Una disperata ricerca di salvezza umana nel Ventilabro-Scotellariana di Francesco De Napoli

Francesco De Napoli, VENTILABRO-Scotellariana, Graphisoft Edizioni, 2019, pagg. 48, s.i.p.


di Rocco Salerno

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Di Francesco De Napoli, poeta, saggista, critico, nonché valente e instancabile operatore culturale da decenni impegnato nel Lazio Meridionale, dove vive pur essendo di origine lucana (è nato a Potenza nel 1954), è stato pubblicato nella Collana «All’insegna dell’occhiale», Seconda serie, per le pregiate Edizioni Graphisoft (Roma, 2019), un insolito poemetto dal titolo Ventilabro-Scotellariana, con la magistrale Prefazione di Emerico Giachery.

Dico insolito perché questo testo a un lettore non avvezzo alla sensibilità e allo scandaglio dell’universo poetico potrebbe risultare strano, in quanto si discosta dalle mode imperanti e autoreferenziali di una versificazione odierna per lo più esangue, non consona a una contaminazione poetico-narrativa di ampio respiro – direi – poematico, come nel caso, per l’appunto, di Ventilabro. È un poemetto caratterizzato da un lungo e disteso monologo che si svolge in silenzioso raccoglimento, un muto dialogare – sostanzialmente ideale, non verbale -, tra l’autore e il poeta lucano Rocco Scotellaro a cui il poemetto è dedicato, in un rapporto di amorevole affinità elettiva che assume a tratti una dimensione para-teatrale, con un’intonazione tra l’elegiaco e il drammatico e raggiungendo risultati straordinari “per tensione espressiva, per veemenza di passione politica, sociale e storica”, come annota Emerico Giachery.

È come se l’attore, in questo caso il poeta, calcasse il palco d’un teatro naturale – costituito da “calanchi” e “dolomitiche creste” (Canto II) -, ripercorrendo, interpretando e rivivendo inconsciamente la storia, le vicissitudini della sua terra, la Lucania, attraverso “aspri e densi come pietre, echi e accenti che evocano e denotano un mondo disperatamente amato e forse perduto” – osserva ancora Giachery -, “versi che spaziano sulla mai risolta questione meridionale, sulle contraddizioni d’una società arcaica di colpo travolta da un illusorio modernismo”, convocando e chiamando a raccolta e facendo sfilare quegli intellettuali che si sono prodigati e spesi per un’Italia del riscatto dal volto umano, nuovo, speranzoso, sulle “tracce/dell’utopia precorritrice” di un‘alba nuova, come canta il Maestro e amico fraterno degli stessi combattuti ideali, l’autore di “È fatto giorno”.

Balzano così, in questo singolare soliloquio dialogico, soffocato eppure vibrante – contraddistinto, sul piano linguistico, da spunti sicuramente sperimentali, spinti fino al limite d’una accentazione ricca di risonanze quasi dialogiche -, i ritratti fulminanti di figure carismatiche del Mezzogiorno d’Italia, e della Lucania in particolare, in un omaggio umile ma lapidario e superbo. Sono esempi numinosi e luminosi, “fari” di un’arcaica civiltà tratteggiata con estrema sapienza, insegnamenti che sembrano parlare all’autore come misteriosi archetipi inscindibili da quei paesaggi mitici.

Il riferimento è al Canto III, dove il poeta, innalzando una stele indistruttibile a Leonardo Sinisgalli e soprattutto a Rocco Scotellaro (lucana anima di luce), passa in rassegna il sublime e scomodo magistero di tutti coloro che hanno inteso la letteratura e la poesia come “palestra di vita” e non come sterile artifizio letterario. De Napoli esalta le opere di personaggi di “sane e oneste e robuste passioni”, “prodromi cantori di squassate arti”, siano essi antropologi o scrittori o anche “operai di sogni”, aggrappati alla speranza di un nuovo giorno, di un mondo nuovo. Così, andando a ritroso nel tempo, egli evoca con tanto di cognome e nome – ligio alla lezione di Gramsci – i maggiori intellettuali legati al Sud e alla Lucania: Buttitta Ignazio, De Martino Ernesto, Dolci Danilo, Fortini Franco, Levi Carlo, Pasolini Pier Paolo (sul cui modello poetico penso sia ricalcato e personalizzato il respiro, la struttura di Ventilabro, attraverso questo viaggio, delineando e ricercando, sulla scia de Le Ceneri di Gramsci, “l’ideale che illumina” in una società in cui oggi “tutto è tedio e silenzio”), Pavese Cesare, Rosselli Amelia, Rossi Doria Manlio, Silone Ignazio e Volponi Paolo e, infine, quelli della sua Lucania, partendo da Flacco Orazio Quinto, Fortunato Giustino, Morra Isabella, Pierro Albino, Stolfi Giulio, per giungere ai nostri giorni con Lupo Giuseppe, Riviello Vito, Selvaggi Leonardo, Vitelli Franco e altri, perché «sia molato il dionisiaco canto come ventilabro / che dalla pula affranca e i legacci scioglie del maligno / -umane turpitudini, composite d’animo nequizie-, / l’astio di maldisposte genti. Consonanze propizie / di falci sibilanti si levano sulle predatrici iene / d’astratte provvigioni nei vespertini salmi» (p. 29).

Come ogni poema in cui confluiscono e si alternano stili e registri diversi, e in cui la fusione lirico-narrativa, lirico-epica, storico-filosofica, etico-civile, elegiaca, bucolico-agreste, si può dire, convivono e l’allotrio, se di allotrio si può parlare in testi articolati come questo, fa parte integrante del respiro poematico, laddove le varie diramazioni, come tronchi e rami fluviali che si disperdono e si convogliano nell’alveo principale, nella tematica cardine, così anche Ventilabro, così complesso nella sua strutturazione stilistica e linguistica, le cui tematiche vanno da quella sociale e storica a quella georgica e bucolica, dai toni di perorazione e rampogna all’accorato élan vital per un nuovo Mezzogiorno, per un sogno finora irrealizzato, coartato, dev’essere accettato nella sua totalità, senza vivisezionare il testo distinguendo l’elemento poetico da quello volutamente prosaico, come nei versi aspri e bruschi in cui riporta una singolare imprecazione della “discinta megera / di Rionero”: «Figghie, siamo vermi / di terra!». Questo perché qualora volessimo operare o secernere il “distinguo crociano”, allora in questo Ventilabro troveremmo – come troviamo – delle illuminanti folgorazioni di alto afflato di liricità e icastiche e trasparenti immagini intrise di un respiro solare e universale.

Già nel Canto I, in cui mirabilmente si coniuga l’elemento georgico-bucolico, proprio dall’incipit: «La terra noi consumiamo da protervia / infame appagati, indegni e vili mietitori, / dissipatori incauti di memorie e valori / senza espiazione né remissione» (p. 11), con quello della tensione etica («Taccio se mi figuro la tua sorte, d’idee / e carne tormento a sembianze dei padri, / esempio luminoso d’inconsunti tributi») (p. 11), che diventa battaglia e sogno del giorno nuovo per un’Italia nuova, «il buon seme della vita nuova» (Canto II, p.19), il Nostro fa rivivere l’immagine incastonata del Maestro di Tricarico in un Eterno presente: «Il tuo eterno presente mi parla e sorride / sfilacciato a brandelli e come inchiodato / vivo sui muri, / dottrina che i tuoi segni / avvince e depura – così dubitavi, fremevi – / in un mistero inasprito dall’immota ritentiva / e immonda viltà che i tempi marchiano, / le mode e gli affetti» (Canto I, p.11), dove, se vogliamo, anche il ricorso a una stringente ars dialettica intesa come professione di fede (si veda, al riguardo, il diario Animatore d’ombre. Professione di fede d’un bibliotecario dello stesso De Napoli, Bastogi 1996), come elemento di persuasione, di sprone, svolge il suo sublime compito, dal momento che il destinatario del poemetto è un poeta-politico che si batte per il rinnovamento dell’essere, per il risveglio delle coscienze in un’epoca inerte come quella degli anni Cinquanta a Tricarico, in un Sud tempestato, angariato da infamie e falsità (immonda viltà, p. 12).

Nella scorribanda dell’autore la città natale di Scotellaro rivive pertanto quasi come un contrappasso dantesco con intense e cesellate immagini poetiche, come se De Napoli volesse trasfigurarla, riscattarla, trasfigurando e incielando il volto, l’arte del Maestro Lucano: «Nei malcurati boschi di Tricarico nivei volti / di ragazze vaporose dai morbidi fianchi, / inghirlandate con boccioli di pruno, una sera / mi porsero guance, fronti e palme tremolanti” (Canto III, p.30), «Da te verrò da solo e poche cose vorrò / vedere, il paesaggio è già  dentro di me / e i tuoi occhi non li potrò guardare» (Canto III, p.30).

Il poemetto dunque è concepito, nella sua fascinosa cantillazione, come un viaggio nei meandri e nelle profondità più remote, per quanto esteriormente visibili a tutti, del suo e nostro Sud, in uno slancio memorialistico e affettivo intimamente legato alle ombre magne, modelli sempre vivi nell’animo dal poeta alla ricerca di una identità perduta e riconquistata mediante la nobile arte del verso, che qui si fa interamente “verbo” per alimentare, se non risvegliare, incitando alla sublime pratica dell’operare le coscienze assuefatte alle regole delle “carte del gioco”, ossia del dare e dell’avere, in un’asfittica società priva di ideali e valori. Pertanto anche noi ripetiamo con il Poeta: «fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza». È questa l’unica possibilità per trasformare e migliorare l’essere.

Non una poesia, quindi, consolatoria (Salvatore Quasimodo docet nel suo “Il poeta e il politico”) di un poeta isolato nella sua torre d’avorio, avulso dalla realtà, astorica, ma tutta calata nella realtà còlta nel suo eterno divenire e proiettata, attraverso il sudore della fronte e la forza dell’azione – in sostanza, del πράγμα – verso un avvenire di speranza, in questo nostro tempo oscuro in cui vigono il baratto e l’ipocrisia e in cui, per non spegnere l’anelito “divino” della poesia, anche noi insistiamo su quanto ebbe ad affermare la grande e compianta Maria Luisa Spaziani: «Oggi la poesia è un movimento clandestino di resistenza».

Questi l’imperativo morale e la lezione alta del poemetto Ventilabro-Scotellariana, l’impegno fervido e coraggioso nel nome della Poesia come vita.

Proprio come Francesco De Napoli afferma in un’intervista che è una dichiarazione di poetica: «Amare la poesia (come poeti o come semplici lettori) significa educare al bello, alla nobiltà dei sentimenti, al senso di giustizia e di solidarietà umana e sociale, a vivere più profondamente e più intensamente ciò che l’esistenza e la natura ci offrono, a superare con sopportazione e coraggio le difficoltà di ogni giorno.» (Diego Rossi, recensione a «Le Carte da gioco di Francesco De Napoli», L’inchiesta).


NEL CENTENARIO DELLA NASCITA

DI ROCCO SCOTELLARO

IL POETA DELLA CIVILTÀ CONTADINA

(Tricarico, 19 aprile 1923 – Portici, 15 dicembre 1953)

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.