Conversazione su matematica e poesia fra Antonino Contiliano, Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi

Giacomo Cuttone, Ritratto pixellato, acrilico su tela 50×70, 2017

Conversazione su matematica e poesia fra Antonino Contiliano, Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi

per Giuseppe Panella


Antonino Contiliano (a cura di)

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Prima di avviare la conversazione con i professori Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi, desidero esprimere loro il mio saluto. Un grazie, cioè, per aver accettato sia il mio invito per una chiacchierata su matematica e poesia, sia l’intenzione di dedicare la conversazione stessa all’amico scomparso Giuseppe Panella (filosofo, saggista e poeta). Fra le opere di Panella ricordiamo: Il lascito di Foucault (Giuseppe Panella e Giovanni Spena, 2006); L’arma propria- Poesie per un futuro trascorso (2007); Il secolo che verrà- Epistemologia letteratura etica in Gilles Deleuze (Giuseppe Panella e Silvio Zanobetti, 2012); Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide- Georges Bataille: l’estetica dell’eccesso (2014). Come poeta, Giuseppe Panella, ha partecipato anche alle azioni poetiche del soggetto collettivo-anonimo “Noi Rebeldía” (una nostra idea). A cura di Antonino Contiliano sono state pubblicate pure le sillogi “We are winning wing/2012 e L’ora zero/2014”. Due libri di poesia collettiva-anonima le cui copertine portano opere dell’artista Giacomo Cuttone. Con Francesco Sasso, Panella ha curato il “quaderno elettronico di critica letteraria- Retroguardia”. Devo la conoscenza di Giuseppe Panella all’amico Gaspare Polizzi. Anticipiamo pure, così, che questa conversazione sarà visibile sul sito stesso di Retroguardia. Prima di avviare il nostro incontro qualche nota (per gli eventuali visitatori) su Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi.

Giuseppe Mussardo è professore di fisica teorica alla SISSA di Trieste. È Direttore editoriale della rivista scientifica Journal of Statistical Physics and Applications (JSTAT). Tra le monografie scientifiche che ha pubblicato ci sono Il Modello di Ising (2007); Statistical Field Theory (2010) e The ABC’s of Science. È autore anche dei film-documentari Maksìmovic. La Storia di Bruno Pontecorvo (2013) e Galois. Un matematico rivoluzionario (2017).

Gaspare Polizzi, storico della filosofia e della scienza, è membro del Comitato scientifico del Centro Nazionale di Studi Leopardiani. Insegna attualmente all’Università di Pisa. Su Leopardi ha pubblicato cinque volumi: Leopardi e “le ragioni della verità” (2003); Galileo in Leopardi (2007); «… per le forze eterne della materia» (2008); Giacomo Leopardi: la concezione dell’umano, tra utopia e disincanto (2011); Io sono quella che tu fuggi. Leopardi e la natura (2015). Con Giuseppe Mussardo (coautore) ha pubblicato L’infinita scienza di Leopardi (2019).

Ed è dalla lettura di quest’opera che è partita la mia idea di una conversazione con loro su matematica, poesia e scienza (in genere). Scontato è, poi, il fatto che (da parte nostra, non specialisti) l’interesse per l’argomento è quello di un’essenziale curiosità intellettuale.

D.1L’infinita scienza di Leopardi (da voi curata come coautori) annoda scienza, matematica, poesia, immagini, riproduzioni, storia e richiami … in maniera intrecciata, complessa. Vi sembra che possa ancora dire qualcosa alle nuove generazioni dello smartphone? Queste (generalmente) sono le generazioni volte più al divertissement e ai piaceri individualistici del neocapitalismo spirituale più che ad altre spiagge. Soggetti alla visione neoliberista-capitalistica della mercificazione e della finanziarizzazione della parola e della comunicazione (e senza forzature definibile come una vera avanzata cultura della cancellazione/cancel cultur), o alle annesse pratiche del deep learning – apprendimento profondo – dell’Intelligenza Artificiale, o alle astuzie del soft power – persuadere, convincere, condividere –, o alla seduzione dell’“algoritmo definitivo” (quello che sarebbe capace di governare la plasticità stessa della lingua), non sembra che abbiano una coscienza politico-critica adeguata. Abituati come sono ad esprimersi, valutare e comunicare con emoticon e sticker, o con la simbologia del pollice su/giù sono (secondo voi) in condizione di cogliere il pensiero (complesso) espresso in poesia da Leopardi, o da altri poeti di simile valenza? Come è nata l’idea della vostra coautorialità per la pubblicazione de L’infinita scienza di Leopardi?

Giuseppe Mussardo

L’idea di dar vita all’opera L’infinita scienza di Leopardi è nata molti anni fa all’interno del laboratorio interdisciplinare della SISSA. Io organizzavo un ciclo di seminari a cavallo tra scienza e letteratura privilegiando tutta una serie di autori. Tra questi Galileo, Gadda, Calvino e così via; e ovviamente Leopardi. Parlando di Leopardi chiaramente la figura di Gaspare Polizzi emergeva come grandissimo studioso del poeta. Quindi avevo invitato Gaspare a Trieste a fare una presentazione – un incontro – proprio sulla figura di Giacomo Leopardi. Siccome Gaspare ha sempre privilegiato un po’ gli aspetti scientifici e la formazione scientifica del Leopardi, la cosa ha risuonato subito e preso avvio. Perché Leopardi ha vissuto in un’epoca in cui c’è stata una svolta molto netta nella scienza: diciamo che si passa da una scienza più o meno amatoriale (quella del Settecento) a una scienza che inizia a diventare più istituzionalizzata e soprattutto più incisiva. Quella dell’800, ovviamente, ha tutta una serie di sfaccettature. Sfaccettature che vanno dalla matematica (in primis) alla chimica, alla fisica e così via fino alle ricerche e alle teorie sul gas. Di Leopardi, chiaramente, io sono un grande ammiratore; conosco molte cose ma non sono uno studioso come Gaspare. La mia curiosità era la curiosità verso le radici scientifiche di Leopardi. È tutto ciò che poi ha fatto sì che, insieme, mettessimo mano a questa opera, L’infinita scienza di Leopardi.

Gaspare Polizzi

Innanzitutto, grazie a Nino dell’invito e delle belle parole di presentazione e grazie anche a Giuseppe per quanto ha detto. Devo dire che ho imparato molto da Giuseppe in questo nostro incontro per realizzare L’infinita scienza di Leopardi; ho imparato a mettere insieme le cose in maniera anche efficace dal punto di vista comunicativo e ho anche appreso tante osservazioni e riflessioni di ambito scientifico. Peraltro, il nostro rapporto si è esteso con l’altro nostro libro Tra cielo e terra. In viaggio con Dante Alighieri e Marco Polo, che ci ha fatto tornare ad essere molto partecipi di questo intreccio fra letteratura e scienza.

Vorrei ora rispondere alla domanda di Nino richiamando, come è mia consuetudine, due passi dello Zibaldone. Innanzitutto, uno nel quale Leopardi dice che ci sono “uomini di genio e sensibili, ai quali non c’è cosa che non parli all’immaginazione o al cuore, e che trovano da per tutto materia di sublimarsi e di sentire e di vivere, e un rapporto continuo delle cose coll’infinito e coll’uomo, e una vita indefinibile e vaga, in somma quelli che considerano il tutto sotto un aspetto infinito” (Zib. 103). Ecco questi “uomini di genio e sensibili” credo che ci siano sempre stati e spero e mi auguro che ci siano e che ci saranno sempre, quindi anche i giovani di oggi e i giovani futuri, se sono di genio e sensibili certamente avranno “una vita indefinibile vaga” e considereranno “il tutto sotto un aspetto infinito”. E quindi potranno apprezzare la poesia di Leopardi.

Un’altra osservazione che richiamo riguarda il desiderio del piacere “il desiderio del piacere essendo materialmente infinito in estensione (non solamente nell’uomo ma in ogni vivente), la pena dell’uomo nel provare un piacere è di veder subito i limiti della sua estensione, i quali l’uomo non molto profondo gli scorge solamente da presso. Quindi è manifesto 1. perché tutti i beni paiano bellissimi e sommi da lontano, e l’ignoto sia più bello del noto; effetto della immaginazione determinato dalla inclinazione della natura al piacere, effetto delle illusioni voluto dalla natura. 2. perché l’anima preferisca in poesia e da per tutto, il bello aereo, le idee infinite” (Zib. 169-170).

Credo che possiamo sottoscriverlo. Ma direi che questo desiderio del piacere è proprio soprattutto dei giovani. Allora se i giovani anche oggi, anche attraverso lo schermo degli smartphone, hanno questo desiderio di “idee infinite”, non possono non partecipare della poesia di Leopardi. Il problema semmai è – e non è un problema di poco conto – comunicativo e pedagogico: se i nostri giovani riescano ancora a trasformare questo desiderio di piacere in parole e in poesia, cioè a trasformare questo “desiderio di idee infinite”, che sicuramente hanno come tutti i giovani hanno sempre avuto, in parole e poesia. Speriamo che sia possibile questa trasformazione, ma questo ci porta a sottolineare che la poesia di Leopardi può essere ancora apprezzata è compresa dai giovani.

D.2– Numeri e parole non sono la stessa cosa (il numero desoggettivizza lì dove la parola, tra determinazione e indeterminazione, metafore, metonimie, inversioni e altra tecnologia artistico-poetica compositiva, implica invece processi di significazione soggettiva). Come significanti, i numeri e le parole (sebbene la parola conservi il potere di interpretare il numero) simbolizzano e danno forma al divenire della realtà. Entrambi, grazie all’astrazione e alla simulazione, consentono al pensiero di muoversi anche in direzione di un senso possibile delle cose (non sono una semplice e asettica descrizione delle cose). Possono contribuire (per ognuno e tutti) a una comune “felicità” conoscitiva e pratica? Nel corso delle mie escursioni tra gli autori che hanno esplorato e argomentato il terreno congiunto-disgiunto di scienza, matematica e poesia – senza dimenticare la bella “sentenza” di Einstein (“La matematica pura è, a modo suo, la poesia delle idee logiche”) e di Leopold Kronecker (“La matematica è poesia e musica, per chi la intende”), mi sono imbattuto in opere divulgative di fisici, astronomi e matematici che, inoltrandosi e spaziando tra i confini e i limiti di questi linguaggi (volti a simbolizzare e organizzare la conoscenza della realtà), non hanno ignorato il richiamo dei nessi e delle sfumature (dialetticamente posti). Ne ricordo alcuni: Jean Heidmann (L’odissea del cosmo, 1988), Robert H. March (Fisica per poeti, Lo scienziato come uomo e artista: storia della fisica da Galileo ai giorni nostri, 1994), Robert Osserman (Poesia del Cosmo, Esplorazione matematica del cosmo, 1995), Piergiorgio Odifreddi (C’era una volta un paradosso, 2001)), Penna, pennello e bacchetta- Le tre invidie del matematico, 2005), Fisica quantistica per poeti (Leon M. Lederman e Christopher T. Hill, 2011), Bernard D’Espagnat, Alla ricerca del reale- Fisica e oggettività, 1983) e Alan Badiou (Alla ricerca del reale perduto, 2016; Elogio delle matematiche, 2017). Cosa ne pensate del nesso inventivo particolare tra matematica, scienze e poesia. C’è qualche possibilità di simbiosi? Punti comuni non mancano: i paradossi, le evanescenze, le equivalenze, le correlazioni, il tempo, il presupposto di una ideologia più o meno dichiarata, il rifiuto del senso e dell’intuizione comune, la costruzione di oggetti astratti o idealizzati mediante “algoritmi” particolari, ma non meno significanti … Un insieme di elementi, di sottoinsiemi e parti che, somiglianze e differenze (e differenze tout court) in campo, informano e significano oggetti e soggetti di un mondo possibile e plurale (non c’è una sola forma di vita). Il “logos” può essere lo stesso per tutti come il “DNA”, ma la lingua è plurale; e tuttavia non sono impossibili gli incontri. La combinatoria dei segni non esclude intersezioni e scambi nell’uso della tecnologia enunciativa.

Giuseppe Mussardo

Diciamo subito e chiaramente che matematica e poesia si muovono su piani diversi anche se, a un certo punto, condividono pure degli ideali comuni di bellezza. Ma sul concetto di bellezza però bisogna intendersi. Nei due campi, occorre distinguere l’uso del concetto di bellezza. Diciamo chiaro che per la matematica è dove una scienza cerca l’esatto; per la poesia, invece, è un po’ dove ha luogo l’ambiguità; che quanto più è ambigua, ovviamente in senso poetico e non in senso semantico, tanto più, la poesia, è per noi un godimento particolare. Un po’ nella modulazione e un po’ nella lingua dei concetti delle idee, la matematica e il suo linguaggio formalizzato, viceversa, per ciò che puntualizza e ci suggerisce, arriva un po’ al nocciolo delle cose con un linguaggio logico più sintetico, chiaro e univoco possibile. Questa è la bellezza delle formule come le equazioni di Maxwell. Le equazioni logicizzate che in cinque simboli hanno racchiuso tutto quello che rappresenta l’elettromagnetismo intorno alla rappresentazione dei fenomeni luminosi sia elettrici che magnetici. È una sintesi micidiale agli occhi di un fisico e di un matematico. Una sintesi di una estrema bellezza perché è unica, precisa, predittiva.

Gaspare Polizzi

Io risponderei ricostruendo un po’ in qualche modo il modo l’idea che ha Leopardi della matematica perché Leopardi ha un’idea anche abbastanza articolata della matematica e non soltanto una riflessione superficiale.

La riflessione sulla matematica presente nello Zibaldone è molto ampia, indice di un rapporto ambivalente e ‘ragionato’, dovuto da un lato alla ridotta pratica applicativa e operativa, conseguente anche a una relativa carenza di strumenti aggiornati nella fase formativa, dall’altro alla persistente attenzione ‘filosofica’ sia nel riconoscimento della matematica come paradigma esemplare della scienza e della conoscenza, sia nell’intuizione del suo valore come ‘sublime’ esperienza cognitiva.

In quanto modello più perfetto di scientificità la matematica appare a Leopardi la negazione della possibilità stessa del piacere: l’arte del computare nuoce alla grandezza delle cose (Zib, 1378/23 luglio 1821), essa definisce e circoscrive anche ciò che è smisurato, permette di conoscere le parti della natura secondo le regole della ragione, annullando così la sua infinita e straordinaria varietà (Zib, 247/18 settembre 1820). In altri termini, la perfezione matematica assume una dimensione di coerenza logica, mentre è discorde rispetto alla realtà naturale: “la stretta precisione entra nella ragione e deriva da lei, non entrava nel piano della natura, e non si trovava nell’effetto”; conviene all’infinità della natura la dimensione del pressappoco, che meglio riflette le infinite cose che sono e che possono non essere (Zib, 583-4/29-31 gennaio 1821). I filosofi credono che la natura debba essere matematica “e non credono naturale quello che non è preciso e matematicamente esatto”, mentre “è un gran carattere del naturale il non essere preciso”, “il piano, il sistema, la macchina della natura, è composta e organizzata in altra maniera da quella della ragione, e non risponde all’esattezza matematica” (Zib, 584-6/29-31 gennaio 1821). Una tale filosofia delle matematiche farà da contraltare alla riflessione sulla contingenza e variabilità del sistema della natura. Il riconoscimento della pervasività del caso e del pressappoco nella realtà naturale si configura come uno degli apporti più significativi forniti dalle scienze del complesso nell’odierna visione scientifica del mondo; ma mentre Leopardi sviluppa una contrapposizione netta tra astrazione matematica e razionale e concretezza del pressappoco, gli scienziati moderni si sforzano di trovare nuovi strumenti matematici e razionali per leggere proprio quel ‘pressappoco’, al di fuori della rigidità delle matematiche classiche.

Un altro ordine di riflessioni consiste in un nucleo di riflessione che ricerca una comprensione linguistica, filologica e storica, dell’origine dei concetti aritmetici elementari, secondo un classico disegno di storia e filosofia delle matematiche. Senza lingua – annota Leopardi – non vi sarebbe l’idea di numero determinato: grande è la quantità di cose concepite tramite l’idea dei numeri (Zib, 1075/28 maggio 1821) e ciò è sicuramente dovuto allo sviluppo storico delle lingue. L’idea della quantità numerica determinata si presenta come un potente risultato dell’astrazione razionale, come un’invenzione che permette una facile assuefazione al calcolo: “utilissima e necessarissima invenzione e pensamento quello di dividere le quantità” per decine, perché partendo da un’idea composta (quale può essere quella di 3210) si risale facilmente a un ordine di idee semplici ben individuate (3000, 200, 10) (Zib, 1394/28 luglio 1821). Ne consegue da un lato che senza linguaggio non si concepisce la quantità determinata (e ciò è testimoniato anche dal fatto che gli animali non contano) (Zib, 2588/30 luglio 1822), dall’altro che la scienza e la pratica della matematica aiutano la facoltà intellettiva dell’uomo (Zib, 2213/3 dicembre 1821), al punto tale che con l’esercizio anche il più sciocco ingegno può divenire un grande matematico (Zib, 1632-3/5 settembre 1821). La riflessione sull’idea di quantità determinata riguarda specificamente i numeri cardinali, chiamati da Leopardi “nomi numerali” perché con essi si possono contare quantità determinate (Zib, 1073-4/22 maggio 1821).

Infine, la matematica può consentire un’esperienza superiore della realtà, non dissimile da quella propria del poeta, ma peculiare nella sua capacità di cogliere la logica segreta del tutto. Il grande talento può splendere in poesia come in matematica (Zib, 1743/19 settembre 1821), ma l’“immaginativa fondata sul pensiero, sulla metafisica, sulle astrazioni, sulla filosofia, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti” non ha a che fare con la poesia, bensì con la “matematica sublime” (Zib, 275-6/14 ottobre 1820).

D.3– I diversi ritmi, regolari e irregolari, con cui la poesia si rapporta e si misura (penso, per es., alla stessa poesia di Giacomo Leopardi che fluisce “L’Infinito” con il suo singolare ritmo-metron logico/a-logico di pensiero musicale espanso fra le onde dell’universo), potrebbero fare un analogon con la pluralità dei ritmi del Reale (il ‘fuori’) svelato, messo a nudo e identificato (si fa per dire) dai diversi e infiniti insiemi di numeri? (quelli naturali, razionali, irrazionali, immaginari, magici, quantistici, i numeri di Ljapunov. Aleksandr Michajlovič  Ljapunov, il matematico e fisico russo che nello spazio-tempo dei fenomeni caotici (a partire dallo zero) ha inventato il metodo per misurarne le qualità topologiche di stabilità o instabilità degli attrattori significando: 1) lo stiramento-maggiore di zero; la contrazione- minore di zero; 3) la periodicità- esattamente zero; 4) un punto fìsso/esponenti tutti negativi- stato stazionario finale). Fra le pagine particolari o di approfondimento del vostro libro ho letto la bella formula del matematico inglese John Wallis del Seicento, quella del “prodotto infinito che coinvolge tutti i numeri naturali pari e dispari” (p. 145). La formalizzazione cioè che esprime il rapporto frazionario noto come “p/greco”, il famoso numero “π”. Il nome del numero che misura il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio. Altrove, invece, un rapporto numerico, come quello del 5/7/5 dei tre versi (cinque sillabe/sette sillabe/ cinque sillabe) e delle 12 more in corpore – struttura propria agli haiku giapponesi –, esprime invece una bellezza poetica diversamente connotata, singolare (una configurazione non descrittiva, e fuori dagli schemi verbali dell’interpretazione semantizzante occidentale). La poesia degli haiku si muove infatti nel visivo alto/basso, cielo/mare, nuvole/terra. Il tutto immanente della natura cui il verbale poco o affatto può significare. Tuttavia, attorno a questa comune inventività artistico-po(i)etica che sfuma i confini netti dei linguaggi propri alla matematica, alla scienza e alla poesia, cosa si può dire ai tanti che privilegiano solo l’ideologia delle emozioni consumistiche e stereotipate del seno comune?

Giuseppe Mussardo

Vorrei fare un tattico passo indietro perché già, il tuo discorso, è stato molto articolato. Innanzitutto la creatività. La creatività c’è e ce n’è tanta in scienza. Se uno è portato a vedere la scienza come con una cosa arida, una cosa che ha solo i suoi canali molto ben definiti e senza spazio per altre pieghe, in realtà, questo modo di dire e pensare, è un’ottica molto schematica. La tecnica e la scienza in sé sono invece un’attività di enorme ampiezza, esplorazione, ampiamenti. La testimonianza della loro inventività è nell’esempio che facevate prima circa la proliferazione dei tipi di numeri. Ed è una dimostrazione che noi possiamo fare partendo dall’idea del numero naturale per arrivare agli altri. Metaforicamente si può partire dal contare prima un biscotto, poi due biscotti, poi tre biscotti. Da qui estrapoliamo l’idea astratta del numero. Questa è la prima base per individuare il numero naturale. Poi andiamo a vedere un po’ dentro (cosa che è stata fatta da grandi matematici). Questi hanno cominciato a estendere questo insieme di oggetti mediate la scelta di regole precise: per esempio, i numeri naturali hanno le regole della dizione e della moltiplicazione. Bene, astraendo, con queste regole si possono costruire degli altri numeri quali, per esempio, i numeri frazionati che soddisfano esattamente le stesse proprietà e allargano il concetto iniziale ed empirico di numero naturale. Questo è già un passo di enorme creatività: si spostano i limiti e si allarga la nostra realtà. Perché, creando nuovi oggetti, chiaramente, stendiamo un po’ l’universo della nostra conoscenza. Anche per la poesia è esattamente così. Perché dopo che è stata scritta una poesia e dopo che l’abbiamo apprezzata e ce ne siamo imbevuti, chiaramente, anche la nostra realtà è cambiata (si è arricchita con dell’altro: si sono spostati dei limiti…). Rimanendo nel campo dei numeri, si scopre (ancora) che i numeri razionali non sono sufficienti per fare certe operazioni. Allora si fa un altro salto di creatività: si dà nome e realtà ai numeri chiamati irrazionali; ma anche i numeri irrazionali hanno le loro classi. Così nascono gli irrazionali algebrici (quelli che sono soluzione di equazioni algebriche e quelli che non sono mai soluzione di equazioni algebriche) e i numeri complessi. I numeri complessi sono quelli che hanno in realtà due componenti (una reale e una immaginaria), e non una sola. Anche qui si soddisfano determinate regole. Tra queste la possibilità di estrarre la radice quadrata di “meno uno”. Un’operazione che nessun campo dei numeri precedenti poteva permettere. Poi c’è il grande colpo di “teatro” con i loro ingresso nella scena della fisica quanto-relativistica: i numeri complessi sono richiesti dalla meccanica quantistica. Un impiego determinante, fondante. E tutto questo per vedere (sebbene sinteticamente e a piccoli passi nella storia della matematica) come via via la creatività matematica si sia ampliata, consentendo (al tempo stesso) al nostro universo di conoscenza di espandersi e di approfondirsi. E ciò, ovviamente, tenendo ferme le proprie regole come un punto fondamentale. La matematica ha sì avuto un enorme spazio di espansione ma – diciamo – tenendo alcune regole (che sono le regole un po’ compositive) stabili e universali per far sì che quello che io calcolo a Trieste è lo stesso di quello che si calcola altrove. Così, sia a Marsala o a Firenze (con Gaspare) non ci sia ambiguità anche sul tenore della particolare bellezza universale del linguaggio matematico. Da questo punto di vista, chiaramente, anche il linguaggio, ad esempio, di una poesia bellissima – anche dialettale, che ha avuto mille interpretazioni, come quella del poeta Biagio Marin (uno che ha portato in grandezza una lingua ormai poco conosciuta e parlata) – nel rispetto delle regole della composizione poetica, e nelle particolari tonalità che gli sono proprie, può essere apprezzata e goduta da tutti. In questo senso, grande è stata anche (altro esempio) la poesia romanesca di Gioacchino Belli. Non mancano certo esempi in altre lingue, come da voi in Sicilia o in Toscana. Ma il punto è che in quella lingua la cosa diventa poco esportabile e comporta grandi sforzi di lettura e comprensibilità generale. Infatti, anche la poesia dello stesso Biagio Marin, che gode di fama eccezionale (anche per me che sto qui a Trieste da 30 anni), richiede uno sforzo incredibile per apprezzarla in quell’ordine linguistico.

E, a questo punto, è da dire, allora, che tutta la faccenda è nel fatto che ogni attività conoscitiva ha un suo linguaggio e una sua bellezza. Il concetto di bellezza, da cui eravamo partiti in questa nostra conversazione, per esempio, come nel caso del gioco degli scacchi, e nel quadro di ogni sapere, ha così un ben preciso cassetto di regole inaggirabili (nella scacchiera, per esempio, l’alfiere non può saltare: deve andare su una diagonale, mentre il cavallo può saltare triangolarmente). E tuttavia, nel gioco degli scacchi, ci sono delle miniature scacchistiche che (agli occhi di uno scacchista che conosce le regole) hanno una bellezza infinita. I pezzi, infatti, godono di un’ambiguità tutta posizionale tra tattica e strategia. Così la possibilità di dare scacco matto ha tanti modi di movimentazione, come i tasti di una pianola. Sulla scacchiera così uno che dispone di questa pianola linguistica dispone anche di un vocabolario ricchissimo di significato e sensibilità tali da creare delle partite (tra virgolette) di una poesia sublime. Un linguaggio, quello che caratterizza la cosa, ovviamente, è tanto più potente quanto uno è bravo nel farne vibrare le corde. Per far suonare la pianola che è la matematica, insisto, è chiaro che si richiedono strumenti diversi; che per arrivare a essere un bravo matematico c’è bisogno di studi, di una certa impostazione e di un certo linguaggio. Ma, una volta che se ne avverte uno diverso, sono in ballo altre aperture e altre possibilità singolari di conoscenza e godibilità. Mentre la poesia, come si dice, sfrutta al limite le possibilità del linguaggio (costruendosi una forma nuova o una concatenazione nuova o una combinazione nuova), noi ancora una volta, così, sulla realtà, abbiamo qualcosa di reale e di nuovo. Il nuovo che prima non c’era. Ora è pure così per l’azione della creatività della matematica; messa in essere dal proprio dell’astrazione concettuale e dalle procedure combinatorie, che poi la rendono nei processi della forma estrattiva logico-formalizzata, infatti dà vita a ciò che prima non c’era. Eccola là, pur nella diversità dei linguaggi, la felicità della matematica e della poesia.

Gaspare Polizzi

Se posso fare un ultimo intervento, intanto con una battuta vorrei richiamare il senso di quanto ha detto Giuseppe sulla creatività matematica. Imre Toth che forse conoscete – è stato un grande storico della matematica – diceva che i matematici producono il passaggio dal non essere all’essere. I numeri irrazionali sono il non essere che diventa essere; quindi, la matematica costruisce una realtà che è sempre più ricca e sempre più ampia, sempre più diversificata. E in qualche modo è una realtà che ci riguarda direttamente, che ha le sue regole precise. In realtà quando si parla di simboli matematici e di simboli linguistici siamo ai due estremi del rapporto con il significato, perché nei simboli matematici non c’è un significato che va oltre il significante, non c’è una espansione del significato. Mentre nei simboli linguistici c’è il massimo spazio del significato in base al significante, perché una sola parola ha in sé una varietà di significati e un’area semantica che è estremamente ampia, nei simboli matematici sostanzialmente non esiste la dimensione semantica. Questi sono i due estremi della simbologia del modo di comunicare.

Vorrei ora rispondere richiamando insieme un quasi contemporaneo di Leopardi, Denis Diderot, e Alain Badiou dell’Elogio delle matematiche, ricordato da Nino.

Nell’Interpretazione della natura Diderot confronta la matematica al gioco: “Non so se vi sia qualche rapporto fra lo spirito del giuoco e il genio matematico; ma molti rapporti certamente intercorrono fra il giuoco e la matematica”; “tralasciando, da un lato, l’incertezza derivante dalla sorte, o paragonandolo, dall’altro, con la inesattezza derivante dall’astrazione, una partita può essere considerata come una serie indeterminata di problemi da risolvere sulla base di condizioni date. Non c’è problema di matematica al quale non possa convenire questa stessa definizione, e la cosa del matematico non esiste in natura più di quella del giocatore. Si tratta dall’una come dall’altra parte di convenzioni” (Denis Diderot, Interpretazione della natura, in Opere filosofiche, a cura di Paolo Rossi, Feltrinelli, Milano 1967, p. 113).

Nell’Elogio delle matematiche Badiou scrive che, rispetto alla matematica, “la poesia rappresenta l’altro estremo del linguaggio. Poiché la poesia è ciò che setaccia la lingua per forzarla a esprimere quello che, un istante prima, non riusciva neppure a nominare. Così, la poesia s’inabissa nella lingua materna, nella specificità della lingua. Eppure, all’interno di tale particolarità, la poesia si cimenta in operazioni di denominazione, di trasposizione, di analogie metaforiche di tale ampiezza che, alla fin fine, riesce anch’essa a toccare qualcosa di universale. Si potrebbe persino affermare che una poesia esplora la singolarità della lingua sino al suo limite, sino all’essere fuori-della-lingua. Mentre la matematica opera, fin da subito, all’esterno della singolarità linguistica, due percorsi contrapposti, insomma; ma entrambi diretti al reale, all’universalità” (A. Badiou, Elogio delle matematiche, a cura di Marcello Losito, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 26).

E vorrei concludere con una riflessione ricavata da un altro piccolo libro di Badiou, Finito e infinito, dove, dopo aver discusso le diverse forme di infinito, conclude: “Bisogna ascoltare i poeti e i musicisti, con il vento, il mare, i giochi, le risa, le feste, le danze, ma bisogna anche ascoltare i filosofi e i matematici di tanto in tanto, e tendere il proprio pensiero come un arco per raggiungere l’infinito. Poiché a questo infinito arriviamo con il pensiero, come si fa con un obiettivo, esattamente come ha detto Cantor: “C’è un omega, un insieme infinito, un numero infinito”. Se possediamo nel contempo la gioia del finito e il dominio dell’infinito, credo che possiamo sfiorare la felicità. La felicità è sempre qualche cosa che è finita e infinita insieme” (A. Badiou, Finito e infinito, Booktime, Milano 2010, p. 24).

D.4Giacomo Leopardi, il poeta della modernità complessa e processuale – come risulta dalle vostre letture leopardiane e dall’intuizione intellettuale delle grandezze vaghe (quelle che non reggono la divisione netta, come avviene tra il maggiore e il minore quantitativo), l’evanescente che si concretizza nell’immagine de “E il naufragar m’è dolce in questo mare” –, è un poeta e filosofo che con il suo indefinibile/interminabile concetto di infinito (LInfinito, e l’infinito silenzio) potrebbe essere avvicinato (secondo voi) al concetto dell’insieme generico e al metodo del forcing (costrizione affermativa) di Cohen/Badiou? In fondo vago e generico non sembrano essere due concetti prossimi? Alain Badiou nel suo “Elogio delle matematiche” scrive che i due percorsi (quelli della matematica e della poesia) mirano all’universalità del principio del Reale Infinito (che è ingenerato, permanente e immutabile; e che in quanto tale coniuga insieme infinito attuale e potenziale). E ciò sebbene matematica e poesia operino diversamente. La matematica al di fuori della singolarità linguistica non è – scrive Badiou – «per nulla la scienza della differenza tra un fogliame di autunno e un cielo estivo». La poesia (ritmo testuale semiotico e/o inter-semiotico plastico, o di altra forma…) esplora invece la singolarità della lingua e dell’ordine simbolico «sino al suo limite, sino all’essere fuori-della-lingua».

Giuseppe Mussardo

Per il discorso sui paradossi, come dicevi, effettivamente, non esiste sistema che ne sia privo. Esistono all’interno pure della matematica, e viene considerato come una branca esatta delle affermazioni. Non possono essere provate. Quindi questo sembra inficiare un po’ il discorso generale. Però attenzione a ergerlo poi come una cosa che butta giù tutto il castello della matematica. Questa è una cosa un po’ diversa perché ci sono brani dove la matematica ha luoghi e logiche che sono, ovviamente, estremamente consolidati. Il paradosso nasce quando fai un feedback sulla matematica stessa, non quando si prende una branca separata della stessa. Se uno prende, per esempio, la logica dei gruppi, i gruppi sono un punto consistente, e consistente è pure la branca dell’equazione differenziale. I problemi nascono, appunto, quando uno vuole tradurre tutto in un linguaggio di simboli, come fu il caso del vecchio sogno di Russell e di Wittgenstein, o quello di dare alla macchina il compito di capire i nostri discorsi e di fargliene fare in maniera tale da dire che le macchine sono come noi. Ma a un certo punto, se lei, in qualche modo non trova un loop, potrebbe pure dire che tutti i discorsi che io scrivo, lei, li capisce (in questa direzione si era mosso il noto teorema-test di Alan Turing sulla capacità di ragionare delle cosiddette macchine intelligenti!). Ma a questo punto si scopre che possono esistere dei robot capaci di imitarci e toccarci con una enorme ambiguità ed effetti che, penso, ridurrebbero il pensiero umano creativo, il senso della matematica e quello del suo linguaggio astratto, formale. Se lì già accadono delle cose “tremende”, possiamo immaginarci benissimo cosa possa venire fuori in altri ambiti. Io, però, penso che sia sempre desiderabile operare per una conoscenza e una ricerca culturale e sociale ottimali per la generale collettività umana.

Gaspare Polizzi

Del resto, se non ci fossero state le ricerche sul problema dei fondamenti della matematica non sarebbe emerso il teorema di Gödel e non ci sarebbero state altre branche della matematica che da lì nascono. Voglio dire che proprio la spinta al paradosso e alla crisi dei fondamenti ha portato a far crescere le matematiche non a dissolverle. Questo mi sembra di poter dire a conferma di quanto ha detto Giuseppe.

Giuseppe Mussardo

È così, esattamente così.

A mo’ di conclusione … una finestra aperta

Giacomo Cuttone, Ascensione, acrilico su tela 40×50, 2017 (collezione S. Maria delle Giummare)

Sperando nella possibilità di un altro incontro con Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi, questa volta direttamente a Marsala (per un incontro ravvicinato con la Città), piace concludere questa nostra conversazione non con un punto fermo ma con qualche personale riflessione e, considerata l’ampiezza degli spunti offerti da L’infinita scienza di Leopardi, con l’idea di un altro possibile incontro su scienza e poesia. L’ampio ventaglio delle cose – esplicite e implicite – emerse dalla chiacchierata su matematica e poesia ce ne dà agio. Alludiamo allo specifico dell’identità del sapere matematico e di quello poetico, e non meno alla soglia che ne congiunge dinamicamente i rispettivi confini. Un movimento certamente critico ma non privo, tuttavia, di possibilità atte a investigare l’identità e i limiti dei due linguaggi stessi in movimento. Un vero sabotaggio delle definizioni e delle determinazioni definitive e, al tempo stesso, una investigazione politica e di tendenza di “soggetti” (se così si può dire) conflittuali ma, fortunatamente, senza guerra aggressiva (diretta e/o indiretta) e ultimatum. Questi due soggetti, come la matematica e la poesia, metaforicamente e utopicamente sognando, potrebbero essere impiegati quali autentici maestri atti a riformare le condotte degli attuali guerrafondai in campo (Russia, Ucraina, NATO, Eu, Usa…). La guerra per il possesso delle materie prime, delle fonti energetiche e per la ridefinizione delle frontiere, delle identità dei territori e dei popoli (non ultima, nella logica dei rapporti internazionali, è poi la guerra per i simboli del comando e del dominio!). Ma se la nostra è un’utopia, questa loro guerra è oscena e criminale. La ricerca matematica e quella poetica sperimentano di continuo il sabotaggio delle definizioni e delle determinazioni ultime intorno all’essere delle cose e degli eventi del mondo (il reale?), ma non per questo il loro polemos è mortale. Così noi preferiamo l’utopia e la solitudine della poesia, specie se di tendenza e tendenziosa. Se Piergiorgio Odifreddi ha scritto sulla “solitudine dei numeri primi” (che poi sono una moltitudine, e ce ne sono pure di gemelli e gioiosi; e ciò, forse, per parlare anche della solitudine di certi grandi matematici, come Georg Cantor e Ludwig Eduard Boltzmann… solo per citarne qualcuno), la poetessa romana Sonia Caporossi (da canto suo) ha scritto sulla solitudine del poeta recanatese e sulla gioiosa “quiete” della sua produzione poetica complessiva (“Giacomo Leopardi. L’infinita solitudine- Antologia ragionata delle poesie, 2020; libro cui, peraltro e per inciso, ho avuto il piacere di dedicare una postfazione nominata Con “0 = ∞” fra le pieghe temporali dell’infinito leopardiano). Così non possiamo non indicare come esemplari queste solitudini che si incontrano nelle “rivoluzioni” creative e combattive. Azioni per un modo d’essere controcorrente e alternativo al dato. Il mondo pubblicitario-commerciale delle condotte emozionali e/o dell’empatia immediata (evitare di pensare e di controbattere con le ragioni della ragione). Consuma e taci! L’ideologia propria alla sovranità del mercato delle parole e della comunicazione semplificate al massimo (si evitano i mal di testa!). Acquiescente condivisione! Ma a noi questo mondo non piace. Piacerebbe cambiarlo, e cambiarlo con la scienza finalizzata solo al ben-essere di tutti e ciascuno, e ciò unitamente all’arte e alla poesia (Gaston Bachelard avrebbe detto con “il diritto di sognare”). Albert Camus (L’uomo in rivolta, 1951) ricordava che è l’arte a costringerci «ad essere combattenti». È necessario e giusto ribellarsi dove domina l’oppressione e il carcere per la libertà e il pensiero critico.

L’infinita scienza di Leopardi ci ha lasciato numerose indicazioni e spunti di investigazione dialogica. Dalla scienza antica e moderna (Aristotele, Galilei Galileo, Newton, Leibniz, Maxwell …) fino e Jacques Monod di caso e necessità fino agli stessi studi di Gaspare Polizzi su Leopardi come “filosofo della complessità”). Non c’è angolo in cui il pensiero del poeta recanatese non dia la possibilità di avviare una prossima conversazione. Una conversazione, ad esempio, su scienza (in genere) e poesia. Niels Bohr ricordava che lì dove lo scienziato non può più utilizzare la formalizzazione e la tecnologia concettuale in uso nel suo laboratorio, egli si serve della tecnologia del fare poetico (metafore, similitudini, analogie, ossimori …), o – suggeriva – può fare uso della cosiddetta “regola d’oro”: se un enunciato profondo non può essere sperimentato e reso vero o falso con l’evidenza della logica del vero o del falso (aut aut), allora è il caso che si ricorra a un altro enunciato profondo. Un modo di dire (forse) per sferrare un altro attacco (quindi) ai determinismi dommatici e alle frontiere dei fili spinati, quelli che, rifiutando il confronto critico, chiudono i territori della conoscenza e del sapere entro mura impenetrabili.

Vero è pero il fatto che certe intuizioni e ipotesi intellettuali – come pure certe immagini e una qualche cooperazione particolare dei quadri concettuali di altre regioni del sapere (migranti da un campo a un altro, giusta misura) – possono dare insperati e favorevoli risultati (per esempio: le orbite planetarie del sistema eliocentrico per leggere il funzionamento di certi processi atomici; la lievitazione di una torta al forno come intuizione per rappresentare l’espansione dell’universo; il paradosso del gatto di Schrödinger per illustrare con un’immagine intuitiva l’evoluzione temporale secondo la logica delle equazioni della la meccanica quantistica; la nota storiella dei gemelli di Einstein che viaggiano alla velocità prossima a quella della luce per farne “vedere” gli effetti di contrazione o dilatazione sull’esistenza delle cose (nel caso dell’età dei due gemelli gli intervalli temporali differenziati, o le variazioni relative riguardo le grandezze e le misure in generale). Ma è a proposito della realtà o meno del tempo che si potrebbe riaprire il piano forte conversazionale; e ciò per mettere a fuoco la visione di Leopardi (il tempo è “nulla”) e ciò che la scienza moderna e contemporanea ce ne dice. Qui, per inciso, solo due nomi. Ilya Prigogine (tra le altre opere) ne argomenta ne La nascita del tempo- Le domande fondamentali sulla scienza dei nostri giorni. E kaone o stranezza è la parola che il fisico Paul Davies (I misteri del tempo) ci presenta come nome del tempo. Per finire, quest’altra possibile conversazione su scienza e poesia potrebbe essere un’altra occasione discorsiva (si fa per dire) per sollecitare ulteriormente l’attenzione delle nuove generazioni verso una più attenta visione sui modelli di cui ci si serve per configurare e riconfiguraci l’essere del mondo. Un modo e degli stimoli per abbandonare i luoghi del senso comune/acritico e, così, un avvio alle azioni e al volo di un altro mondo è possibile. Il volo di “We are winning wing”!

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.