Una sindrome che non finisce. Elio Stellitano, “La sindrome bizantina”

Elio Stellitano, La sindrome bizantina, Città del Sole Edizioni, 2020, pp. 77, € 10,00

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di Stefano Lanuzza 

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Se Montesquieu, Voltaire, Herder, Hegel, Burckhardt stigmatizzano, insieme ad altri, l’età bizantina della controversia pignola, della doppiezza capziosa, dell’algido formalismo, della cavillosità dissimulatrice contorta cervellotica pedante, vi sono il gesuita francese seicentesco Pierre Poussines e il secondottocentesco Kostantiv Leont’ev, filosofo e monaco russo, a costituirsi quali laudatores dell’autocrazia millenaria dell’Impero Romano d’Oriente imploso con la caduta di Costantinopoli.

Ora, quasi come una diagnosi en poète potrebbe proporsi quella del medico e letterato Elio Stellitano che in un inusitato libro di versi, La sindrome bizantina (Città del Sole Edizioni, 2020, pp. 77, € 10,00), avvalendosi di riferimenti storici e del ricorso a una personale critica sospesa nel tempo, mette a fuoco in forme relativamente immaginose quanto ancora costituisce – con cavilli causidici, burocrazie, intrighi e interminabili diatribe, maneggi politici, ipocrite tattiche, delazioni simulazioni cospirazioni e venefìci – una persistente doxa senza verità che, trascorrendo ‘per li rami’, gravita sul sistema di cose avvolgendolo in circuiti e orizzonti chiusi.

Restano una “dinamica senza movimento”, una “metamorfosi senza cambiamento” perseguite o indotte da “scoliasti bizantini acritici” e assiomatici che aboliscono i confini “tra il vero e il verosimile” affermando un eterno presente di aporetiche chiacchiere: le insolute “aporie bizantine”, il “detto senza che fosse vero / [e il] / “vero senza che fosse detto”. Laddove, sinistramente, “impera la cultura del sospetto / sospetto della cultura nell’Impero”.

È una pervasiva forma mentis “la logica bizantina che perdura” con figure retoriche, complotti e sofismi agonici nei gangli del nostro sistema e nei precordi dei soggetti? L’autore lo afferma in sintesi e per deduzione, acconsentendo poco margine a dettati patetici. I suoi versi, ora rimati ora assonanzati entro una cinquantina di componimenti dal tono impersonale, formano nel complesso un poema unitario con strofe intensamente evocative intrise di suggestioni allegoriche, dal tratto epigrafico e dal piglio epico allorché, nell’epica, dramma e tragedia sopravanzano l’afflato lirico.

Non Calcedonia prescelta dall’imperatore Costantino fu capitale dell’Impero, ma lo fu Byzantium assumendo il nome da Byzas, il greco della dorica Megara che “l’intero / Occidente trasformò in bizantino”. Come smaccatamente bizantina è l’egemonia che nell’antica colonia greca Rhéghion durerà cinque secoli.

In quegli evi lontani che s’interconnettono caoticamente – riprende ad affabulare Stellitano, poeta moderno con retaggio classico – “fu il massacro / la caduta e la conquista del Sacro / Romano Impero d’Occidente” da parte dell’unno Odoacre, re barbaro dei Romani e capo dell’Impero bizantino, poi attirato dall’ostrogoto Teodorico in una diplomatica trappola, si può dire à la façon bizantina, e “pugnalato a morte”.

Giunse Alarico re dei visigoti dal 395, saccheggiatore di Roma e devastatore di Costantinopoli, morto a Cosenza (410) e seppellito nel fiume Busento, che “guadò fiumi traversò sentieri / poi s’arrestò ai limiti del mare / Era un guerriero ma oltre la visiera / la paura folgorò lo sguardo fiero”.

E ci fu “Narsete eunuco generale bizantino / [che] / nell’ultimo thema dell’Impero / il terrore esorcizzava con la gloria”. Ma solo di vanagloria s’ammantavano gli “scribi nei monasteri basiliani / eruditi esegeti alessandrini / poeti sofisti pretoriani / mercenari arconti palatini / Oggi basilischi bizantini”: manierati discettatori “sulla punta / d’uno spillo”, dediti a solipsistiche liturgie, pure a una “poesia da ermeneuti bizantini”, lasciti d’una luce d’Oriente che “s’irradia sul niente”.

Tra visioni drammatiche di luoghi dai nomi streganti serpeggia lo Stretto del Bosforo; e “l’Aquila bicipite sorveglia / il passaggio” tra Mar Nero e Mare di Marmora, separa Europa e Asia, “ghermisce due cuori negli artigli”.

Trascorrono per metafore, nei versi sapientemente stilizzati di Stellitano, “rotte d’oriente” con velieri e ciurme di predoni, ectoplasmi di mercanti e faccendieri che concionano riottano speculano. Vi risuonano gli echi remoti di un’entropia che stringe in sequele di nodi le alfine larvali, erratiche figure belligeranti dei Belisario, Teodosio, Totila, di Autari re longobardo attestatosi nel 590 sull’estrema sponda calabra (“da Benevento / cavalcò tutta la notte in Kalavrìa”); o della seguace del monosofismo “Teodora cortigiana bizantina” che “fu meretrice di lupanare / […] / etera di postriboli megera / del Sacro Romano Impero e sua regina”.

Si volle abolire l’Università di Atene chiudendo “l’epoca della civiltà pagana” subito surrogata dall’“ascesa e il dominio bizantino”: d’un apparato millenario lambito da uno “sterile vento” di nemesi percorrente “cortili levantini” dove il bizantinismo ortodosso e antigreco insinuerà la sua finale vocazione levantina impersonata da affaccendati traffichini arabomusulmani, itali, ebraici, nonché da stirpi cavate dai fondachi d’Oriente.

Frattanto, “sui confini dell’Impero” l’aria secca di quel vento desertico, incessante, va portando con sé l’inane idolatria teocratica, “il lamento del Corano” e lo stentoreo “lamento del muezìn” che chiama i fedeli alle Cinque dogmatiche preghiere quotidiane imposte dalla Ṣalāt.

Accadde nel maggio 1453 la fine di Costantinopoli. Espugnata dal sultano Maometto II, la città fondata dall’imperatore romano Costantino nel 330 prese il nome di Istanbul diventando nel 1517 sede del califfato e del sultano. Tale status verrà meno solo nel 1922, dopo la Prima guerra mondiale, facendo posto, nel 1923, alla Repubblica di Turchia con capitale Ankara.

È duratura tanta tradizione di cui Stellitano cadenza musicalmente le tappe; e certo – egli rincalza – “sarà lunga la notte di Bisanzio”, soprattutto nel già greco e gabbato Sud dell’Italia: perché “l’eredità culturale magnogreca / è virtuale. Tuttora qui perdura / il dominio della stauroteca”, il necrofilo reliquiario ortodosso coi supposti frammenti del legno della croce di Cristo leziosamente fregiati. Mentre “nei monasteri basiliani i saggi / rifinite le miniature di carminio / dormono sopra i codici purpurei / E millenario del sonno fu il dominio”… Quel sueño de la razón producente monstruos (Goya).

Ma l’Occidente? “È tranquillo. Sogna Tamerlano”, l’invasore con “la scimitarra nella mano / brandita contro le prede future”.

Guardando un ‘altrove’ rimasto ‘qui’ perpetuandosi, inquietano “la liturgia orientale / di mercenari maghi sicofanti / meretrici marinai mercanti”, un “immanente scenario bizantino” e l’obliqua mistificante illogica e fallace “paralogia bizantina”… Ché il bizantinismo è esso stesso un tralignato linguaggio.

Fanno infine da chiusa o epigrafico traslato carico d’un pathos scevro d’ogni consolatoria impronta lirica la accorate parole che, nell’estate del 2021, il poeta rivolge all’autore del presente scritto introducendo, possibilmente, un sottinteso a proposito dei disperanti bizantinismi intorno alla planetaria fenomenologia del Covid: “Purtroppo, in questo periodo storico, la Sindrome Bizantina sta dilagando e imperversando… da est ad ovest, da nord a sud, in tutti i continenti!”.

(Firenze, 26/08/2021)

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.