.

11 Gabriele d’Annunzio, Lettere ai Treves, cit., p. 458.

12 Ivi, p. 732.

13 Cfr. Arnaldo Di Benedetto, Un commento alla «Violante», in «Lettere italiane», 24, 3, 1972, pp. 379-386.

14 Rimando ai miei Sulle Faville del maglio (1911-1913) di d’Annunzio. Appunti di lettura e una prova di commento e D’Annunzio, la memoria e la rêverie del non-finito. Note di lettura sulle prime Faville del maglio (1911-1913), entrambi in corso di stampa.

15 Nel discorso che lega le letture del mondo a partire da una comune analogia sottostante, ideale, è bene tener presente che sia per d’Annunzio sia per il sodale Conti erano fondamentali le pagine di Jean-Marie Guyau, Les problèmes de l’esthétique contemporaine, Paris, Alcan, 1884.

16 Cfr. Ricciarda Ricorda, Dalla parte di Ariele. Angelo Conti nella cultura di fine secolo, Roma, Bulzoni, 1993 e Giorgio Zanetti, Estetismo e modernità. Saggio su Angelo Conti, Bologna, Il Mulino, 1996. Fondamentali in proposito i materiali raccolti e commentati da Gianni Oliva, I Nobili spiriti. Pascoli, D’Annunzio e le riviste dell’estetismo fiorentino, Venezia, Marsilio, 2002.

17 Senza che le sintomatologie di terrore e violenza affiorino direttamente nel tessuto verbale, anche il continuo rarefarsi della serenità delle forme è indice di un’ansietà dell’informe. Il discorso va ricondotto a certe teoresi romantiche che davano al movimento del reale la configurazione di un pathos in divenire che fa dell’ontologia una teologia della materia. Ne discuteva anche l’Edgar Wind dell’Eloquenza dei simboli (Milano, Adelphi, 1992).

18 Sul simbolismo dannunziano resta imprescindibile la ricerca di Ezio Raimondi, Il silenzio della Gorgone, Bologna, Zanichelli, 1980. Si veda poi l’acuta disamina di Sandro Maxia (che a sua volta ridiscute importanti riflessioni di Glauco Viazzi), La fontana, il fiore, la statua. Metamorfosi del simbolo equoreo nelle Vergini delle rocce, in Id., D’Annunzio romanziere e altri narratori del Novecento italiano, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 58-82.

19 Cfr. il denso capitolo di Isabella Nardi, Gli aspetti dell’ignoto: La Leda senza cigno, in Ead., Dal “simbolo” all’”ignoto”. Studi sul simbolismo dannunziano, Milano, Vita e Pensiero, 1976, pp. 92-112; l’agile, ma ricchissimo, volumetto in questione meriterebbe un’ampia discussione in relazione all’evolversi interno del progetto simbolista dannunziano.

20 Gabriele d’Annunzio, Alcyone, edizione critica a cura di Pietro Gibellini, commento di Giulia Belletti, Sara Campardo ed Enrica Gambin, schede metriche di Gianfranca Lavezzi, Venezia, Marsilio, 2018, p. 104.

21 Cfr. Giorgio Zanetti, Angelo Conti e la visione del sublime, in Id., Il Novecento come visione. Dal simbolismo a Campana, Roma, Carocci, 1999, pp. 61-99.

22 Cfr. Maria Teresa Marabini Moevs, D’Annunzio e le estetiche della fine del secolo, L’Aquila, Japadre, 1976 (su andrebbero aperte nuove e più approfondite questioni). Cfr. anche Emanuela Scicchitano, «Io, ultimo figlio degli elleni». La grecità impura di Gabriele d’Annunzio, Pisa, ETS, 2011.

23 Sull’evoluzione del concetto di ekphrasis nella cultura estetica tra Otto e Novecento cfr. Francis Haskell, History and its Images: Art and the Interpretation of the Past, Yale, Yale University Press, 1993.

24 Emerico Giachery, Le «Faville» del 1928, in D’Annunzio a cinquant’anni dalla morte, cit., Vol. II, pp. 383-395, cit. p. 391.

25 La bibliografia in proposito è molto vasta; cfr. il sempre prezioso lavoro di Antonio Serravezza, Musica e scienza nell’età del positivismo, Bologna, Il Mulino, 1996.

26 Rimando al mio D’Annunzio lettore di psicologia sperimentale. Intrecci culturali: da Bayreuth alla Salpêtrière, Firenze, SEF, 2018.

27 Inevitabile in tal senso il rimando allo studio di Gian Luigi Beccaria, Figure ritmico-sintattiche della prosa dannunziana, in Id., L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli, D’Annunzio, Torino, Einaudi, 1975, pp. 285-318.

28 Cfr. Gianfranco Contini, Il linguaggio di Pascoli, in Id., Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, 1970, pp. 219-245.

29 Sul tema del treno in letteratura cfr. Remo Ceserani, Treni di carta. L’immaginario in ferrovia: l’irruzione del treno nella letteratura moderna, Torino, Bollati Boringhieri, 2002.

30 Cfr. Niva Lorenzini, Il segno del corpo. Saggio su d’Annunzio, Roma, Bulzoni, 1984.

31 Cfr. Manuela D’Amore, I mille volti di Ariel. Suggestioni inglesi nell’opera di Gabriele d’Annunzio, Catania, CUECM, 2002.

32 I testi dei taccuini si leggono in Gabriele D’Annunzio, Taccuini, a cura di Enrica Bianchetti e Roberto Forcella, Milano, Mondadori, 1965 (numerazione romana) a cui è seguito, nel 1976, per le cure della Bianchetti, il volume Altri taccuini (numerazione araba).

33 Su questo problema specifico cfr. Marinella Cantelmo, Il cerchio e la figura. Miti e scenari nei romanzi di Gabriele d’Annunzio, Lecce, Manni, 1999.

34 Cfr. la disamina di Giorgio Zanetti, Estetismo e modernità, cit.

35 Cfr. Gabriele d’Annunzio, Libro segreto, a cura di Pietro Gibellini, Milano, BUR, 2018.

36 Su questo aspetto cfr. Cristina Mazzoni, Rappresentazione della violenza/violenza della rappresentazione: “La Leda senza cigno” e “La violante dalla bella voce” di G. D’Annunzio, in «Forum italicum», 29, 1995, pp. 266-285.

37 In generale sul motivo del “nome” in d’Annunzio cfr. Angelo Raffaele Pupino, D’Annunzio. Letteratura e vita, Napoli, Salerno, 2002.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.