Marino Piazzolla, “Mabò lo straniero”

Marino Piazzolla, Mabò lo straniero, Roma, Fermenti, 2021, pp. 140, € 14,00

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di Stefano Lanuzza
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L’Europa sarà un continente multirazziale o, se preferite,“colorato”. Se vi piace, sarà così; e se non vi piace, sarà così lo stesso (U. Eco, Le migrazioni del Terzo Millennio, 1997).

Quantunque rimosso dalle storiografie letterarie maggiorenti, Marino Piazzolla (1910-1985) è un illustre outsider della poesia italiana novecentesca. Formatosi a Parigi nella prima parte del secolo scorso, a contatto prima con Marinetti e poi con Claudel Valéry Gide Éluard Breton, è autore di opere di saggistica narrativa filosofia, giornalismo letterario e critica d’arte; oltre che di satira e, soprattutto, di numerosi libri di versi, tra i quali spiccano i poemetti Lettere della sposa demente (1952) e il Paese di nessuno (1958); con Pietà della notte (1957), Gli occhi di Orfeo (1964), Ballata per mille ombre (1965; prefazione di Giuseppe Marotta), Gli anni del silenzio (1972), Lo strappo (1984; pref. di Giacinto Spagnoletti), Sinfonie (1984; pref. di Giorgio Barberi Squarotti) o Il Pianeta Nero (1985). In una descrizione di Marotta, c’è “un Piazzolla trasfigurato” [:] nuovo, solenne, con le tempie baciate dalla corona di lauro” (Facce dispari, 1963). Un rilievo particolare assume, inoltre, l’interesse per l’opera poetica dell’autore da parte della filosofa e saggista spagnola María Zambrano (cfr. Il poeta italiano Marino Piazzolla, in Algunos lugares de la poesía, 2007).

Tra bozze e progetti letterari lasciati inediti da Piazzolla, emerge Mabò lo straniero (Roma, Fermenti, 2021, pp. 140, € 14,00) un quanto mai attuale, cogente metapoema che, redatto dall’autore agli inizi degli anni Ottanta, implica un discorso sui diritti dei migranti in un’Italia ciurmata da razzisti ignoranti e fomentatori di odio; nonché una critica dell’ipocrisia sociale da cui discendono l’isolamento, la discriminazione, lo sfruttamento patiti da quanti, configurati quali ‘stranieri interni’, sono tenuti fuori della comunità.

Strutturato in una sessantina di lasse, il libro sottende, appunto, una fenomenologia dell’esilio e della tragedia migratoria incentrata intorno alla figura d’un extracomunitario monologante sulla perdita di sé: uno sradicato forestiero, apolide o clandestino, étranger senza più ricordi e, nella sua desolazione di transfuga, spossessato di tutto: “Siccome non ho nulla mi sembra di non essere; mi sento come un sasso. Le idee se ne sono volate ed è vuoto il mio capo”.

È un immigrato senza tutele, Mabò, un ‘invisibile’ relegato ai margini della polis; e che, nel nostro Paese, se non vaga sperduto per le strade, viene adibito alla raccolta della frutta o alle più ingrate manovalanze: “Ad ogni risveglio mi tocca partire da me stesso e affrontare il mondo, pronto soltanto a vendere la sola forza dei muscoli per masticare pane, soltanto pane avanzo d’una festa feroce”.

È ‘lo Straniero’, Mabò. Chissà se straniero ‘come tutti’, che, proprio in quanto tale, indica la trasvalutazione del confine oltre il quale s’afferma l’alterità e un modo di essere, nel mare della vita, senza limiti convenzionali, ‘uno nessuno e centomila’: “Un giorno, vero come il sole, saremo il mare. Noi saremo il mare in tempesta perché già sulla terra c’è stata la tempesta che salva l’uomo. Noi saremo il fulmine che spacca il mondo. Allora verranno a cercarci, fra le spighe del grano, uomini come noi: fedeli alla vita”.

Non possedere niente (“nulla è mio”), nemmeno l’essenziale, non appartenere all’ordine costituito è come ‘non essere’, stando chiuso nella prigione d’una solitudine senza scampo. Eppure, “io sono un milione mille milioni di uomini”: sono l’Altro, ossia tutti voi, gente ostile, ciechi sovranisti senza pietà o coscienza cristiana, che non mi volete e mi avete contrapposto ed escluso; e magari credete di “credere in Dio”.

Ma, in realtà, “quelli che credono in Dio, non hanno più il tempo di credere nell’uomo. Quelli che credono nell’uomo non hanno più il tempo di credere in Dio”, l’ebraico-cristiano Dio della Genesi biblica che gli uomini “disperse su tutta la terra” senza conciliarli nell’uguaglianza, separandoli come Abele separato da Caino, gettandoli ovunque, moltiplicando e confondendo le loro lingue.

Privo di domus, di lavoro, salario, contratto sociale, non organico al contesto, irregolare sans papier perseguito da un’intolleranza risalente alla storia dell’imperialismo colonialista infine compromessa col razzismo basato sull’idea di un’immaginaria, superiore ‘razza ariana’ all’origine della criminalità nazifascista, Mabò sconta il disagio indottogli dal sistema fino a perdere la propria identità di uomo.

Forza-lavoro sottopagata, indigente relegato in un cono d’ombra, lui stesso si fa ombra impossibilitato ad avere contatti veramente umani, cioè occasioni d’una reciprocità con chi lo rifiuta. “Non ho nulla” lamenta o protesta. “Nulla. Nulla. Io, da tempo, ho di mio l’ombra soltanto”: un’ombra crepuscolare dentro cui provvedersi d’una “maschera sotto cui soffre l’immagine vera del mio volto” di sofferente crocifisso che ha “rimpiazzato Cristo” e nessuno vuole “staccare dalla croce”.

Contro tutto questo, con gli altri come lui, giunge a pensare che “un giorno, a un’ora di rabbia, come fulmini scoppieremo. Tutta la nostra presenza, sulla terra, sarà il primo tuono d’una tempesta di mani vuote”… Ma non si ribella, Mabò: “Non impugnerò armi. Non ucciderò il nemico, fantasma dietro cui si nasconde chi mi dissecca il cuore e le ossa”; e spera: “Quel che in ogni istante mi viene tolto, come fossi il ladro della mia forza umana quello mi sarà dato. Allora scoprirò ch’ero innocente come tutti i miei sogni”.

Fervidamente configurato dal poeta, Mabò appare un simbolo posto a monito contro la nostra gabbata umanità del benessere, di un apparato sociale indifferente, restrittivo e gelido, impaurito, egoista e proprietario, compulsivamente consumistico e omologato; che prende le distanze da quanto appaia ‘diverso’ e, in nome d’una gelosa intangibilità, respinge o emargina lo straniero, l’hospes, riducendolo a fastidioso hostis (e osteggiato hosticus = ostile antagonista barbaro, minaccioso nemico), condannandolo al perpetuo esilio e obliterando, con le regole umane dell’ospitalità, i rapporti intersoggettivi e il confronto.

Non un confronto, bensì l’antitesi e gli stereotipi dell’antagonismo è quanto si riserva allo straniero, impedendogli qualunque insediamento, estraniandolo e relegandolo in baraccopoli fatiscenti e periferiche, in quartieri privi di fognature, acqua potabile, elettricità, ambulatori medici, scuole: in ghetti malsani non diversi dagli slums dei subcontinenti del mondo.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.