Non scoraggiate la critica. Alfonso Berardinelli e la cultura letteraria italiana. Saggio di Giuseppe Panella

«Desdemona. Che scriveresti di me, dovendo fare il mio elogio?

Iago. Non me lo domandate, signora. Io non sono altro che un critico»

(William Shakespeare, Otello, atto II, scena I; epigrafe rubata – con ammirazione – dal titolo di un libro di Morando Morandini)

Non scoraggiate la critica. Alfonso Berardinelli e la cultura letteraria italiana

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di Giuseppe Panella

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1. Intellettuali o misantropi?

Il tema della necessità e dell’importanza della funzione degli intellettuali tormenta da sempre l’intelligenza critica di Alfonso Berardinelli. Alla riflessione su questo argomento ha dedicato numerosi libri e libretti – uno di essi, di notevole acume, si intitolava L’esteta e il politico: sulla nuova piccola borghesia e si proponeva di sondare la consistenza di diverse e possibili tipologie di questa nuova, anche se non certo inedita, categoria sociale[1]; un altro, di undici anni dopo, L’eroe che pensa. Disavventure dell’impegno (Torino, Einaudi, 1997), ritornava sul tema in chiave più divertita e, se possibile, più amara, con momenti, tuttavia, di forte coinvolgimento satirico. I bersagli, anche se spesso erano riconoscibili, non erano mai troppo palesi o diretti per evitare l’effetto-domino della polemica ad personam.

Che intellettuale sei? [2], invece, composta da una serie di testi apparentemente occasionali ma ben coordinati tra loro in modo da formare un insieme coeso e compatibile, tenta una serie di affondi su una tematica – come si potrà facilmente intuire – del tutto inesauribile e che, per questo, necessita di continui aggiustamenti e di argomentazioni sempre nuove. La tentazione tassonomica, però, è forte e neppure questa volta Berardinelli vi si sottrae. Gli intellettuali, stavolta, vengono distinti in tre categorie essenziali: i metafisici, i tecnici, i critici (tutti contraddistinti, nell’esercizio delle loro funzioni, da una rigorosa lettera maiuscola). A tutti e tre i modelli di intellettuale diffuso vengono rimproverati difetti di varia natura connessi alla loro formazione di base – il Metafisico, sopravvissuto all’Illuminismo e alla prima diffusione del marxismo, crede nella ricerca di una Verità assoluta, di una dimensione “pura” dell’Essere che vada però oltre la metafisica onto-teologica tradizionale; il Tecnico, creazione, invece, proprio dell’Illuminismo divenuta dimensione positivistica della realtà del presente, crede soltanto nei fatti e nella possibilità di agire al loro livello di funzionamento “oggettivo”; il Critico, infine, è colui il quale sparge il seme del dubbio, incarna la dimensione dello scetticismo e della polemica serrata contro il mondo, affronta la solitudine in nome delle proprie opinioni e si concede all’accettazione dell’esistente solo molto raramente. Ovviamente, secondo Berardinelli, queste categorie non sono mai “pure” ma spesso si presentano con caratteristiche di innesto reciproco e con esiti talvolta tra il terrificante o l’involontariamente comico. Il fatto è che non esistono mai intellettuali come genere o come categoria sociale ma solo singolarità pensanti con le loro idiosincrasie culturali e i loro progetti di interpretazione-trasformazione del mondo. Certo, for poetry makes nothing happen (ad opera della poesia non avviene nulla) – come ha scritto Wynstan Hugh Auden nel suo poemetto In Memory of W. B. Yeats del 1939, ma è anche vero che la poesia non si dà mai al servizio della politica; semmai, in determinate occasioni, funziona bene proprio nonostante essa e nonostante il desiderio dei grandi intellettuali novecenteschi di servirla. Le eccezioni a questo generale rapporto di dipendenza sono, tuttavia, quelle che permettono di cogliere meglio determinate contraddizioni della Storia e i suoi errori (ed orrori) maturati in momenti cruciali di essa. Il caso di George Orwell o di Simone Weil sono, al proposito, esemplari ed accolti con interesse e approvazione da Berardinelli stesso:

«Così Orwell e Simone Weil, i maggiori e più originali scrittori politici del secolo scorso, si sono dimostrati tali nella loro capacità di descrivere e giudicare la politica da un punto di vista esterno alla politica. Non c’è mai in Orwell e nella Weil nessuna identificazione con il ceto politico e con le classi dirigenti. Per il sociologo e per il politico gli intellettuali sono una categoria, una serie di corporazioni e di gruppi di pressione. Così nel secolo della politica, delle scienze sociali e della tecnocrazia, gli stessi intellettuali hanno cominciato a vedere se stessi come un’entità collettiva. Si sono valutati e studiati in quanto ruolo e funzione sociale, o strumento utile in vista di scopi politici. Hanno voluto sentirsi specialisti, funzionari, organizzatori e infine, a loro volta, politici»[3].

Quest’ultimo è stato un errore o ha apportato vantaggi significativi alla considerazione esterna (sociale e politica) di questo gruppo socialmente esile dal punto di vista numerico ma spesso influente e considerato fondamentale per la formazione dell’opinione pubblica (quando ancora quest’ultima contava in qualche modo e non era ancora svanita nel gorgo fluente e versicolore della sfera mediatica)?  Probabilmente sì, secondo Berardinelli, anche perché, nella maggior parte dei casi, i grandi intellettuali europei (come pure i grandi autori letterari che si sono susseguiti nel corso dei secoli nella cultura occidentale a partire da Rousseau in poi) furono dei “misantropi”. Individuando in un celebre testo teatrale di Molière, Le Misanthrope del 1666, il capostipite della descrizione di questo atteggiamento nei confronti della società, Berardinelli si dilunga su alcuni esponenti esemplari di questo modo di confrontarsi con un insieme sociale che viene disprezzato aspramente ma che, nello stesso tempo, risulta necessario quale bersaglio polemico per l’esposizione delle proprie idee sul mondo e sugli uomini. Pascal, Rousseau, Hölderlin, Leopardi, Kierkegaard, Ruskin, Tolstoj, Flaubert, Baudelaire, Karl Kraus, Orwell, Theodor Wiesegrund-Adorno, Kafka, Thomas Mann, Pasolini e finanche Italo Calvino vengono ri-collocati all’interno di questa maxi-categoria meta-sociale e umoralmente fondata su considerazioni tanto generali quanto assennate (ed è per questo che magari Tolstoj e Puskin a questo modo di pensare non sempre corrispondono).

Misantropi o no, della funzione critica degli intellettuali, nonostante i tempi vigenti e le considerazioni imperanti sulla cultura, non si può fare certamente ancora a meno. Nell’analisi della figura del critico “militante” e riflettendo sulla sua eclisse (o scomparsa), Berardinelli organizza alcune delle riflessioni più rilevanti (e acute) presenti in questo suo volumetto:

«Il critico non va confuso con il recensore. Può fare o non fare recensioni (di solito le fa). Ma dovranno avere qualcosa che le faccia riconoscere come parte di un insieme. Il critico militante è un tipo di scrittore la cui opera si manifesta a puntate: il lettore dovrebbe intuire che sono le puntate di un romanzo intellettuale che racconta il presente. Il recensore, invece, si distingue per questo: ha sempre l’impressione che facendo recensioni sta sprecando il suo tempo e le sue energie, perché invece, per essere veramente creativo, dovrebbe scrivere anche lui, come tutti, un romanzo o un libro di poesia. Il critico non fa questi sogni. E’ tutto in quelle cinquanta o cento righe del suo articolo. La sua opera è tutta lì. Se scrive un romanzo, lo fa con la mano sinistra e non ci tiene molto. Ci sono critici che si orientano secondo i propri gusti e cercano una qualità relativa o assoluta nei singoli libri. Altri individuano una tendenza letteraria, la difendono o la attaccano. […] Ci sono poi critici che usano i libri per pensare problemi non letterari. Si possono fare diverse cose insieme (gusto, tendenza, pressione ecc.): ma generalmente non tutte. Le mie preferenze vanno al critico che legge letteratura per capire qualcosa di diverso dalla letteratura» (pp. 73-74).

Un simile atteggiamento è auspicabile sempre se si considera la letteratura come qualcosa di relativo alla consapevolezza che essa ha del suo essere inserita in un contesto più ampio (come può essere la società o la scena politico-sociale) ma che rischia di spostare il problema della forma da fondamentale a secondario. Quello che mi sembra, invece, rilevante e di grande provocatorietà è, tuttavia, l’idea della critica come “romanzo a puntate” del presente. Infatti, se la critica non fosse sempre “storia contemporanea” anche quando parla di eventi letterari del passato più remoto o di questioni apparentemente relegate (e relegabili) nella “torre d’avorio” della filologia o dell’erudizione, non varrebbe la pena di scriverla (e di scriverne). La critica letteraria, anche quando è “storica” e non “quotidiana”, riflette, in termini certo non meccanici ma sempre mediati dalle potenzialità ermeneutiche della forma della scrittura, ciò che avviene intorno al critico (e non si tratta soltanto delle stantie vicende dell’editoria o delle polemiche “di bottega”) e che cosa gli permette di giudicare non tanto le opere di cui scrive ma di capire il perché esse sono state scritte.

«Il corpo della letteratura sta in piedi, cammina, ha ossa e muscoli, respira con i suoi polmoni, ha un cuore che batte e un sangue che circola, si nutre e digerisce, espelle le materie di scarto, si riproduce. Tutto questo si vede. La critica è il sistema endocrino del corpo letterario. Non si vede. Ma se funziona male, tutti gli altri apparati e sistemi si ammalano» (p. 76).

Forse la metafora organicistica di Berardinelli può sembrare un po’ azzardata (e poco adeguata all’oggetto) ma sicuramente rileva un aspetto necessario dell’attività intellettuale che viene troppo spesso dimenticata: i critici (e in genere gli intellettuali) devono servire a qualcosa altrimenti la loro funzione è pleonastica e inutile. Quando questo avviene e il loro compito risulta ben assolto, anche il livello generale della dimensione culturale in cui operano sale e cresce in modo adeguato; se, invece, esso risulta mediocre o inadeguato anche il loro “oggetto d’affezione” decresce e si abbassa. La critica, la letteratura e la dimensione culturale in cui essi si trovano – sostiene, di conseguenza, Berardinelli – sono collegati molto strettamente e la crisi dell’una comporta la decadenza e l’incapacità a incidere delle altre due. La posta in gioco, dunque, è, in ogni modo, la crescita dei soggetti che costituiscono il livello culturale generale della società di cui essi sono parte integrante e duratura.

2. Il romanzo come ultima Thule

 

Perché, allora, non bisogna “incoraggiare il romanzo” (come recita il titolo della seconda fatica letteraria di Berardinelli per il 2011, un anno in cui si è sentito in vena di bilanci)? Perché il romanzo sposa soltanto le necessità dell’industria culturale e non permette di cogliere, invece, in maniera più necessaria e longanime, le contraddizioni della realtà sociale e umana da cui deriverebbe.

«Il Novecento, il secolo della crisi del romanzo, si sta rovesciando. All’autocritica del romanzo (e di tutta l’arte) sta seguendo l’autocritica dell’autocritica. Cioè la rinuncia alla critica, il ritorno al mito e a ogni specie di miti. Forse, chissà, tirando violentemente da un lato e poi dall’altro, la cosa troverà un suo equilibrio. Ecco la stranezza. Da un lato vengono pubblicati moltissimi romanzi e moltissime recensioni e ci sono editori che pagano generosi anticipi per commissionare romanzi ad autori giovani e meno giovani. Dall’altro, riemerge sempre quella malaugurata sfiducia radicale, quella tendenza al dubbio che ha assillato e devastato tutta l’arte moderna e che nega l’esistenza di ciò che a suo modo esiste. Ci sarebbero, cioè, innumerevoli romanzi inesistenti in circolazione, mentre quello che non esiste sarebbe il vero romanzo. Da un lato la quantità evidente, dall’altro una qualità assai dubbia»[4].

Ma come stabilire se un romanzo esiste oppure no? Qual è l’elemento “dirimente” tra quantità e qualità, tra valore assoluto e valori di mercato? La risposta non è certo facile a darsi sia da parte degli “elogiatori” (o “incoraggiatori” dei romanzi presenti in libreria oggi) sia da parte dei loro detrattori. La speranza degli editori è sempre la stessa – che dalla quantità si passi alla qualità in maniera diretta e dialetticamente confortante. Il dubbio degli intellettuali-critici è, invece, che la quantità resti tale e la qualità non si profili neppure nascostamente, in tralice, come una sorta di evento segreto condiviso da pochi e soltanto poi trapassato ai molti. E poi, alla fin fine, che cos’è un romanzo? Berardinelli si pone la domanda e rimanda, in certa misura, alle pagine ancora straordinariamente “classiche” di Edward M. Forster contenute nella sua raccolta di conferenze dedicate agli Aspetti del romanzo[5]. Ma che cosa sia veramente il Romanzo bisogna poi chiederlo sul serio a chi li scrive e li costruisce a partire da una propria personale poetica autoriale. In sostanza, quindi, se il Romanzo non esiste o è difficilmente e solo provvisoriamente codificabile in alcuni suoi elementi di pura struttura, esistono poi, in realtà, i romanzi e i romanzieri. Da qui scaturisce l’analisi di una o più opere di moltissimi autori italiani di narrativa raccolti e registrati in ordine alfabetico. Ne emerge una sorta di significativo “stato dell’arte” riguardo al più o meno recente romanzo d’autore (il primo a essere recensito è Corporale (1973) di Paolo Volponi, gli ultimi sono dello scorso anno come, ad esempio, Autopsia di un’ossessione del più volte analizzato Walter Siti). La ricostruzione del singolo autore travalica, tuttavia, nella ricerca del loro posto all’interno del panorama attuale della letteratura italiana e in ogni singolo tassello dell’analisi si intravede un piano generale di verifica di alcuni assunti essenziali di partenza. Il primo – essenziale – è che non basta narrare in maniera adeguata o addirittura più che brillante per essere davvero un romanziere (è l’appunto rivolto a Nicola Lagioia e poi anche ad Andrea Camilleri accusato, a ragione, di eccessiva ripetitività nelle trame e anche nella scrittura). D’altronde, la negazione delle “ragioni narrative” di un autore come Franco Cordelli, autore di testi impalpabili e gloriosi, che difficilmente possono essere definiti opere romanzesche tradizionali è accettata dall’amico Berardinelli proprio come un possibile passo avanti rispetto al genere. Ma d’altronde cosa c’era (o c’è oggi) di “romanzesco” nei colossali romanzi-confessione di Volponi o nei pamphlet appassionati di Alberto Arbasino o nelle proposte pedagogico-guerresche di Edoardo Albinati? Il romanzo è definizione con molte facce dove ognuno può apporre la propria firma e incidere il proprio segno del comando oppure il romanzo è qualcosa che non può essere diverso da quello che è? Belardinelli oscilla tra queste due definizioni alquanto larghe e sembra rifiutarsi a concedere lo spazio decisivo al tema della “narratività” emersa con prepotenza negli anni Novanta del Novecento e poi in quelli definiti Zero del primo decennio del secolo nuovo[6]. Per il critico romano, narrare non basta ma occorre anche pensare mentre si narra e pensare implica una riflessione rilevante e spesso esclusiva sul valore innovativo dello stile e sulla sua capacità di riconduzione formale del contenuto espresso alla logica di riproduzione espressiva che esso intende veicolare.

In un testo sotto forma di lettera, Belardinelli rimprovera a Tiziano Scarpa e ad Antonio Moresco (così come alla loro pronuba Carla Benedetti) di aver sostituito il loro prodotto corporeo, la loro nudità effettuale alla secrezione di pensiero che produce alla fine il senso della scrittura:

«E’ comunque interessante, caro Tiziano, la tua identificazione dell’artista con l’esibizionista in senso clinico. Il tuo libro [Batticuore fuorilegge, Roma, Fanucci, 2006] porta in copertina una vignetta con la sequenza di un pupattolo di plastica che si apre l’impermeabile, si cala i calzoni e si mostra in mutande. C’è da commuoversi. L’esibizionista come tu lo descrivi nel tuo saggio è in effetti commovente nella sua coazione a mostrare le parti del proprio corpo che di solito non si vedono. L’artista sarebbe, secondo questa idea estremizzata, colui che non si limita certo a mostrare la propria faccia, questa no, questa è ipocrisia vetero-umanistica: lui mostra senza preavviso e fuori programma il suo cazzo e il suo culo, le sue più intime e definitive verità. L’artista-esibizionista, secondo questa particolare estetica anti-estetica, non si limiterebbe a esprimersi, cosa intollerabilmente limitata, ma dovrebbe, simultaneamente, mostrare, rivelare, denudare la propria condizione creaturale»[7].

A parte le forzature linguistiche e il tono volutamente esibizionistico, è certo che Berardinelli abbia una buona parte di ragione. Narrare non significa mostrarsi ma esporre le ragioni del proprio essere, del proprio esistere in un contesto specifico dato, in una dimensione reale, in una prospettiva che preveda il passato e il futuro di se stessi insieme agli altri. Tramontato il mito del narratore onnisciente (alla Balzac o alla Tolstoj), conclusa la stagione del romanzo anti-romanzo (da Capriccio italiano di Edoardo Sanguineti a Il padrone assoluto di Gianni Toti), finita la ricerca di testi narrativi che permettessero di rimetterne in discussione lo statuto di “effetto di realtà”, resuscitato l’Autore (nonostante la profezia congiunta di Roland Barthes e di Michel Foucault) e accettata l’idea del predominio della trama sullo stile della scrittura, che cosa resta se non provare a restituire alla narrazione la sua natura di tecnica conoscitiva di una realtà sempre più sfuggente, sempre più “liquida”, sempre più disgregata? Se la realtà sia più ”vera della finzione” non è dato saperlo ma sicuramente la letteratura è parte cospicua di quella realtà cui appartiene e con cui si confronta in un’ottica di fronteggiamento corpo-a-corpo.

E’ in questa dimensione che le stroncature di Berardinelli trovano spazio di manovra. Tristano muore di Antonio Tabucchi (che non è certo una delle sue prove più riuscite) viene accusato di incompiutezza e di incomprensibilità strutturali proprio perché il suo statuto di ambiguità gnoseologica gli impedisce di essere, nello stesso tempo, un romanzo di formazione politica e morale; a Camilleri viene rimproverata la corrività di un dialetto siciliano narrativamente inutile; a Lagioia, invece, una frenesia pirotecnica che nuoce alla condotta necessaria dell’opera di narrazione. A Landolfi, invece, viene constato il male peggiore della scrittura che voglia essere qualcosa di diverso dalla prosa poetica: la sua finalità autorisolventesi in se stessa, in molteplici elzeviri di altissima qualità scritturale che, però, “non concludono”… (per dirla con Pirandello) e soffocano, invece che elevarla, la qualità materiale che dovrebbe sostenerli.

A Berardinelli piacciono altri scrittori (oltre che Cordelli e Siti): La Capria saggista, soprattutto.

Della sua produzione non narrativa vengono analizzati libri importanti (L’armonia perduta, Milano, Mondadori, 1986; Letteratura e salti mortali, Milano, Mondadori; 1982; Lo stile dell’anatra, Milano, Mondadori, 2001; L’estro quotidiano, Milano, Mondadori, 2005) e raffinati ma mai inutili o vanamente preziosi. Di La Capria a Berardinelli fanno gola la semplicità espressiva e la capacità di mostrarsi nel mondo senza violentarlo, da un lato, e senza genuflettervisi dall’altro, in un rapporto spontaneo di comprensione reciproca. Forse, in questo equilibrio forsennato e pacifico, il critico trova le ragioni della scrittura come forma che si sporge sulla realtà per comprenderne le prospettive molteplici e diffuse e che si rifiuta di esserne il puro e semplice sostegno espressivo.

Nell’only connect di Forster (l’epigrafe di Howartd’s End) e nel suo disegno di una ampiezza narrativa che va oltre l’oggetto della narrazione per lasciarne sempre un oltre inesplorato, è forse possibile trovare una ragione per “incoraggiare” il romanzo. Ma senza voler esagerare: di romanzi in Italia (da sempre patria della poesia e del saggio storico) se ne scrivono pur sempre troppi. Meglio evitare troppo facili ottimismi e cercare rifugio nella “critica della cultura”.

 


NOTE

[1] Alfonso Berardinelli, L’esteta e il politico. Sulla nuova piccola borghesia, Torino, Einaudi, 1986, pp. 12-14: “Infine, l’intellettuale-ruspa ama la logica, una logica più schiacciante che stringente. Il suo movimento obbligato di pensiero è un andirivieni. Mentre il potente motore marcia fragorosamente e a pieno regime, la pala dentata solleva quintali di povere zolle con tanto di manto erboso. Non c’è costruzione senza distruzione: questo è uno dei motti preferiti dell’intellettuale-ruspa. Se è romanziere, pubblica un romanzo ogni due anni. Se è un critico letterario, produce storie in migliaia di pagine e in diversi volumi. Alla fine, è più il terreno che ingombra che il terreno che spiana. Il talento dell’intellettuale-tritacarne è altrettanto elementare, ma fa un’impressione completamente diversa. Vederlo all’opera non soddisfa gli impulsi nascosti in ognuno di noi di vedere sempre e tutto chiaro. Anzi, diciamo pure che l’intellettuale-tritacarne non è alieno dal confondere molto le cose. I più diversi oggetti con le loro proprie caratteristiche, una volta trattati dall’intellettuale-tritacarne prendono un’aria irriconoscibile. Si continua ad avere la vaga sensazione che si tratti più o meno di quelle precedenti cose di cui si trattava. Solo che, per fortuna o per disgrazia, queste cose non sono più le stesse. […] L’intellettuale-apriscatole ha un fascino più discreto. Direi che, soprattutto, ha un fascino più democratico. Infatti l’apriscatole non fa che dimostrare pubblicamente le meraviglie (tutte uguali) che si possono compiere con l’uso dei suoi acuminati e taglienti strumenti razionali. In breve, egli è un vero illuminista. E’ un campione della demistificazione: o almeno così si presentava una volta“.

[2] Alfonso Berardinelli, Che intellettuale sei ?, Roma, Edizioni Nottetempo, 2011.

[3] Alfonso Berardinelli,  Che intellettuale sei ? cit. , p. 43.

[4] Alfonso Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana, Venezia, Marsilio, 2011, p. 37.

[5] Edward M. Forster, Aspetti del romanzo,  trad. it. di Corrado Pavolini, prefazione di Giuseppe Pontiggia, Milano, Garzanti, 20002.

[6] Su questo punto, cfr. il lavoro collettivo coordinato da Vito Santoro (Notizie dalla post-realtà. Caratteri e figure della narrativa italiana degli anni Zero, Macerata, Quodlibet, 2010 e che contiene contributi di Domenico Mezzina, Antonella Agostino, Francesca Giglio, Marco Marsigliano e Vito Santoro).

[7]  Alfonso Berardinelli, Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana cit., pp. 259-260.

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Saggio pubblicato su NARRAZIONI.  Rivista quadrimestrale di autori, libri ed eterotopie (febbraio-maggio 2012). Vol. 1, a cura di Vito Santoro, Milano, Ledizioni editore, 2012

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.