Giuseppe Culicchia, “Il tempo di vivere con te” & Gemma Calabresi Milite, “La crepa e la luce”

Giuseppe Culicchia, Il tempo di vivere con te, Mondadori, 2021, pp.168, € 17,00

Gemma Calabresi Milite, La crepa e la luce, Mondadori, 2022, pp.144, € 17,50


di Luigi Preziosi

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La letteratura che trae origine dai cosiddetti anni di piombo ha finora prodotto esiti di diversa rilevanza in un variegato universo di testi, appartenenti alle categorie della narrativa, della saggistica (svariante in un ampio ventaglio di campi dal giuridico al politico al sociologico) e della memorialistica. In quest’ultimo ambito, hanno particolare rilevanza due tra i libri di più recente uscita, Il tempo di vivere con te, di Giuseppe Culicchia, e La crepa e la luce, di Gemma Calabresi Milite, entrambi usciti presso Mondadori, l’uno nel 2021, l’altro pochi mesi fa.

L’accostamento non sembri arbitrario.

In entrambi la memoria è indiretta, ed originata e sostenuta dalle ragioni dell’amore. In entrambe la narrazione è incentrata, più che sulla rievocazione dei fatti tragici che pur ne costituiscono il fondamento, sulla rappresentazione di questo amore, di come si possa addensare e solidificare e restare attuale nel tempo tanto da poter essere finalmente raccontato quarant’anni più tardi. Soprattutto, entrambi esigono dal lettore una disposizione ad una pietas senza limiti: dall’abisso di emozioni che i due libri suscitano risaliremo più umani.

Il tempo di vivere con te è il ricordo del rapporto tra l’autore e il cugino Walter, sviluppatosi agli inizi degli anni Settanta e bruscamente interrotto con la morte di Walter. Giuseppe Culicchia ha undici anni, nel 1976, quando suo cugino Walter, di nove anni più grande, muore in uno conflitto a fuoco con le forze dell’ordine. Walter è Walter Allasia, brigatista rosso ventenne, a cui i compagni di lotta armata intitoleranno una delle “colonne” organizzative della loro struttura terroristica, operante per lo più nel milanese con attentati ed omicidi fino al 1982.

Ma per Giuseppe è in via esclusiva il cugino preferito, il suo punto di riferimento. Ha per lui quella forma di ammirazione incondizionata che spesso pervade i ragazzini nei confronti di qualcuno di appena qualche anno più grande. Figure di riferimento che non si pongono con la normatività che bene o male ha l’adulto, e che spesso affascinano per il loro grado di maggior indipendenza e per l’autonomia di scelte che già paiono esprimere, suscitando forme emulative che facilitano l’attraversamento di un’adolescenza ancora incipiente.

Del cugino Culicchia ci offre anzitutto questo genere di memoria, lo sguardo ammirato del cuginetto minore. Un ricordo nitido e dolcissimo, la cui rara intensità promana dalla capacità dell’autore di evocare la visione del mondo con gli occhi di un bambino. Lo sguardo sulle cose del Culicchia bambino riflette l’animo di quel se stesso di allora, e consente al lettore di affiancarlo nell’evocazione di remote sensazioni, rese con la sorprendente freschezza con cui le può sentire un ragazzino a cui sta per spalancarsi l’avventura turbolenta dell’adolescenza.

Giuseppe vive con la famiglia a Grosso Canavese, vicino a Torino, Walter con i genitori e fratello a Sesto San Giovanni; ogni anno trascorrono insieme i mesi delle vacanze estive nella casa dei nonni. Sono periodi bellissimi, indimenticabili, di scherzi e di scoperte, Walter è affettuoso e sorridente, sempre paziente e pronto ad inventare mille giochi per il cuginetto, suona la chitarra, aiuta gli zii. Giuseppe non vede l’ora che ogni anno torni questo incantato tempo d’estate, per passarlo con il cugino grande, che ha sempre tante trovate e tante cose da raccontare.

Questo sa Giuseppe di Walter, così Walter rimane nel suo ricordo. E un ricordo impregnato di amore non svanisce, rimane attuale, anche dopo quarant’anni: “Che senso ha venire al mondo, se poi si deve vivere dopo che le persone che abbiamo amato di più sono morte? C’è dolore più grande? E perché morire a vent’anni,Walter? Perché uccidere per poi venire ucciso? Non è vero che il tempo aiuta. Il tempo non guarisce le ferite. Il tempo è un grande bastardo, perché porta tutto via con sé. Tutto tranne l’amore. E’ per questo che il dolore non passa. Se chiudo gli occhi, sono di nuovo quel bambino in braccio a te e di fianco a mio padre e dietro i nostri Tom e Lea. Vorrei tanto esserlo ancore un po’, anche solo per un’ora: abbracciarvi tutti, dirvi ancora una volta quanto vi amo. Tu Walter, e Ada e papà. Ma a noi mortali questo dono non concesso. Posso solo raccontare chi eravate. E’ il solo modo per restare ancora un po’ su quella Fiat 500 bianca, il cielo color indaco, Tom e Lea che abbaiano felici, i panini caldi preparati da mia madre, papà con quella sua giacca da cacciatore di fustagno marrone, e il tuo profumo di pulito. Ecco: se chiudo gli occhi, sento ancora la tua voce.”

Crescendo, Culicchia cercherà informazioni, si documenterà non solo su materiali di archivi di ricerca storica, ma anche sulle private testimonianze dei suoi familiari. Tenterà di capire il Walter che a lui rimase sconosciuto, non tanto per la sua incapacità di comprensione da preadolescente, quanto piuttosto per l’intenzione di Walter di coinvolgere il meno possibile la famiglia nella sua vicenda (solo la madre sarà nell’ultimo periodo a conoscenza dell’opzione di lotta armata compiuta dal figlio). Scoprirà così che negli anni delle superiori Walter matura quella che allora si chiamava una forte coscienza di classe, il dibattito politico lo entusiasma, e il dibattito politico nella anni Settanta sfociava in questione di ordine pubblico con una certa facilità. Walter entra in Lotta Continua, ne diviene attivista, si distingue in qualche manifestazione di piazza: “In tutta quella confusione, il responsabile di piazza della sezione di Sesto di LC non si trova più. Sei tu ora a dare ordini ai manifestanti. Avanti. Fermi. Ritiriamoci. Ti muovi con grande calma. La polizia riesce a non farvi raggiungere la sede del MSI. Tu torni a casa stanchissimo. Stravolto.”

Ma la militanza in Lotta Continua non soddisfa l’ansia di cambiamento che anima Walter. La Milano degli anni Settanta è un brulichio di gruppi che si muovono a sinistra della sinistra parlamentare, ognuno più o meno confusamente attratto dall’idea della rivoluzione, e convinto, per di più, sia della sua scontata imminenza, sia di doverne definire valori e contenuti. Non sono impermeabili, e di lettura in lettura, di incontro in incontro, Walter entra in contatto con le Brigate Rosse. Inizia con qualche azione con la colonna milanese, un’irruzione in un circolo di avversari politici. La polizia lo individua, e lo tiene a sua insaputa sotto controllo. Nel frattempo, con i parenti di Grosso, è il Walter di sempre, cordiale, disponibile. Solo, un po’ più pensieroso. Il segreto è difficile da portare. E lui lo affida alla mamma, a cui lo lega un relazione intensissima.

La notte tra il 14 e il 15 dicembre 1976 la polizia fa irruzione nella casa dove Walter Alasia vive con la famiglia. Walter spara ed uccide il maresciallo dellantiterrorismo Sergio Bazzega e il vicequestore Vittorio Padovani. Poi la fuga dalla finestra: Walter muore nel cortile in un conflitto a fuoco, secondo la versione ufficiale, o finito con un colpo solo quando è già ferito alle gambe, secondo la ricostruzione ripresa da Culicchia da Indagine su un brigatista rosso di Giorgio Manzini. Culicchia esamina i fatti da ogni punto di vista, dando voce a diverse versioni e cercando documentazione delle attività allora segrete del cugino nel periodo precedente alla morte. Nello sforzo di completezza della resa emotiva che contraddistingue il suo racconto, immagina le vite, rende conto dei pensieri e dei sentimenti che probabilmente animavano i due poliziotti uccisi quella notte (Al riguardo, l’intenso colloquio di qualche mese fa tra Culicchia e il figlio di Bazzega, facilmente reperibile in rete, costituisce straordinaria testimonianza di partecipazione reciproca al dolore comune, sorretta dalla volontà incoercibile di comprensione delle ragioni dell’altro). Colma con la pietas ciò che i verbali della polizia prima e le sentenze dei giudici poi non possono esprimere.

Il libro si conclude con l’elenco tratto da Wikipedia delle “vittime delle Brigate rosse”. Sono pagine fitte di nomi, alcuni noti, altri perduti nelle nebbie della memoria. Impressiona l’arco temporale, che abbraccia il trentennio che va dal 1974 al 2003. Segue una pagina bianca, intestata “Elenco brigatisti uccisi dalle forze dell’ordine (su Wikipedia non c’è)”. Dubito che con questo l’autore abbia tentato, come altrove è stato sostenuto, una equiparazione tra le vittime del terrorismo e i terroristi morti nelle attività di prevenzione e repressione del terrorismo stesso (equiparazione improponibile sul piano storico e particolarmente inaccettabile anche sotto il profilo emotivo per l’autore di queste note, coetaneo di Walter, e militare dell’Arma qualche anno dopo la sua morte, proprio in quella stessa Milano teatro degli ultimi omicidi della colonna brigatista a lui intitolata). Piuttosto, quella pagina bianca contiene una folla di cugini, fratelli, figli, mariti, amici che sono stati amati da qualcuno, e che a qualcuno, nonostante la loro scelta scellerata, hanno dato amore, con azioni di consolazione, di fratellanza e di conforto, e anche con la solo loro semplice presenza nella vita degli altri. Devono aver suscitato una somma di sentimenti ed emozioni che non può disperdersi e che quella pagina bianca perpetua, pur in una memoria anonima.

Nessuno può essere rinchiuso per l’eternità esclusivamente nel male (episodico o sistematico che sia) che ha compiuto, proprio perché non ha compiuto solo ed esclusivamente il male. L’umanità di ognuno di noi supera ed è più ampia del gesto che eventualmente ci caratterizza nella memoria altrui, fosse anche, come il caso dei brigatisti anonimi, il gesto di dare la morte o l’averlo tentato o anche solo pensato o pianificato.

Speculare al racconto di Culicchia è la narrazione che Gemma Calabresi sviluppa in La crepa e la luce. Si tratta di una vera e propria autobiografia, settantacinque anni trascorsi all’ombra di avvenimenti tragici e densi di sentimenti intensissimi, comunque marchiati indelebilmente dalla vicenda del commissario Luigi Calabresi, suo primo marito, ucciso sotto casa il 17 maggio 1972 da un commando di appartenenti a Lotta Continua.

Anche Calabresi, come Culicchia, mantiene un sobrio livello di oggettivizzazione sotto il profilo degli accertamenti storici, anche lei, come Culicchia, accorda ampio spazio allo scavo interiore che la sofferenza ha causato. Tornano alla memoria, così, eventi di un passato che ci ancora è singolarmente difficile considerare tale: la strage di piazza Fontana, la morte dalle dubbie cause di Pinelli, le accuse a Calabresi, la vergognosa campagna di stampa orchestrata da Lotta Continua nei suoi confronti, fino al suo omicidio. L’universo crolla addosso a Gemma, vedova venticinquenne con due figli piccoli ed un terzo in arrivo. Poi un rincorrersi di anni, a ricercare pace per sé e per i figli, nonostante perduranti pregiudizi, e poi ancora il tempo rasserenante di un nuovo matrimonio, ma anche i processi degli assassini di Luigi, con il carico di pena rinnovata che comportano, la perdita del secondo marito, il peso dell’emozione di alcuni appuntamenti ineludibili, come la medaglia d’oro alla memoria, e l’incontro con la vedova di Pinelli …

Colpisce la fede che avvolge di una luce calda le vicende narrate.

La fede di Gemma era una fede facilitata, indotta dall’ambiente familiare e sociale in cui viveva fin da primi anni (e condivisa con Luigi). Ma sono stati i drammi attraversati a darle radici, profondità e ampiezza di speranza. Non c’è nulla di scontato in chi ha fede: nulla gli è per ciò stesso risparmiato. La fede non sterilizza passioni, non appiattisce sentimenti. Al massimo, li plasma, li orienta verso il sopportabile di questa vita, li avvia verso l’indicibile di un’altra. Ne è prova la tentazione molto umana, e solo umana, che rievoca in apertura: “Mentire a tutti, conquistarmi piano la loro simpatia, la loro fiducia. … e allora qualcuno lo avrebbe detto, avrebbe detto qualcosa tipo: ce l’abbiamo fatta, ci siamo riusciti. Avrebbe detto: sono stato io, vantandosi. Avrebbe pronunciato queste parole precise: l’ho ammazzato io Calabresi. Io avrei fatto un mezzo sorriso, socchiuso leggermente gli occhi perché non vedesse quello che mi succedeva dentro. Poi avrei allungato piano una mano verso la borsa come se mi fosse venuta improvvisamente venuta voglia di fumare, ma invece delle sigarette avrei preso una pistola. E gli avrei sparato.”

Con analoga comprensibile durezza si esprimerà qualche anno dopo la madre di Walter, in un lettera che Culicchia riporta a chiusura di Il tempo di vivere con te: “Vorrebbero tutti che dimenticassi e che smettessi di odiare: Ma tu dimmi: si può chiedermi questo? Come si può solo pensare che io dimenticherò come è stato assassinato mio figlio? La mia mente è sempre fissata su quel corpo in cortile, e su quel lamento che loro dicono che non è possibile che io abbia sentito, che me lo immagino solo. Ma non mi posso sbagliare. Era lui che si lamentava. E io dovrei perdonare, dovrei dimenticare.”

Impressiona, per entrambi i testi, il potere, non tanto salvifico, o consolatorio, o lenitivo, quanto piuttosto rigenerativo del trascorrere del tempo. Adesso, le parole non urlano più l’esplosione incontenibile del dolore, raccontano piuttosto lo strazio della prolungata mancanza, il rovello incessante del “poteva essere”, delle infinite possibilità negate che segna i quarant’anni di assenza per entrambi. E il distacco temporale dà ordine alla memoria, consente la coltivazione del ricordo ed il suo mantenimento, se non proprio intatto, al massimo soltanto leggermente slabbrato sui contorni.

Per la Calabresi, il flusso degli anni accompagna l’urgenza via via montante di dire ciò che l’attraversamento della tragedia l’ha aiutata a diventare la persona che è : “Per tanto tempo ho pensato che la mia vita avesse senso perché avevo un compito. Tenere viva la memoria e testimoniare. E ora… ho il timore irrazionale che, senza più uno scopo, anche i miei giorni possano finire. L’ho amata tanto, questa vita. Così tanto che, nonostante il dolore, non la cambierei con nessun’altra. Se non mi fosse accaduta questa tragedia, non avrei mai iniziato il mio cammino di fede e di umanità, e sarei una persona peggiore”.

La distanza temporale assorbe il torbido dei sentimenti esplosi a ridosso della tragedia, li rende nitidi consentendo di superare l’azzardo di un dialogo con chi non c’è, estremo tentativo di risarcimento per il distacco subito. Dice Culicchia a Walter: “Perdonami Walter, se ci ho messo così tanto. Trenta libri e più di quarant’anni. E’ per raccontare la tua storia che ho cominciato a scrivere. Il giorno dopo la tua morte. E’ per questo che ho continuato a farlo per tutto questo tempo. Eccolo qua, il primo libro che avrei voluto scrivere. Ma avevo appena undici anni, facevo la prima media, e anche se dalle elementari i miei temi venivano letti in classe da maestri e professori di Lettere non ne ero capace. Ne sarò capace, ora?”

Culicchia si dedica pertanto ad attestare l’umanità di Walter per come a lui si è manifestata. Gemma Calabresi evoca invece compassione, nel senso etimologico del termine, nei confronti degli assassini del marito, che le si svela improvvisa durante il processo, grazie un gesto di sollecitudine di uno degli imputati nei confronti di un figlio: “io avrei fatto lo stesso… la scoperta di aver qualcosa in comune con quell’uomo mi suscitava un sentimento che non ero disposta a concedermi… mi sono resa conto che quello che stavo facendo con loro [gli imputati] era l’esatto contrario di quello loro avevano fatto con mio marito. Mentre loro avevano disumanizzato Gigi, con gli slogan, gli articoli, le scritte sui muri, riducendolo ad un simbolo da abbattere, io avevo staccato le loro figure dall’album della storia, le mettevo nella vita, nel mondo, nelle relazioni con gli altri”.

I due libri, con tutte le difficoltà e le incertezze che manifestano le vicende rievocate, fanno entrambi appello al dovere di restituire ad ognuno la propria umanità, che, a dispetto delle atrocità commesse e di quelle patite, non può non esistere, per quanto in profondo le circostanze e la volontà individuale la tengano celata. L’intento di trovare l’umano anche in ciò che appare disumano e testimoniarne, dopo tanto travaglio, l’esistenza, è l’imperativo che li anima e l’esito a cui pervengono: di qui la loro essenzialità, per illimpidirci lo sguardo sui fatti che raccontano, invitandoci a custodirne una memoria collettiva (ed anche individuale) meno giudicante e più compassionevole.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.