Per una rilettura di Frontiera di Vittorio Sereni. Appunti tematici: gli oggetti, il tempo, il mito e la natura. Saggio di Manuele Marinoni

Per una rilettura di Frontiera di Vittorio Sereni.

Appunti tematici: gli oggetti, il tempo, il mito e la natura


di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

.

Scarica il saggio in formato pdf

Testo e contesto

Nel 2013, presso la prestigiosa «Biblioteca di scrittori italiani» della Fondazione Pietro Bembo, è comparso a stampa il commento, per le cure di Georgia Fioroni, di Frontiera e del Diario d’Algeria di Vittorio Sereni1. Commenti parziali alle raccolte si leggevano, precedentemente, nelle antologie sereniane curate l’una da Dante Isella, con la collaborazione di Clelia Martignoni, e l’altra da Luca Lenzini, con introduzione di Gilberto Lonardi2. Si tratta di commenti prevalentemente tematici e di carattere intertestuale. Dal punto di vista filologico, come ben noto, è indispensabile l’edizione critica a cura dello stesso Isella, risalente al 19953. Ricordo anche il prezioso volumetto in due tomi, sempre per le cure iselliane, contenente la ristampa anastatica della princeps della prima raccolta (Milano, Corrente, 1941) e il Giornale di «Frontiera», per l’editore milanese Rosellina Archinto, del 1991. È all’impegno filologico e critico di Isella che si deve anzitutto la precisa collocazione del primo laboratorio sereniano all’interno della cultura gravitante attorno alla rivista «Corrente»4. A tutti questi titoli s’aggiunga infine il poderoso volume Poesie e prose curato da Giulia Raboni per la Mondadori nel 2013. Tuttora in corsa è il recupero di fondamentali carteggi che il poeta ha intrattenuto con amici e colleghi nel corso degli anni (ai ben noti scambi con Vigorelli, Parronchi, Saba, Ungaretti, Anceschi si sono aggiunti di recenti quelli con Benzoni, Luzi, Caproni, Bodini, Betocchi, e molti altri).

Alla luce di questo territorio testuale e di una vastissima bibliografia critica sempre più difficile da tenere sotto controllo (per cui sarebbe necessaria una schedatura capillare, magari in formato telematico: la sezione bibliografica dell’«Archivio Vittorio Sereni» on-line, oltre ad avere come limite il 2017, è, in tal senso, assai lacunosa e purtroppo registra alcuni errori)5, specie dopo gli anni-anniversario che solitamente contano sempre un incremento cospicuo di titoli, nel mio intervento vorrei tracciare un campionario tematico (lontano da ogni pretesa di esaustività) dedicato alla prima raccolta di Sereni, Frontiera, facendo leva su alcuni motivi chiave che ribadiscono ed evidenziano da subito il carattere esistenziale del poeta6. Il dato è già noto ed è stato oggetto di ripetute analisi dalla critica più attenta e agguerrita (in primis da Mengaldo). Mi limiterò dunque a ri-percorrere in buona parte sentieri già battuti, focalizzando su alcune svolte, aggiungendo qualche nuovo spunto di lettura, e soprattutto tenterò di proporre suggestioni ulteriori qua e là nelle singole vie intraprese7.

Una questione di fondo: cosa andiamo a leggere, ancora oggi, quando apriamo il primo libro di un poeta che è senza ombra di dubbio tra i più importanti del secolo scorso e, credo, il più importante del secondo Novecento, assieme a Giorgio Caproni? Frontiera esce nel 1941, quando il poeta ha ventotto anni e ancora deve provare la terribile esperienza della guerra e della prigionia, della tragedia e dell’esilio. Esilio che, notoriamente, è prima di tutto un esilio dal tempo della storia, dal tempo dell’accadere degli eventi. Il periodo in Algeria è stato per Sereni la frattura di ogni possibile praxis, ideologica, ma ancor di più umanistica, che ha segnato a fondo la cifra essenziale della sua poesia successiva. Frontiera, già dal titolo, sembra presagire tutto questo (ricordo solo che Isella, a proposito del dato paratestuale, a partire dal carteggio Sereni-Vigorelli, ha informato che il poeta ebbe in mente almeno un altro titolo per la prima raccolta, ma non è dato sapere quale dai documenti rinvenuti).

Nei primi anni Quaranti dunque egli deve ancora esperire la guerra, ma già ha avuto modo di approfondire la fenomenologia, di incontrare e studiare (all’Università) le opere di Antonio Banfi, Enzo Paci e di altri filosofi fondamentali della scuola milanese. La fenomenologia e l’esistenzialismo sono senz’altro due esperienze concettuali senza le quali sarebbe impossibile avvicinare in profondità alla parola di Sereni. È di qui che prende vita quel particolare processo creativo che fa del luogo poetico lo spazio conoscitivo entro cui far vibrare le possibilità effettive dei fenomeni che l’esistenza presenta al soggetto. E la stessa costitutività soggettiva dipende da tale approccio teoretico che fa delle forme della temporalità un elemento topico di ogni possibile esperienza del mondo. Ma questi sono tutti dati molto noti e più volte indagati dalla critica anche da più punti di vista.

Accanto a tutto ciò resta il confronto con la poesia. Essendo la prima edizione di Frontiera del ’41 è evidente che il contesto poetico degli anni ’30 gioca un ruolo determinante nel campo degli incontri, delle preferenze e anche delle distanze. Solo uno sguardo rapidissimo ci mette al corrente di titoli fondamentali per Sereni con cui ha evidentemente pensato e dovuto fare i conti: il ’35, ad esempio, è l’anno che accoglie l’esordio di Luzi, con La barca, ma è anche l’anno di Conclave dei sogni di Giorgio Vigolo. In entrambi i casi, con le dovute differenze, assistiamo a un nuovo modo di intendere il reale medesimo, di coniugarlo con grammatiche dell’esistenza che trascendono l’immediata registrazione della datità. Senza entrare nel merito, che sarebbe impossibile in così poche righe, è evidente che si tratta di una modalità di intendere il mondo, verso l’allegorico, l’onirico e il simbolico, che sollecita nuove epistemologie anche e soprattutto nei riguardi dell’identità del soggetto poetico. Risvolti non dissimili si avvertono nei Campi Elisi di Sinisgalli del ’39, in Eclissi di Libero de Libero del ’40, nei Giorni sensibili di Parronchi, nello stesso anno di Frontiera. L’elenco potrebbe ravvivarsi con estrema semplicità, anche grazie ai nomi essenziali di Betocchi, Gatto e Quasimodo, tutti presenti alla memoria sereniana, ma il che non gioverebbe a una semplice inquadratura di fondo che mira a pensare la prima esperienza di Sereni come un’importante isola facente parte di un arcipelago che condivide delle scelte comuni, sia tematiche sia stilistiche. Non aggiungo altro, se non ribadendo il ruolo assolutamente centrale, all’interno di questo paesaggio poetico, delle Occasioni montaliane. Che poi per Sereni, soprattutto il primo Sereni, abbia contato molto, soprattutto a livello stilistico, l’ungarettiano Sentimento del tempo (ribadito da Isella) non toglie granché al fatto che sul piano ontologico e teoretico il poeta di Frontiera sia più vicino a Montale che a Ungaretti, soprattutto per una questione di contingenze esistenziali, di ontologia, di rapporti col tempo e di costituzione della soggettività medesima nel mondo8. Sto osservando Frontiera nel suo contesto originario, anche se è fondamentale da subito aggiungere che la raccolta, dopo una seconda edizione del ’42 presso Vallecchi (col titolo generico Poesie e con l’aggiunta di qualche testo) viene ripubblicata con nuovi testi e soprattutto con una nuova sistemazione strutturale nel ‘66 per Scheiwiller, dopo che l’esperienza di Sereni ha già avanzato i risultati del Diario d’Algeria e degli Strumenti umani9. Anticipo questi minimi dati sulla storia del testo perché in un secondo momento, soprattutto per l’analisi del trattamento del tempo, terrò conto proprio dell’edizione del ’66.

Detto questo partire con il constatare un punto critico che riprenderò alla fine della mia breve lettura e che vorrei restasse perennemente sullo sfondo come riferimento: una particolare aria di preludio apocalittico permea i primi componimenti di Sereni10. Segnali e ferite di una vita sentita e percepita come in limine, rispetto a qualcosa che avrebbe sconvolto l’Europa intera nonché ogni singola esistenza. Nulla di oracolare in tutto questo, solo il terribile pre-sentimento di una catastrofe scritta entro le soglie dell’umano stesso. E di qui il primo inevitabile confronto con il libro che chiudendo gli anni ’30, come appena ricordato, segna una svolta radicale nella tradizione poetica novecentesca, le Occasioni di Montale11. Edito nel ’39, e poi in nuova edizione l’anno seguente, il secondo libro montaliano descrive anch’esso un sentimento di attesa e di preludio che scioglie l’«atonia cosmica» ancora imperante negli Ossi di seppia in un perpetuo fragore di instabilità, in cui tutto è sospeso fra l’esserci e l’approssimarsi di indizi di salvezza vacui e metafisici. Il trait d’union resta l’imperante negativo ontologico di fondo. Diverso è invece il modo di trattarlo, definirlo ed esperirlo. Sereni coglie questo passaggio, e non solo in modo esplicito, essendo stato recensore del libro, ma anche in maniera implicita, introiettando a fondo questa leggibilità del mondo. D’altro canto, il processo di introiezione dell’esperienza, concreta e astratta che sia, è forse il carattere più importante di tutta la vicenda poetica sereniana.

A proposito del codice esistenziale, è doveroso rimarcare il valore esperienziale e introiettivo del quotidiano12 che rifluisce, ogni volta, mediante un profondo e complesso procedimento di interiorizzazione, in più ampi orizzonti di senso che travalicano il gesto comune e con esso il tempo della quotidianità stessa. La dimensione esistenziale è così circoscritta da una sillabazione poetica che fa da ponte tra la dimensione del visibile e dell’invisibile; tra l’esserci, se vogliamo usare un linguaggio più filosofico e storicamente connotato, e l’essere come volto assoluto e indipendente dell’esperienza. Un volto però instabile, che testimonia la transitorietà, la precarietà, la discontinuità e, soprattutto, la perplessità delle forme della vita. Si tratta, nel complesso, di tensioni che separano, più a livello tematico che linguistico, il carattere precipuo delle condizioni dell’assenza, dell’attesa e della distanza tipiche dell’ermetismo fiorentino, inventariate e studiate a suo tempo da Silvio Ramat13. E a proposito della perplessità vorrei da subito rimarcare, riprendendo una precisa linea critica ben individuabile, che essa è la cifra stilistica e tematica che contraddistingue da subito l’operazione poetica di Sereni, e che va più e più complicandosi nel corso degli anni14. La perplessità non è solo uno statuto epistemologico, e non è neppure solamente una condizione reperibile sub specie filologica; essa è un vero e proprio paradigma dell’esistenza, dinanzi al mondo e, prima di tutto, dinanzi al limite delle cose, nella fattispecie dinanzi alla frontiera dell’esistenza.

È, dunque, la poesia del primo Sereni un continuo rispecchiamento di poli sostanziali differenti, il cui margine gravita attorno alle figure del tempo e dello spazio, senza eccessivi compromessi con situazioni oniriche e trascendenti. Semmai occorre parlare di un tempo e di uno spazio abitati da spettri significanti. L’incontro con le ombre, il dialogo con l’oltre, l’auscultazione di suoni e voci provenienti da una dimensione altra, sono tutti ingredienti ben presenti in Frontiera15. Ed è questa un’altra cifra fondamentale; anche perché è alla prova di questa alterità che il soggetto si confronta con le cose prime e le cose ultime, dell’esperienza e della vita. Ciò che manca ancora all’altezza di Frontiera è invece una decisiva e definitiva percezione nichilistica, che il tempo della storia (a partire dal Diario d’Algeria, e che si radica nelle due raccolte successive sino all’emblematico motivo del «solido nulla»), trasmetterà in modo definitivo alla coscienza del poeta.

Il discorso tematico delle prossime pagine sarà modulato attraverso quattro nuclei centrali: 1) la presenza delle cose, degli oggetti, fittissima in tutta la prima raccolta; 2) il motivo del tempo e l’oscillazione tra un tempo fenomenologico e un tempo del mito; 3) alcuni motivi mitici, archetipici e antropologici (le foglie nel vento, le varie forme dell’acqua, la situazione topica del temporale); 4) la luna, i notturni e il modello leopardiano.

La poesia, gli oggetti e le cose

Partiamo dalla presenza degli oggetti. Luigi Blasucci, in un saggio fondamentale e arcinoto, ha spiegato a fondo che la poesia di Montale si contraddistingue anzitutto per la presenza delle «cose che circondano il poeta». Gli oggetti con cui il poeta ligure arricchisce i suoi versi sono «convocati spesso a dichiarare la loro refrattarietà, la loro irriducibilità». E di qui una lunga famiglia di tipologie: oggetti-ricordo, oggetti-talismano, oggetti-indizio, oggetti del quotidiano, etc. La grande conquista di Montale, prosegue Blasucci, «è stata […] quella di immettere nella poesia l’oggettualità quotidiana senza abbassare il tono, come inevitabilmente avveniva nella produzione crepuscolare». Quest’ultima annotazione non è marginale neppure per Sereni, che non era interessato al carattere umile delle cose/oggetti, bensì al principio di verità che le cose portano con sé nel momento dell’esperienza col proprio tempo, col proprio vissuto e con la propria singolare identità. Quella che, sia nei poeti del crepuscolo e prima ancora in Pascoli (e si potrebbe estendere il concetto anche alla prima poesia di Sergio Solmi), era una «esplicita o implicita […] volontà di contrapporsi a un mondo di cose alte e preziose»16, diviene in Sereni una spontaneità di rimando alla tangibilità delle cose. Si tratta infatti quasi sempre di oggetti saldati in fotogrammi esistenziali, presenti nelle situazioni del tempo da definire e di esso protagonisti visibili. L’elemento conoscitivo dunque appare tra le pieghe di queste “cose”, che diventano, inevitabilmente, oggetti dell’esperienza atti a esprimere un’irriducibile datità17. I singoli oggetti hanno così la funzione simbolica di semantizzare il tempo. Fatto dimostrabile anche da una semplice e rapida campionatura18: numerosi sono gli oggetti di transito, sia per via terra sia sul lago, quasi tutti significanti un viaggio verso il confine, ai margini di un percorso, tenuto a distanza (interiore e del tempo: e aggiungiamo la centralità, per tutto Sereni, del motivo della via, della strada, della svolta) e non di rado prelevati da contesti di evidente modernità:

«battello lontano» (Inverno, 16); «treni» (Concerto in giardino, 20); «convogli» (Temporale a Salsomaggiore, 3); «autocarri» (Soldati a Urbino, 19); «radi battelli» (Inverno a Luino, 11); «locomotive verso la frontiera» (Ivi, 26); «velocipedi» (In me il tuo ricordo, 2); «lamento di treni» (Ivi, 10); «barche» (Te n’andrai nell’assolato pomeriggio, 3); «torpediniera» (Terrazza, 8).

Il fatto che si sia ribadito il carattere moderno di alcuni di questi oggetti occorre a differenziare oggetti del tempo da oggetti nel tempo. I primi ambiscono a creare un sortilegio, spesso epifanico, di restaurazione di ciò che più non è nell’«adesso»; i secondi, invece, testimoniano i tratti di un’esperienza singolare, esistenziale, diversamente irriducibile.

Dal campionario addotto notiamo subito la casistica dedicata al mondo dei trasporti, in particolare a quello ferroviario19. Per quanto riguarda i mezzi per via mare, i battelli, la torpediniera, le barche, rimuoverei quell’aura ermetica d’incanto che ancora possiede la barca del primo Luzi, per sostituirla più appropriatamente con l’idea di «poesia della materia» discussa da Bachelard20. L’atmosfera lacustre e quindi i mezzi di trasporto connessi concorrono tutti a sollecitare un’atmosfera acherontea; il lago promana un’inquieta atmosfera di morte e di lontananza e le varie imbarcazioni moderne aggiungono ansie metafisiche iscritte nell’idea di un viaggio più del tempo che dello spazio21.

Molti sono poi gli oggetti artificiali che generano luce nella notte, alternandosi ai giochi di chiaro/scuro prodotti dalla luna, ancora alle prese con occasioni di sospensione metafisica e di evanescenza (si alternano luci della notte metropolitana a luci del paesaggio lacustre):

«semafori quieti» (Nebbia, 3); «parasoli brillanti» (Temporale a Salsomaggiore, 8); «le lampade» che oscillano (Soldati a Urbino, 16); «luminarie fiorite» (Inverno a Luino, 12); «fari» (Ivi, 22); «lumi nelle case silenziose» (Strada di Creva, 30); «lanterna» (Dicono le ortensie, 4).

Altri oggetti del quotidiano stanno a indicare spazi e paesaggi (in questo caso più esistenziali che metafisici)22 conosciuti dal soggetto e tipici di un’intensità geografica sentimentale e confidenziale (oggetti che fanno pensare a precipui effetti di psicopatologia della vita quotidiana):

«Tromba d’acqua» (Concerto in giardino, 17: ci ricorda Isella che è quello di “tromba” uno dei rari dialettalismi sereniani); «panca» (Ivi, 5); «rosse fontane» (Capo d’anno, 5); «tavoli» (Canzone lombarda, 1); «magli» (Nebbia, 9); «i tavoli schierati all’aperto» (Diana, 11); «bevande» (Ivi, 12); ; «cancelli» (Poesia militare, 1); «specchi» (Piazza, 4); «cumuli di carbone» (Inverno a Luino, 3); «bicchieri» (Strada di Creva, 28); «tavolo tondo di sassi» (Sul tavolo tondo di sassi, 1).

Troviamo numerosi oggetti o spazi oggettuali che sono simboli del limite23. Assolutamente centrale il motivo della finestra, altro topos ben radicato nella modernità letteraria, che significa esclusione e distanziamento dalla realtà circostante, nonché dal tempo, ma anche poetica dello sguardo, pensando soprattutto al modello di Saba. I luoghi di confine che, evidentemente, stanno al centro della raccolta (il titolo medesimo indica una situazione di confine) rappresentano un’inquietudine esistenziale che si protrarrà anche nelle raccolte successive. In Frontiera il limite ha anche un significato di difesa, seppure in modo labile, dall’imminente naufragio della storia che condurrà poi verso una radicale prigionia esistenziale. I vari muri, cancelli, vetrine separano la vita del soggetto dalla realtà del tempo degli eventi, ma anche da una realtà metafisica, dell’oltre, la realtà del tempo dei morti (talvolta rappresentata dal lago stesso). L’oggetto-limite occorre dunque all’esperienza dell’oltre nell’«adesso», nel presente. I morti persistono di là del limite, e dalle zone liminari promanano parole di verità (un confronto va fatto con i morti dietro-dento il paesaggio della poesia di Zanzotto)24:

«porte chiuse» (Domenica sportiva, 10); «persiane rigate di sole» (Le mani, 6); «La luna sta nella finestra» (Memoria d’America, 7); «dietro vetri» (Canzone lombarda, 6); «muri degli orti» (Terre rosse, 3); «bandiere e culmini di case» (Compleanno, 17); «tettoie sonanti» (Temporale a Salsomaggiore, 27); «altane lombarde» (Diana, 2); «una vetrina» (Inverno a Luino, 17); «pensile terrazza» (Terrazza, 5); «veranda occulta» (Immagine, 15); «finestra» (Ivi, 1); «finestre riaperte» (In me il tuo ricordo, 8); «vetri indifferenti» (Sul tavolo tondo di sasso, 7).

Ancora Blasucci, a proposito di molti degli oggetti si qui rubricati, ha parlato di «veri e propri trasalimenti linguistici entro contesti ancora immersi in assorte atmosfere ermetiche»25. Si tratta dunque di un’aura ermetica tagliata, ferita plasticamente da una corposità oggettuale direttamente pescata dalla dimensione del quotidiano. Quest’area di fondo serve all’idea di un incanto provvisorio in cui credere e al quale consegnare un tempo che è stato e che non potrà più essere. Il sortilegio, ancora in limine, di qua della frontiera, è destinato a sciogliersi definitivamente con le prove della storia. I preludi, i rivolgimenti, le sensazioni tipiche di questo mondo pre-temporale sono il disincanto di una altrimenti immobilizzata araldicità e simbolicità del verbo ermetico.

Il tempo di Frontiera, a poco a poco, si riempie così di oggetti concreti, e questi oggetti restituiscono l’esperienza vissuta e fissata nel ricordo, e con-creano un’esperienza che non può fare a meno del sensibile e del fisico, prima, durante e di là del metafisico. Qui si notano le distanze già menzionate da Ungaretti. La verticalità del tempo, che in Sereni convive con altre forme, non produce alcuna purezza d’origine. L’esistenzialismo appellato di continuo priva questa possibilità. L’esperienza del quotidiano determina tanti strati di senso, ma non riduce a totalità e ad assoluto alcunché.

A tal proposito sorge spontaneo chiedersi se nel cuore di queste atmosfere sia l’elemento fisico a introdurre quello metafisico oppure se entrambi gli schermi (pensando ancora a Montale) convergano in un’unica dimensione, più discontinua e perplessa che non, appunto, sospesa metafisicamente. Credo sia primario fare appello al rapporto, tutto fenomenologico, tra dimensione del visibile e dimensione dell’invisibile dell’immagine, e quindi alla ricerca del tempo che si frappone e interpone fra le varie esperienze. Questi oggetti restano come segnali di un’esperienza, specificamente sospesa tra certezze e possibilità. Ha scritto Husserl che l’osservatore può «variare il […] punto di vista nello spazio e nel tempo, dirigere lo sguardo in qua e in là, avanti e indietro nel tempo, [può] procacciarsi percezioni e rappresentazioni sempre nuove, più o meno ricche di contenuto, o immagini più o meno chiare, in modo da render[e] visibile ciò che nelle solide forme del mondo spaziale e temporale è possibile e presumibile»26.

Per concludere il discorso sugli oggetti, vorrei fare appello anche al concetto di ascolto esistenziale di cui ha parlato Luciano Anceschi, e all’idea di una «poesia in re», in cui ci sono «oggetti intensi e carichi fino a fare dell’immagine simbolo, con certi riferimenti a realtà e situazione familiari, e con certe maniere d’intensificazioni legate a convenienti ricerche di lessico, alla precisione cronologica, o geografica […]. Una poesia che si faccia corpo, che si possa vedere e toccare»27.

Figure del tempo

Eccoci dunque al motivo centrale del tempo; motivo essenziale in Frontiera così come per tutta l’esperienza poetica sereniana, con molte variazioni importanti nel susseguirsi dei quattro libri28. Seguiamo le indicazioni anzitutto a partire dal tempo esterno delle stagioni29. Come già ribadito, intendo basare questa lettura sull’ultima edizione dell’opera modulata dall’autore.

La raccolta si apre con la poesia Inverno: dietro sono le «nubi nel grigio» e le «montagne nel ghiaccio s’inazzurrano» (2 e 4): la tonalità cromatica e atmosferica è cifra del superamento stagionale. L’immagine retrostante, vista dopo il topico gesto del voltarsi30, realizza la «bellezza dell’inverno» (10).

In Memoria d’America abbiamo la prima indicazione della stagione estiva ma, si badi bene, è ancora relegata al tempo del ricordo, nei versi finali. Segue Capo d’anno che è tutta incentrata sul transitare degli effetti del paesaggio: dall’«aggiorna» del primo verso all’«ignoto paese» che «mormorando mi va primavera»; timbrano il passaggio anche i due verbi dei versi 6 e 7: «rivi scaturiti a giorno»31 e «uscirono donne sulla neve». La poesia, letta sul piano cromatico, è anche l’approssimarsi delle luci del giorno; si vedono i passaggi dall’aurora all’alba: dall’«aggiorna sul nevaio» (qualcosa appare, ancora «ignoto») alle «rosse fontane», che interpreterei come i riflessi del cielo nell’acqua e, infine, il giorno «chiaro».

In Canzone lombarda «l’inverno sta per andare di qua» (2). Segue, verrebbe da dire secondo il calendario, il carnevale, con Maschere del ’36 (siamo in maggio, specifica il primo verso). Leggiamo poi Compleanno, che cade il 27 luglio, dove troviamo una «maturità di foglie», evidentemente un segnale del tempo che è trascorso, e una «strada senza vento», topos di spazialità sospese e allucinate.

La poesia successiva, Nebbia, determina uno stacco netto, un limite che è indicatore di esclusione. Per di più la poesia è declinata in un contesto metropolitano, costituito da segnali contrastanti ed effimeri che sembrano tutti piegati alla ricerca di un’epifania. Su questo testo tornerò in seguito. Con Ritorno assistiamo all’accoglimento di un nuovo tempo, primaverile.

Così come Nebbia segna un’esclusione, le varie situazioni temporalesche determinano uno sconvolgimento dell’uniformità di cronos. Al tempo come divenire si frappone un tempo come naufragio, dal quale rinascere. La poesia è difatti divisa in due parti (il passaggio è al verso 18). Il naufragio ha lasciato un pianto, che cade dai «Gelsomini stillanti» (19) sino al «rombo che s’allontana/ degli ultimi tuoni sorvolanti le case» (24-25). Segue un’altra situazione atmosferica negativa con le Azalee nella pioggia. E siamo ancora in primavera, quando le azalee compiono la loro fioritura. Però è la primavera di un tempo passato: «fu vostra la grazia…» (2) di contro a l’«ora si turba…» (3). E ancora la primavera si ritrova, due posizioni oltre, in Diana, in aura d’attesa; l’estate è imminente: «Presto vien giugno/ e l’arido fiore del sonno» (20-21).

Con Soldati a Urbino a essere al suo termine è l’estate; ed è la nebbia a segnalare l’approssimarsi dell’autunno32. Qui ricorre un altro topos della raccolta: la foglia trasportata dal vento, preludio di un tempo sospeso di morte (richiamato anche dalle lampade che «al vento oscillano» del verso 16). È solo una suggestione, ma non va tralasciato del tutto il fatto che se Soldati a Urbino si chiude su un preludio di morte, 3 dicembre è un testo che in modo esplicito motiva e rievoca una morte (quella di Antonia Pozzi). Le «primavere» di Poesia militare stanno invece a indicare una stagione della vita: «perduto tra le perse primavere» è il «paese d’azzurri santuari» (5-6), e perduta è la giovinezza anche nella poesia successiva, Piazza; leggiamo, al verso 9, di una «falce d’aprile in ascesa» che «vince i deboli lumi». Poesia che richiama, in filigrana, una situazione esistenziale non completamente dissimile da quella di Alla luna di Leopardi.

A un’estate allucinata protende l’atmosfera di Alla giovinezza. C’è un tono cupo nel canto delle rane e la stagione è «mortale» e s’avvicenda all’«aria fondissima, brumale» (7). Anche in questo caso, come in tanti altri richiamati, la stagione non è colta al suo apice, bensì alla conclusione. Altre volte è colta all’esordio. È un interesse evidente per il trasporsi di un tempo in un altro tempo; di un’atmosfera in quella successiva; in definitiva, dello scorrere della vita che diventa immagine di memoria33. E non a caso, al termine di un’estate, con Alla giovinezza, si chiude la prima sezione del libro, Concerto in giardino. La modulazione del divenire, del transito perpetuo delle cose del paesaggio nelle forme del tempo è un altro aspetto caratteristico ed essenziale della percezione esistenziale di Sereni, che trova nello sguardo fenomenologico sui fenomeni un punto di partenza determinante.

Seguono i nove testi della sezione eponima. Ma prima vorrei fare minime riflessioni sulle figure del tempo sino a qui incontrate. Accanto al tempo fenomenologico parlerei anche di un tempo antropologico che si spiega nel codice antropomorfico della natura (carattere che Sereni condivide anche con Antonia Pozzi, soprattutto nelle metamorfosi del vento, della nebbia, del lago, dei fiori)34. Queste due forme di temporalità sono sempre ricondotte a immagini e a figure visive: lo scorrere del tempo è inesorabile ma, simultaneamente, rappresentabile (cromaticamente, spazialmente e idealmente).

Sezione Frontiera: costituita da nove campioni. Già a livello paratestuale è notevole che tre poesie indichino nel titolo una situazione stagionale (o comunque temporale): Inverno a Luino, Settembre e Un’altra estate. Dell’intenzione di «un ciclo» ha parlato Sereni stesso in una lettera a Vigorelli del 18 dicembre 194035. E la critica ha insistito sull’identificazione di tale unità nel motivo dell’inganno stagionale delle poesie posizionate agli estremi. Nel mezzo si trova la perpetua «ombra della morte», come ha scritto Fioroni36. Potrebbe esserci di più. Tutte le poesie della sezione sono attraversate da una profonda malinconia esistenziale: dalla «sospensione d’incanto» per il luogo d’origine per antonomasia (Luino), alla sospensione-attesa di Terrazza. Seguono il sentimento di precarietà esistenziale di Strada di Creva e la malinconia autunnale e lacustre di Settembre. Ecco, oltre il preludio di sensazioni dell’immanenza della stagione di morte (Un’altra estate), il ritorno al paese, «all’ombra fedele dei morti» di Paese; i due notturni: Immagine e In me il tuo ricordo, entrambi costruiti su figure in svanimento; e, infine, la malinconia del presente, dinanzi all’inquieto, silente, apparire dei morti.

Altro elemento comune a tutte le poesie della sezione, già anticipato, è l’emergere di una qualche figura del tempo come αἰών, come assoluto e trascendente, che è poi il tempo metafisico che apre all’oltre37. Si tratta di un tempo-evento inaspettato, istantaneo, molto vicino a quello delle epifanie montaliane, sia per l’atmosfera di sortilegio che ne consegue, sia per la presenza di un oggetto (la torpediniera), come in Terrazza (dal primo avverbio di tempo): «Improvvisa ci coglie la sera» (1), alla situazione-limite dei versi finali: «siamo tutti sospesi/ a un tacito evento questa sera/ entro quel raggio di torpediniera/ che ci scruta poi gira se ne va» (6-9).

Un’altra poesia dove il tempo come αἰών appare reificato è Settembre. Si tratta di un paesaggio lacustre (ricordo che le «òlee fragranti» si trovano anche in Sesto cielo di Amori di Carlo Dossi)38, nel quale emergono, col ritirarsi dell’acqua, «aride cose»: «remi infranti» e «reti strappate» che certo richiamano la poetica dei rottami, segnali d’una negatività esistenziale, della linea Sbarbaro-Montale. La prima strofa è tutta un approssimarsi al tempo della morte, che poi viene evocato, in un futuro ormai certo, mediante il tempo trascendente che si diceva, il quale rappresenta la consapevolezza della finitudine, nella strofa successiva. Accenno al fatto che almeno due immagini della poesia in questione si ritrovano in due strofe vicine di Marezzo dagli Ossi di seppia di Montale: «Nel guscio esiguo che sciaborda,/ abbandonati i remi agli scalmi» (17-18) e «Tutto fra poco si farà più ruvido,/ fiorirà l’onda di più cupe strisce» (25-26)39.

Chiude il primo libro la sezione delle cinque poesie raggruppate col titolo Versi a Proserpina più il testo autonomo Ecco le voci cadono. Occorre però ricordare che questa sezione compare solo a partire dall’edizione del ‘66, mentre l’edizione del ’41 si chiudeva con quattro Ultime poesie (Piazza, spostata poi in Concerto in giardino; Lontana che resta in Versi a Proserpina col titolo Così, sirena; Alla giovinezza, anch’essa ricollocata in Concerto in giardino e Città di notte che finirà invece nel Diario d’Algeria). L’ultima poesia dell’edizione del ’66, Ecco le voci cadono, chiudeva, nella prima edizione, la III sezione (ricordo, inoltre, che in Frontiera del 1941-’42 le prime tre sezioni erano senza titolo; solo l’ultima era denominata Ultime poesie). S’aggiunga che i primi due testi di Versi a Proserpina, datati 1944, appartenevano inizialmente al Diario d’Algeria del ‘47, e lì erano gli unici due campioni di una sezione denominata Vecchi versi a Proserpina40. Se esiste dunque un modulo tematico unitario nelle cinque poesie esso va interpretato a posteriori, e non a partire dall’elaborazione dei singoli componimenti. E tale modulo penso si possa rintracciare in una terza idea del tempo, ossia quella di un tempo mitico.

Ha scritto Fioroni di un «doppio registro della struttura finale: da una parte la linearità propria del ‘canzoniere’, la giovane morta a vent’anni; dall’altra la circolarità delle stagioni, che rinvia al mito originario»41. E sempre Fioroni ha specificato che «è plausibile leggere i cinque testi in un ordine stagionale», dalla primavera all’autunno, che poi è il tempo di permanenza di Proserpina sulla terra prima di ricongiungersi alla dimensione ctonia degli inferi.

Vediamo ora più da vicino l’avvicendarsi di quello che ho chiamato tempo del mito nei cinque testi della sezione (per i quali, più che di ‘canzoniere’, parlerei di vocazione poematica); partendo da una precisa definizione data da Roberto Deidier: «Che Proserpina sia la rappresentazione molteplice non solo dell’idea della morte, ma anche e soprattutto del limite e della metamorfosi, è un tratto implicito del suo archetipo»42. I tre motivi richiamati, la morte, il limite e la metamorfosi, stanno al centro del vortice che inscena la traversata di Proserpina. Ognuno di essi propone una specifica figuratività del tempo. L’arrivo della divinità non può che ridursi a ombre e oscurità: «la sera invade il calice leggero» (I, 1) e «s’allunga l’ora sul prato» (I, 8). Si apre nel primo movimento un tempo obnubilato, annichilito dal presagio dell’avvento di morte nella figura archetipica, manifesta nell’ombra: «di qua dalla nube smemorata» è il limite tra la vita e la morte, tra il tempo presente e il tempo distante, assoluto e vuoto (riferibile, quest’ultimo, sia al passato che al futuro)43.

Il secondo movimento insiste sui temi del transito e del limite. Un tempo del mito che è teso in un più vasto progetto di eterno ritorno, ma che specchia ancora l’«attimo vivo» (II, 5) poco prima che diventi «nulla» (II, 6). Questo lieve, impercettibile e inesperibile tempo è quello della metamorfosi, del divenire delle cose. Proserpina ne è l’incarnazione archetipica, colei che, per dirla con Károly Kerényi, «ricorda i boccioli di fiore: la sua capacità di schiudersi e svilupparsi e d’altra parte di racchiudere e formare in sé un cosmo particolare»44. Si tratta di quegli interstizi del tempo che ritroviamo in molti passaggi poetici di Rilke, proprio laddove è centrale la deiezione del paesaggio. Con Rilke ricordiamo anche che la soglia è luogo di transito verso l’Altrove, ed è, allo stesso tempo, luogo di incontro con le figure dell’alterità e con le figure dell’origine. «Wandelt sich rasch auch die Welt/ wie Wolkengestalten,/ alles Vollendete fällt/ heim zum Uralten», così inizia il diciannovesimo sonetto a Orfeo della prima sezione di Rilke, dove vengono tematizzati il mutamento delle cose del mondo e la ricaduta nell’origine; quasi a dire che è la morte la sola possibilità affinché ci sia primavera, rinascita. Ogni nuovo avvento è accolto con stupore, come nella poesia di Sereni: «Ma sempre/ lo stesso stupore l’avvento/ saluterà della luna» (II, 11-12). Il transito di Proserpina prosegue e si fa più vivo nei punti in cui i luoghi si spogliano sempre più di presenze umane: a parlare della sostanza sono le Ortensie, così come vuole la generale antropomorfizzazione di tutta la raccolta45. Solo la voce delle piante può ridire l’abbandono di Proserpina: «dietro la lanterna/ che guidava i suoi passi» (III, 4-5); e con lei è «finita/ l’estate». Anche in questo caso il tempo è quello del transito, dello svanimento, del già-accaduto. Non c’è distensione; il tempo del mito è assoluto, vincolante e necessario. Se col transito della divinità ctonia è svanito il tempo essenziale nel suo circolare eterno ritorno, ciò che resta alle apparenze è soltanto memoria.

Al secondo verso di Così, sirena troviamo il verbo chiave di tutto il movimento: «mutò». La presenza del mito si riduce a parvenza e a simulacro, e perde, a poco a poco, la sua concreta plasticità: «si fa sempre più tenue e smarrita/ con l’ombra delle nuvole sui prati» (IV, 7-8). La figura del mito si pietrifica, si assolutizza nella materia, nell’ultimo movimento del poemetto: «Sul tavolo tondo di sasso/ due versi a matita, parole/ per musica fiorite su una festa» (V, 1-3). Il sortilegio della presenza dell’archetipo ctonio nel mondo è terminato, in attesa che si ripeta (come eternamente deve), e resta un presente assoluto di sospensione: «E oggi qui attorno la quieta/ dei vetri indifferenti, oggi il minuto/ sfaccendare dei passeri là fuori» (V, 6-8).

Pare che di quel sortilegio, al tempo presente, restino solo oggetti, cose, appunto, indifferenti. Le trasformazioni continue, le metamorfosi, lo svanire della luce, sono tutte testimonianze di un passaggio dal visibile all’invisibile. Ciò che muta, in profondità, è la dimensione del tempo. Quello terreno appartiene alle cose, il frammento cronologico del loro mutarsi, l’eterno appartiene al mito. Quando precedentemente ho parlato di tempo fenomenologico intendevo proprio il tempo che indica l’evento, che lo determina e lo circoscrive. Il punto di incontro tra l’uomo e le cose è questo particolare evento del tempo, che lascia poi alle cose stesse la loro Vorzeit. Sereni, in queste poesie, è vicino a Rilke nell’idea di una poesia come parola che dice la dimensione transeunte delle cose stesse46; si tratta di un continuo rivivere a distanza le cose che traspaiono nella poesia come sostanza di «memoria» grazie alla quale si compone l’io medesimo47.

Motivi mitici e naturali: il vento, il temporale e la notte

Il terzo nucleo tematico riguarda motivi mitici (che in parte già abbiamo incontrato nelle questioni legate al tempo), archetipici e antropologici. Tra i primi critici a insistere sulla presenza di tracce antropologiche nella poesia di Sereni è stato Franco Fortini parlando addirittura di «operazioni magiche», «fenomeni che bisogna chiamare paranormali», presenza di «piante antropomorfe»48. Enrico Testa ha poi precisato che tutto questo si relaziona con un generale e fondativo «senso latamente antropologico»49. E riferendosi nello specifico a Frontiera sempre Testa ha parlato di una «natura, invasa dai morti» che «si fa […] superficie concava».

Partiamo anzitutto dal valore tutto esistenziale, testimoniato da una tradizione tanto antica quanto la scrittura di versi, delle foglie: nella raccolta, piluccando qua e là, si legge della «maturità di foglie» (Compleanno, 19); di «viali/ dove impazzano le foglie» (Temporale a Salsomaggiore, 15-16); di «una foglia chissà/ di dove distolta ti sfiora» (Soldati a Urbino, 8-9); del «gemito che va tra le foglie/ nell’ora che s’annuvola il Signore» (Strada di Zenna, 33-34). Foglie e in generale piante e fiori dicono e concretizzano qualcosa del tempo; possiedono una «dimensione metafisica», ha scritto Laura Barile, «o meglio limitrofa, più complessa, e aperta a imprevedibili sviluppi»50. Si congiungono a questo punto due motivi centrali: quello della metamorfosi della natura e quello ctonio della morte onnipresente. La foglia è l’ultima traccia del divenire della vita degli alberi, e la sua presenza, nel vento, per i viali, per le strade, è il ripetersi del tempo, sempre teso al mutamento, come nel sonetto rilkiano Wolle die Wandlung. O sei für die Flamme begeistert, in cui risuona l’antico mito di Dafne. Non mi dilungo oltre su questo motivo perché già ampiamente sondato dalla critica. Accenno solo al fatto che tra i referenti, che sono evidentemente tantissimi, credo abbia un ruolo importante anche il Montale delle Occasioni, e penso in particolare a quello straordinario poemetto che è Tempi di Bellosguardo (non a caso una lunga riflessione, in tre parti, metafisico-esistenziale sul tempo).

Accanto al motivo delle foglie, vera e propria immagine «ossessiva» di Frontiera, per dirla con Charles Mauron51, troviamo quello del vento52, che si può rubricare in vari modi: 1) il vento come forza perturbante rispetto a un’apparente situazione di quiete iniziale:

«il vento/ nemico preme alle porte» (Temporale a Salsomaggiore, 3-4); «quando il vento/ investirà le tue rive» (Inverno a Luino, 18-19); «il vento ancora/ turba i golfi, li oscura» (Ivi, 22-23); «brivido sottile» (Un’altra estate, 2);

2) il vento come irruzione di movimento che è mutazione e naufragio del tempo (centrale in Sereni anche l’immagine del vortice; pensiamo ancora al modello di Tempi di Bellosguardo, ma anche a molti Mottetti):

«dietro un breve vento si lascia/ di festuche» (A M. L. sorvolando in rapido la sua città, 8-9); «col vento che si leva sulle darsene» (Diana, 7); «mentre al vento oscillano le lampade» (Soldati a Urbino, 16); «la vela freschissima di maggio» (Strada di Creva, 1); «vedi sulla spiaggia abbandonata/ turbinare la rena,/ ci travolge la cenere dei giorni» (Strada di Zenna, 17-19);

3) il vento (tra presenza e assenza) come archetipo mitico di luoghi, in quanto agente descrittivo di sospensione:

«paese di venti notturni» (Memoria d’America, 8); «strada senza vento» (Compleanno, 21); «nel vento/ la voce dolente di sonno» (Poesia militare, 2-3); il «lagno/ del vento tra le stuoie tintinnati» (Strada di Zenna, 11-12); «E il vento che illumina le vigne» (Settembre, 6); «e là leggera te ne vai sul vento» (In me il tuo ricordo, 12).

Il vento, proprio nel poeta «meteoropatico», possiede più radici semantiche: anzitutto una radice emotiva, legata alle forme della coscienza. E innesca poi l’apparire di un evento perturbante (gli eventi del tempo) e turba la quiete esistenziale. Esso è irruzione di una forza ctonia, connessa alla voce dei morti, che travalica i tanti segni di limite e confine. Il vento simboleggia, a tratti, un presagio negativo che impedisce nell’al-di-qua della frontiera, e del tempo, il compimento del desiderio di quiete. E, infine, per dirla con Lenzini, il tempo è «metafora del transeunte in chiave esistenziale, o ancora come medium di lampi memoriali»53.

Gli ultimi due motivi sono connessi a quelli del temporale e della notte54. Almeno cinque poesie di Frontiera inscenano situazioni temporalesche (non contando le atmosfere di pioggia, altro vero e proprio leitmotiv di Sereni: anche l’acqua, materiale archetipico, subisce nel corso della raccolta numerose metamorfosi, e sovente, nel naturale processo di metaforizzazione dell’astratto55, indica il divenire del tempo in forme diverse)56: Memoria d’America; Terre rosse; Temporale a Salsomaggiore; Azalee nella pioggia (si fa cenno a temporali); Strada di Zenna. E almeno otto testi sono dei notturni, e fra questi occorre enumerare anche quelli in cui la notte è approssimata (dei notturni in divenire, attraverso giochi di luci e ombre): ancora Temporale a Salsomaggiore; Poesia militare; Piazza; Inverno a Luino (è un approssimarsi alla notte); Immagine; dicono le ortensie; e notturni in divenire possono essere considerate: In me il tuo ricordo; Te n’andrai nell’assolato pomeriggio.

Il temporale è spesso descritto mediante effetti uditivi, con molta rapidità. E come la maggior parte degli elementi del mondo della natura anch’esso è definito nel suo progredire e nel suo svanire. Non c’è durata vera e propria; la situazione-temporale irrompe nel tempo-quiete e provoca alterazione, turbamento e inquietudine, atti a ripetersi. Leggiamo, ad esempio, i versi di Temporale a Salsomaggiore:

Questa notte sei densa e minacciosa.

Dalla pianura balenano città

nell’ora finale dei convogli e il vento

nemico preme alle porte,

nelle piazze s’infolta e appanna i globi

della strada elegante.

S’oscura

la tua grazia e la memoria

dei parasoli brillanti per le vie

sotto le nubi tiepide d’oro.

Né più verrà

Nelle placide ore del sonno

il raccolto battito dei pozzi

che misurava le notti. I passanti

tutti hanno un volto di morte,

Emilia, nei viali dove impazzano le foglie.

Si spegne il tempo e anche tu sei morta.

Mi riafferri con l’aria dei giardini.

Gelsomini stillanti si riaprono

a lenire la notte, si ripopola

il paese all’uscita d’un teatro.

Torna il tuo volto,

vuoi punire le torve fantasie.

Nel rombo che s’allontana

degli ultimi tuoni sorvolanti le case,

sorrido alla tua gente

sotto tettoie sonanti, in ascolto.

La poesia inizia con un allocuzione rivolta alla città. Si tratta di un luogo della memoria del poeta (lo ribadisce Sereni stesso in alcune lettere scambiate in proposito con Quasimodo). Il temporale appare come nemico, come un evento esterno che ha desiderio di irrompere e distruggere. L’acme del turbamento atmosferico, che figura un vortice del tempo che porta il volto dei morti per le vie della città, è presentificato dall’immagine dei «viali/ dove impazzano le foglie» (15-16). I motivi si intrecciano in questo punto: la notte, il temporale, il vento e le foglie. All’apparire del volto dei morti «si spegne il tempo». La città stessa è diventata un luogo di morte. Le piante spezzano il nefasto sortilegio, e i «gelsomini stillanti» preludono al riapparire dei vivi. Il temporale-sortilegio è terminato, e il soggetto sorride, «in ascolto». È un gioco intenso di sensazioni, reali e, a poco a poco, surreali, sino alla coincidenza tra spazio dei vivi e spazio dei morti. I termini utilizzati da Sereni per definire il temporale sono tutti metaforici o simbolici, e sinistri: il «vento nemico»; l’oscurarsi della «grazia» della città e, soprattutto, della «memoria» (il punto di maggiore contatto tra spazio e tempo) e il «volto di morte». Si può dunque parlare di un temporale metafisico. Esso rappresenta un vertice del tempo in cui più tempi si mescolano, e con loro più dimensioni del reale. La solitudine e il vuoto centrali fanno presagire molte delle ambientazioni allucinate e nichilistiche delle raccolte successive.

Veniamo, infine, ai notturni, alla presenza di un effetto-notte57 che sintetizza situazioni psichiche a partire da elementi del paesaggio nel passato percepiti e sedimentati nella tempo della memoria. Accostata ai paesaggi lunari di Leopardi, nel commento di Fioroni, è Memoria d’America (un discorso simile, vicino a immagini leopardiane, vale anche per Immagine, In me il tuo ricordo, soprattutto per la “poetica della rimembranza”):

Starmene solo nel ranch.

Ieri a uno schiantarsi di vetri

si disperavano le bestie;

adesso antelucani colombi

vibrano il capo

a un tremito d’ore minute.

La luna sta nella finestra – ferma

su quel paese di venti notturni.

Abbandonato nel ranch.

Ma palpita arancio colore

dalla barriera di nuvole

che fanno nevaio sul lago.

Quattro zoccoli;

e sento nitrire

di ritorno

la cavalla che ieri ho perduto

in quell’ultimo temporale d’estate.

«La luna sta nella finestra – ferma/ su quel paese di venti notturni» sono i versi che più traducono il presentimento leopardiano, soprattutto perché definiscono un’inquadratura paesaggistica quasi ipnotica per la sua stessa fissità. Per l’immagine del «paese di venti notturni», fra molteplici voci, è possibile che Sereni si sia ricordato dell’ultima poesia di Poe, Annabel Lee. Non indugio sul già ricordato motivo della finestra che è sia luogo-limite sia spazio di osservazione.

La poesia descrive una situazione di solitudine (esistenziale). Il tempo è gestito in modo particolare: il secondo verso precisa che si tratta di un ricordo: «ieri», a cui si contrappone, due versi dopo, l’avverbio «adesso»; allo «schiantarsi» contrasta il «vibrano» del verso 5. L’immagine lunare è sempre assorta in un presente assoluto: un fermo-immagine al cui centro sta la silenziosa osservatrice cosmica. Il tempo gira su se stesso e si ritorna così a un presente attivo col verso 14: «sento nitrire».

L’immagine lunare evoca silenzio e solitudine58. C’è un accordo in questa situazione esistenziale tra il soggetto e il cosmo che fissa la possibilità di una sensazione conoscitiva. Vengono così alla mente alcune riflessioni di Gaston Bachelard, da Le Droit de rêver, che delimitano bene la situazione esistenziale di estraneazione ed esclusione (l’armonia col cosmo, anche leopardianamente, fa sentire questa distanza):

D’où sort-elle, cette voix qui, du fond de la nuit, murmure posément: «Pour tout cet univers, tu n’es qu’un étranger!». Quoi! s’associer simplement à la nuit envahissante, égaler lentement les ténèbres de son être aux ténèbres de la nuit, apprendre à ignorer, à s’ignorer, oublier un peu mieux d’anciennes peines, de très anciennes peines dans un monde qui oublie ses formes et ses couleurs, est-ce là un trop grand programme ? Ne voir que ce qui est noir, ne parler qu’au silence, être une nuit dans la nuit, s’exercer à ne plus penser devant un monde qui ne pense pas, c’est pourtant la méditation cosmique de la nuit apaisée, apaisante. Cette méditation devrait unir facilement notre être minimum à un univers minimum59.

Legata al motivo leopardiano del ricordo, al topos della finestra, al lampo come metafora di visione nella memoria è anche Immagine, da cui leggiamo l’ultima strofa:

Siamo usciti sui colli a mezzanotte

al vago appello remoto

d’una veranda occulta: – Santa,

Santa mia.

C’è chi sorride placido, distante

e cammina sul gorgo degli anni

gridati dal fiume

stanotte, nel più chiaro plenilunio.

Al verso 5 troviamo il verbo «fingeva», nel senso del Leopardi dell’Infinito, e notiamo anche che al verso 14 l’«appello remoto» è definito, ancora leopardianamente, «vago». Al movimento di apertura, a partire dal verso 13, si innesca il moto del tempo memoriale. Le immagini metaforiche del «gorgo degli anni», del sorriso placido, quasi rassegnato, del fiume e del «chiaro plenilunio» stanno tutte a identificare una visione del tempo come Αἰών.

Il punto di incontro delle figure del tempo è il presente, della/dalla soglia, dalla finestra, dal colle a mezzanotte, dal gorgo, e da esso si incrociano, si intrecciano, sedimentano e riaffiorano continue tracce di passato e di futuro, volte a rassegnarsi nella inquieta e discontinua presenza del soggetto. Ha scritto Gilles Deleuze che «secondo Aion soltanto il passato e il futuro insistono e sussistono nel tempo. Invece di un presente che riassorbe il passato e il futuro, un futuro e un passato che dividono ad ogni istante il presente, che lo suddividono all’infinito in passato e futuro, nei due sensi contemporaneamente. O meglio è l’istante senza spessore e senza estensione che suddivide ogni presente in passato e futuro, invece di presenti vasti e spessi che comprendono gli uni rispetto agli altri il futuro e il passato»60.

Lo stare al di qua della frontiera è dunque per Sereni, per concludere, qualcosa di diverso da una scelta di auto-esilio. L’esilio è il tempo stesso, con le sue figure e i suoi effetti61. Il conflitto che si sente in questo primo libro di Sereni è proprio questo, fra uno “stare”, nell’«adesso», nello spazio apparentemente protetto ma in realtà investito dalle forze ctonie, eterne, di là del tempo che dicono la loro parola, dall’abisso, e che inquietano nelle radici che esse stesso vivono il tempo remoto della memoria.


NOTE

1 Vittorio Sereni, Frontiera Diario d’Algeria, a cura di Georgia Fioroni, Fondazione Pietro Bembo, 2013 [ristampa 2020, da cui le citazioni future].

2 Id., Poesie. Un’antologia per la scuola, a cura di Dante Isella e Clelia Martignoni, Luino, Edizione Nastro & Nastro, 1993 poi Id., Poesie, a cura di D. Isella con la collaborazione di C. Martignoni, Torino, Einaudi, 2002; Id., Il grande amico. Poesie 1935-1981, introduzione di Gilberto Lonardi, commento di Luca Lenzini, Milano, BUR, 1990.

3 Id., Poesie, a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, (“I Meridiani”), 1995. Sugli studi di Isella dedicati a Sereni cfr. almeno C. Martignoni, Rileggere Sereni (e altre considerazioni novecentesche), in «Strumenti critici», fasc. speciale Dante Isella e la filologia d’autore, a cura di Franco Gavazzeni e C. Martignoni, 2, 120, pp. 315-324 e Niccolò Scaffai, Poesia e filologia: Vittorio Sereni e Dante Isella, in «L’ospite ingrato», 7, 2020, pp. 87-100.

4 Cfr. Il volume Corrente di vita giovanile (1938-1940), a cura di Alfredo Luzi, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1975.

5 https://www.archiviovittoriosereni.it/ (ultimo accesso 11/09/2021). Minima nota critica: sovente in taluni referaggi anonimi si legge il suggerimento di “ampliare” la bibliografia critica di singoli saggi; non mancano inoltre precisi suggerimenti che spesso riflettono più l’eclettismo narcisistico dell’anonimo lettore piuttosto che essere utili aggiunte o puntualizzazioni critiche. Per un autore come Sereni, la cui bibliografia critica è veramente ampia e non sempre posizionata su medesime tracce, è inevitabile fare delle scelte. In realtà questo è un dato che vale sempre e per qualsiasi autore. Le scelte, è lapalissiano, sono già di per sé un atto critico, una proiezione della modalità di lettura dell’opera in questione. Esistono poi splendidi “saggi bibliografici” ai quali invece spetta il compito di ambire all’esaustività dei titoli, ma quella è un’altra storia. Ciò detto, al fine di chiedere venia per il fatto che questo modesto e rapido intervento non potrà tenere conto dell’intera bibliografia critica su Sereni, ma non pare, si scusi il bisticcio, si parva licet, in generale, neppure lecito supporre di poterlo fare.

6 Su questo motivo, e in generale sull’opera di Sereni, sono fondamentali i lavori di Franco Fortini, Saggi italiani, 2 Voll., Milano, Garzanti, 1987; e di Pier Vincenzo Mengaldo, Per Vittorio Sereni, Torino, Aragno, 2013. Fortini, Mengaldo e Isella sono a tutti gli effetti i tre più importanti studiosi del poeta di Luino.

7 Questo mio intervento sereniano è pensato come completamento di un altro in corso di stampa dedicato a Luoghi e paesaggio nel Novecento: la poesia di Vittorio Sereni (Frontiera).

8 La stessa metafisica neo-barocca da un certo punto in avanti adottata da Ungaretti difficilmente risponderebbe a talune scelte poetiche sereniane. È essenziale, invece, per un poeta come il Leonardo Sinisgalli di Vidi le muse (1943).

9 Per tutti questi aspetti, i passaggi strutturali, le aggiunte testuali, le rimodulazioni, e quindi i rapporti tra Frontiera e Diario d’Algeria cfr. l’apparato dell’edizione critica di Isella.

10 Nell’apparato a cura di Isella vengono riproposti anche testi primitivi mai inclusi dal poeta in alcuna raccolta.

11 Cfr. Guido Mazzoni, Forma e solitudine. Un’idea della poesia contemporanea, Milano, Marcos y marcos, 2002.

12 Su questi temi rimando a due studi molto importanti dal punto di vista filosofico: Remo Bodei, La vita delle cose, Roma, Feltrinelli, 2009 e Enrica Lisciani Petrini, Vita quotidiana. Dall’esperienza artistica al pensiero in atto, Torino, Bollati Boringhieri, 2015.

13 Silvio Ramat, L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969. Qualche altra minima indicazione bibliografica di confine: sul rapporto fra Sereni e l’Ermetismo cfr. la sezione dedicata al poeta in L’ermetismo e Firenze, 2 Voll., a cura di Anna Dolfi, Firenze, FUP, 2016; su linguaggio, confini e categorie dell’ermetismo cfr. P. V. Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica [1989], in Id., La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, pp. 131-157 (ora in Per Vittorio Sereni) e, in polemica con Mengaldo, A. Dolfi, Per una grammatica e semantica dell’immaginario, in «L’amore aiuta a vivere, a durare». Bigongiari, Luzi, Parronchi cento anni dopo (1914-2014), «Rivista di Letteratura italiana», XXXII, 3, 2014, pp. 85-92.

14 Su questo motivo cfr. C. Martignoni, Vittorio Sereni. Ermetismo, dintorni, processi genetici, processi inventivi, in L’ermetismo e Firenze. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni, cit, Vol. II, pp. 663-670; Ead., «Lavori in corso»: elaborare la perplessità?, in Vittorio Sereni, un altro compleanno, cit., pp. 71-81; Ead., L’esemplarità di Vittorio Sereni: tra critica, filologia e ragioni genetiche, in «Moderna», XIX, 1/3, 2017, pp. 151-163.

15 G. Bàrberi Squarotti, Gli incontri con le ombre, in La poesia di Vittorio Sereni, Milano, Librex, 1985, pp. 68-90.

16 Luigi Blasucci, Storia della lingua e critica letteraria (Per una diacronia dell’oggetto poetico in Montale), in Id., Gli oggetti di Montale [2002], Milano, Ledizioni, 2010, pp. 49-70, cit., pp. 53-54.

17 Il referente principali della presenza di questi oggetti nella poesia di Sereni è il Montale delle prime due raccolte. Ma questo non impedisce che si possano riscontrare molti punti di contatto anche con altre esperienza poetiche, in primis quella di Gozzano (superfluo ricordare che Gozzano è stato argomento di tesi di laurea discussa da Sereni con Antonio Banfi). Sulla rêverie gozzaniana e sulla temperatura malinconica che va via via acclimatando la costellazione oggettuale dei suoi versi cfr. almeno Giovanni Getto, Guido Gozzano, in Id., Poeti del Novecento e altre cose, Milano, Mursia, 1977, pp. 10-16. Sul motivo specifico degli oggetti cfr. Pietro Bonfiglioli, Pascoli, Gozzano, Montale e la poesia dell’oggetto, in «Il verri», II, 4, dicembre 1958, pp. 34-54. E per altri oggetti provenienti dal corredo metropolitano va naturalmente tenuto conto anche del Canzoniere di Saba. Affronta questo tema, nell’insieme di una lettura della prima raccolta di Sereni, Edoardo Esposito, I miti di “Frontiera”, in Id., Lettura della poesia di Vittorio Sereni, Milano, Mimesis, 2015, pp. 9-38. Cfr. anche Stefano Raimondi, La “Frontiera” di Vittorio Sereni. Una vicenda poetica (1935-1941), Milano, Edizioni Unicopli, 2000.

18 A proposito delle ‘cose’ in poesia, è necessario ricordare la loro essenziale proprietà temporale. Da un lato un tempo come sostanza degli oggetti; dall’altra un tempo come durata dinanzi a un soggetto che esperisce le prove del mutevole. La durata, ha scritto D’Alessandro, è intesa da Sereni «come arco di una vicenda che lascia vivere gli oggetti di vita propria e allo stesso tempo li supera, portando alla luce il senso del loro esistere in un luogo e in un momento determinati»; Francesca D’Alessandro, Gli anni di «Frontiera», in Ead., L’opera poetica di Vittorio Sereni, Milano, Vita e Pensiero, 2010, p. 34

19 Cfr. Remo Ceserani, Treni di carta. L’immaginario in ferrovia: l’irruzione del treno nella letteratura moderna, Genova, Marietti, 1993.

20 Gaston Bachelard, La poesia della materia, Rimini, Red edizioni, 1998.

21 Per un’analisi approfondita dell’immagine lacustre, per cui è stato fatto anche il nome di Fogazzaro, cfr. G. Bárberi Squarotti, Il paesaggio di Sereni, in Id., L’ultimo cuore del Novecento. Paesaggi per la poesia, Rende, Gammarò, 2016, pp. 67-99.

22 Sul paesaggio esistenziale in Sereni cfr. Giuseppe Nava, Il paesaggio nella poesia di Sereni, in Vittorio Sereni, un altro compleanno, a cura di Edoardo Esposito, Milano, Ledizioni, 2014, pp. 255-259. Cfr. anche L. Lenzini, Verso la trasparenza. Studi su Sereni, Macerata, Quodlibet, 2019 (con importanti rimandi al Pascoli).

23 Sul motivo del limite sia concesso il rinvio al mio In limine. Due studi sulla poesia italiana del Novecento, Cuneo, Nerosubianco, 2022.

24 Un esempio fra tanti: la poesia Erbe e Manes, Inverni da Meteo del 1996.

25 L. Blasucci, Storia della lingua e critica letteraria, cit., p. 65.

26 Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino, Einaudi, 1965, p. 58. Cfr. l’acutissima interpretazione di tutti questi problemi nel già citato lavoro di Bodei, La vita delle cose.

27 Luciano Anceschi, Linea lombarda, Varese, Magenta, 1952, p. 22. Per un inquadramento di Anceschi lettore di poesia, a partire dall’estetica fenomenologica, cfr. Stefano Verdino, Luciano Anceschi: esperienza della poesia e metodo, Genova, Il melangolo, 1987 e il ricchissimo volume Il laboratorio di Luciano Anceschi. Pagine, carte, memorie, a cura di Maria Giovanna Anceschi, Antonella Campagna, Duccio Colombo, Milano, Scheiwiller, 1998 (fondamentale anche l’esperienza che lega il nome di Anceschi a «Corrente», discussa nel volume).

28 Sulle questioni del tempo in Sereni è inevitabile il rimando a P. V. Mengaldo, Tempo e memoria in Sereni, in Id., Per Vittorio Sereni, cit., pp. 37-62. Una lettura importante del motivo del tempo in Frontiera è quella di Giorgio Baroni, «Custode non di anni ma di attimi», in In questo mezzo sonno. Vittorio Sereni, la poesia e i dintorni, a cura di Giancarlo Quiriconi, Venezia, Marsilio, 2017, pp. 15-22. Cfr. anche l’indagine di Umberto Motta, La «gentilezza» di Frontiera. Notazioni linguistiche e stilistiche, in Id., Quando il ghiaccio si rompe. Esperienze poetiche novecentesche, Roma, Carocci, 2017, pp. 169-192. Sul tema del tempo nella poesia del Novecento cfr. Il tempo e la poesia. Un quadro novecentesco, a cura di Elisabetta Graziosi, Bologna, Clueb, 2008.

29 All’idea, possibile ad esempio in un Cardarelli, di «stagioni interiori», costruite a partire dalle atmosfere dell’identità soggettiva, sostituirei, per Sereni, quella di «stagioni esistenziali», intendendo con tale concetto un tempo del mondo che non diventa tempo della vita, ma resta sullo sfondo delle esperienze contingenti come sostanza delle cose stesse. È poi la complessa e inquieta dimensione interiore a percorrere le varie stratificazioni. Sul tema del tempo in Cardarelli cfr. ancora la bellissima monografia Adele Dei, La speranza è nell’opera. Saggio sulle poesie di Cardarelli, Milano, Vita e Pensiero, 1979.

30 Motivo topico nel Novecento, a partire dal Montale degli Ossi di seppia, che modula l’archetipo del gesto orfico del voltarsi verso il regno delle ombre.

31 Tutte le sottolineature, qui e altrove, sono mie.

32 Si noterà in modo evidentissimo che paesaggio e tempo corrono all’unisono nell’esperienza esistenziale del poeta.

33 Ha dato una precisa definizione di tale processualità Fulvio Papi, La non-poetica di Vittorio Sereni, in Id., La parola incantata e altri saggi di filosofia dell’arte, Milano, Guerini Associati, 1992, pp. 83-185.

34 Cfr. Claudio Milanini, Tempo e spazio nella poesia di Antonia Pozzi, in Id., Da Porta a Calvino. Saggi e ritratti critici, Milano, LED, 2014, pp. 179-192.

35 V. Sereni, Poesie, a cura di D. Isella, cit., p. 351.

36 Id., Frontiera Diario d’Algeria, cit., p. 122

37 Sulle forme del tempo nel mondo antico a cui faccio riferimento cfr. almeno Giacomo Marramao, Kairós. Apologia del tempo debito, Torino, Bollati Boringhieri, 2020, e il bel recente volume di Umberto Curi, La morte del tempo, Bologna, Il Mulino, 2021.

38 Carlo Dossi, Amori, a cura di Dante Isella, Milano, Adelphi, 1999, p. 104.

39 Dalla sezione Meriggi e ombre degli Ossi di seppia. Il testo da Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, 1990, pp. 90-91.

40 Per dati più precisi, per altre indicazioni filologiche, e soprattutto per la storia ideativa della sezione (che varia considerevolmente nel tempo) cfr. l’apparato critico di Isella in Vittorio Sereni, Poesie, a cura di D. Isella, cit., pp. 281 ss. Si tenga conto anche delle preziose riflessioni di Cesare Segre, Appunti su Vittorio Sereni: le varianti di «Frontiera», in Id., Ritorno alla critica, Torino, Einaudi, 2001, pp. 126-133.

41 V. Sereni, Frontiera Diario d’Algeria, cit., p 193.

42 Roberto Deidier, All’Ade e ritorno: i Versi a Proserpina, in Vittorio Sereni, un altro compleanno, cit., pp. 101-113, cit., p. 108.

43 «Il passato e il futuro non toccano […] la sua sensibilità se non di riflesso, e scattano perciò nella memoria evocatrice (larve o fantasmi, trasalimenti o urti repentini del sangue) ovvero nel pensiero presago (un avvertimento, una prefigurazione) quasi unicamente come risarcimento emotivo o dato di contestazione dello stesso presente»; Lanfranco Caretti, Il presente ‘perpetuo’ di Sereni, in Id., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1976, pp. 455-468, cit. p. 455.

44 Carl Gustav Jung e Károly Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino, Bollati Boringhieri, 1972, p. 158.

45 È assai folto il corredo vegetale e floreale nei versi di Frontiera e il più delle volte si esprime in chiave simbolica e antropomorfica: innumerevoli, nella prima raccolta, le foglie che si muovono al vento; e poi: «aiole» (Concerto in giardino, 7); «rosaio» (Incontro, 1); «feltri verdi» (Nebbia, 13); «cespo di mimose» (Ivi, 19); «gelsomini stillanti» (Temporale a Salsomaggiore, 19); «le più bianche s’illudono d’eterno » (Azalee nella pioggia, 8); «di festuche un vortice di suoni» (A M. L. Sorvolando in rapido la città, 9); «arido fiore del sonno/ cresciuto ai più tristi sobborghi» (si tratta del papavero; Diana, 21); «insonni girasoli» (Alla giovinezza, 11); «remi/ di malinconiche barche» (Strada di Zenna, 29-30); «òlea fragrante» (Settembre, 1); «ortensie» (Dicono le ortensie, 1).

46 Cfr. Sergio Givone, Rilke e la poesia come evento paradossale, in Id., Hybris e melancholia. Studi sulle poetiche del Novecento, Milano, Mursia, 1974, pp. 9-21.

47 Si moltiplicano qui anche le possibilità della memoria stessa: esiste una memoria che appartiene al paesaggio ed esiste una memoria dell’io; non è necessario che le due coincidano, così come non è detto che l’una debba rispecchiarsi nell’altra. Ciò che invece deve accadere, e accade, è la stratificazione delle due memorie: quella che proviene dalla voce esterna del paesaggio che diventa voce delle ombre, del mito e dell’altrove e, all’unisono, e quella insita nell’auscultazione interiore del soggetto. Nel 1951, Zanzotto pubblica Dietro il paesaggio e in questa raccolta sperimenta un tipo di memoria ancora differente, profondamente stratificato nel paesaggio stesso; ha scritto Michael Jakob che per questo particolare Zanzotto «non è un soggetto trionfante ad assorbire il tutto, ma il paesaggio stesso»; cfr. M. Jakob, Distanza da Dietro il paesaggio, 1951, in «A foglia ed a gemma». Lettura dell’opera di Andrea Zanzotto, a cura di Massimo Natale e Giuseppe Sandrini, Roma, Carocci, 2016 pp. 29-42, cit., p. 37. Ho citato l’esempio di Zanzotto per svolgere un rapidissimo esperimento di reazione tra due poeti che hanno molti elementi in comune.

48 F. Fortini, Lettura di Niccolò di Vittorio Sereni, in Omaggio a Gianfranco Folena, vol. III, Padova, Editoriale Programma, 1993, pp. 2167-2175, cit., pp. 2174, 2171.

49 Enrico Testa, Di alcuni motivi antropologici nella poesia di Sereni, in Vittorio Sereni, un altro compleanno, cit., pp. 29-41.

50 Laura Barile, Le piante e la «fonte del pianto», in Ead., Il passato che non passa. Le «poetiche provvisorie» di Vittorio Sereni, Firenze, Le Lettere, 2004, pp. 13-39, cit., p. 26.

51 Des métaphores obsédantes au mythe personnel. Introduction à la psychocritique, Paris, Corti, 1963.

52 Altrettanto ossessiva è l’immagine, ben presente a Sereni, del vento nei Canti di Leopardi; cfr. L. Blasucci, Lo stormire del vento tra le piante: parabola di un’immagine, in Id., Lo stormire del vento tra le piante. Testi e percorsi leopardiani, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 31-46. Sulla memoria sereniana deve certo aver influito anche l’immagine del vento presente negli Ossi di seppia e nelle Occasioni di Montale. Sul vento in Montale cfr. almeno Giampaolo Biasin, Il vento di Debussy, Bologna, Il Mulino, 1985.

53 Cfr. L. Lenzini, Field notes. Per un lessico di Sereni. Vento, in Id., Verso la trasparenza, cit., pp. 130-133.

54 Anche in questo caso, fra vari eventuali punti di riferimento, i Canti leopardiani hanno agito con forza. E con essi, si aggiunga con forza, l’immagine del temporale come situazione psicologica, proveniente da Pascoli. In questi i temporali notturni, ha scritto Gioanola, «sono sempre metafora dei soprassalti angosciosi provenienti dalle oscure profondità interiori»; Elio Gioanola, Giovanni Pascoli. Sentimenti filiali di un parricida, Milano, Jaca Book, 2000, p. 216.

55 È evidente che molti nuclei tematici del visibile e del concreto agiscono come metafore del tempo e delle sue azioni, dal e sul mondo. Sulla necessità di questa metafora cfr. George Lakoff, The contemporary theory of metaphor, in Metaphor and Thougth, edited by Andrew Ortony, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 202-251.

56 Cito molto rapidamente: «ghiaccio», «onde», «suono d’acqua», «ritmi di gocce», «pioggia che tutto cancella», «nevaio», «respiro dell’acqua», «tempo d’acqua», «dopopioggia», «nuvola d’acqua», etc. Per una prima contestualizzazione simbolica cfr. almeno Gaston Bachelard, Psicanalisi delle acque, Milano, Red Edizioni, 2006 e il recente, e molto ricco, Massimo Donà, Dell’acqua, Milano, La Nave di Teseo, 2019. Accenno al fatto che sovente l’acqua è oggetto di ascolto (lo sarà anche nelle raccolte successive), riducendosi a forma pura, spiritualizzata. Procedimento che avviene anche nella poesia di Rilke (e, in parte, anche in quelle di Trakl e di Celan), mediante l’effetto di compenetrazione di ogni essere; quello che Heidegger definiva Der Anklang (la “risonanza dell’essere”).

57 Su questo tema cfr. A. Dolfi, Notturni in poesia. Riflessioni sull’‘effetto notte’, in La passione impressa. Studi offerti a Anco Marzio Mutterle, a cura di Monica Giachino, Michela Rusi, Silvana Tamiozzo Goldmann, Venezia, Cafoscarina, 2008, pp. 113-127. In generale, sul tema della notte cfr. Notturni e musica nella poesia moderna, a cura di A. Dolfi, Firenze, FUP, 2018.

58 Ricordo che nel corso del Novecento la luna subisce una delle metamorfosi più importanti della sua esistenza; da interlocutrice, simbolo, allegoria e quant’altro passa a essere paesaggio visibile e vivibile. Cfr. la bella ricostruzione di Alessandra Grandelis, Il telescopio della letteratura. Gli scrittori italiani e la conquista dello spazio, Milano, Bompiani, 2021.

59 Gaston Bachelard, Le Droit de rêver, Paris, Presses Universitaires de France, 1970, p. 196.

60 Gilles Deleuze, Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 2005, p. 147.

61 Per il concetto di figure del tempo rimando alle densissime pagine di F. Papi, Figure del tempo, Milano, Mimesis, 2002.

_____________________________

[Leggi tutti gli articoli di Manuele Marinoni pubblicati su Retroguardia 3.0]

_____________________________

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.