“L’opera a luci rosse. Seduzione e sessualità nel melodramma del secondo Ottocento”, “Divine. Nuove prospettive sul cinema muto italiano”, «Favola & Fiaba»

Ritorni nutrienti (seconda serie).

L’opera a luci rosse. Seduzione e sessualità nel melodramma del secondo Ottocento (2022, ma dicembre 2021), Divine. Nuove prospettive sul cinema muto italiano (2022, ottobre), «Favola & Fiaba» (1, 2023, gennaio).


di Luciano Curreri (ULIEGE)

1. Federico Fornoni, L’opera a luci rosse. Seduzione e sessualità nel melodramma del secondo Ottocento, Firenze, Olschki («Centro Studi Giacomo Puccini – Premio Rotary Giacomo Puccini Ricerca»), 2022 (ma dicembre 2021), XIV, 394 pp., 40 euro.

«I prodromi dell’introduzione della questione sessuale nell’opera italiana collocabile a metà secolo sarebbero dunque da fissare nel passaggio dalla concezione tragica al dramma borghese avvenuto nei due decenni precedenti. Che l’origine dell’interesse carnale all’interno del melodramma italiano sia da individuare nella drammaturgia costellata di ‘sozzure’ degli anni Trenta-Quaranta lo chiarisce un seppur rapido sguardo al trattamento delle protagoniste femminili. Ancora in quella fase, si diceva, l’erotismo era sublimato e l’eroina veniva presentata rispettando le caratteristiche di purezza sentimentale pretese dal pensiero dell’epoca. Nel trattare una vicenda scabrosa come l’adulterio di Francesca da Rimini, il librettista Paolo Pola si sentiva in obbligo, nel 1828, di pubblicare dei Cenni giustificativi alcune alterazioni di fatto praticate dall’autore nel dramma «Francesca da Rimini», sottolineando come le divergenze dalla vicenda reale e dalla fonte letteraria fossero state introdotte per attenuare un soggetto che “non offr[iva] al certo un modello di virtù” […] Dopotutto i rapporti sentimentali sono sempre stati il cuore dell’opera italiana e rilevare la tinta sessuale di cui si colorano nel secondo Ottocento è operazione fondamentale per esaminare quella produzione».

«Verdi, forse caso unico nei decenni centrali del secolo, sembra porsi quale tramite fra le più avanzate istanze europee e il mondo italiano ancora piuttosto chiuso in se stesso e alla ricerca di un’identità. Lorenzo Bianconi ha parlato in maniera convincente del melodramma in termini di educazione sentimentale».

«Così il 6 novembre 1874 Errico Petrella rispondeva ad Antonio Ghislanzoni, commentando il programma inviatogli dal poeta relativo a un’opera tratta da Salammbô di Gustave Flaubert […]: “Dimmi, Salambò ama, o non ama il barbaro? Ti confesso che non l’ho ben capito: è stata o non è stata con lui? Questa indeterminatezza negativa, secondo me, mi spiace. Se la tua fantasia mi accompagna, non sarebbe bellissimo, che ad una certa compiacenza del 1° atto quando Salambò da [sic] a bere a Matho, succeddesse un furioso amore contro sua volontà per punizione della Dea di cui ha visto il velo; e poi morisse così per questa ultima cagione, e per l’amore e la pietà dello strazio che han fatto dell’uomo che pure le ha fatta [sic] sentire le supreme voluttà di natura prepotente? Quanto maggior calore, quanta vita, quanto palpito terribile nella scena finale!”».

«Puccini stava completando Turandot. Mancava il duetto finale, ove il motivo essenziale dello sgelamento della principessa, nelle intenzioni del musicista, doveva risiedere nella seduzione fisica. Qualche anno prima, in una lettera ascrivibile al 1920 o al 1921 indirizzata a Simoni (l’altro librettista di Turandot [insieme ad Adami]), Puccini scriveva di aver previsto come finale dell’opera una “gran frase amore con bacio moderno e tutti presi si mettono la lingua in bocca”. Il connubio fra una sessualità ostentata senza filtri (un bacio che è puro incontro di corpi) e la modernità viene esplicitato. Né il bacio fra Calaf e Turandot, né l’esibizione senza veli della fanciulla veneziana avrebbero però incrociato la musica di Puccini».

2. Divine. Nuove prospettive sul cinema muto italiano, a cura di Alessandro Faccioli ed Elena Mosconi, Milano-Udine, Mimesis («Cinema»), 2022 (ottobre), 160 pp., 16 euro [contributi di Monica Dall’Asta, Cristina Jandelli, Elisa Uffreduzzi, Alessandro Faccioli, Ibo Blom, Denis Lotti, Elena Mosconi].

«La perla del cinema [De Liguoro, 1916 circa] presentava una trama metacinematografica nella quale [la stessa] Francesca Bertini progetta[va] il suo suicidio di fronte alla macchina da presa, quale vera e propria apoteosi delle sue facoltà demiurgiche e creative. Distrutta dalle angherie del suo partner, decide di togliersi la vita nelle ultime inquadrature di un film autobiografico da lei stessa concepito, così da consumare il proprio suicidio davanti all’obiettivo quale epilogo, sinistro e glorioso al tempo stesso, della storia della propria vita. In questa melodrammatica dichiarazione di poetica, vi è tutto il paradosso della Bertini “cinematografaia”: artista dai molteplici talenti, forse la personalità femminile più potenete dell’industria cinematografica italiana, capace di usurpare il ruolo dei suoi registi fino al punto di porli ai margini del processo realizzativo, ma artefice di un successo conseguito unicamente grazie allo sfruttamento intensivo del mito della donna sconfitta, vittima del pregiudizio e piegata dalla gelosia. Nessuna più di lei fu in grado di sfruttare questo stereotipo sessista per conquistare non solo una fama che ancora oggi resiste al lavorìo implacabile del tempo, ma anche una libertà d’azione davvero senza eguali nel contesto del cinema muto italiano. Tuttavia, volendo tentare (senza prenderla troppo sul serio) una speculazione psicoanalitica, potremmo chiederci se il tetro finale de La perla del cinema non nasconda anche qualcos’altro: un moto di ribellione, un desiderio inconscio di farla finita con un’immagine, quella della “femme défaite”, come l’ha definita Michèle Lagny, che l’aveva bensì consacrata ai vertici del successo internazionale, ma che pure la imprigionava in un modello rappresentativo ancorato agli schemi della letteratura maschile ottocentesca, e che decisamente non le somigliava» [dal contributo di Monica Dall’Asta].

«Tra gli anni Dieci e gli anni Venti del Novecento, le dive del cinema – italiano e non solo – “si rincorrono” da uno schermo all’altro interpretando personaggi del tutto simili, che pertengono alla categoria della femme fatale: la donna bella quanto pericolosa, colpevole di portare alla perdizione – e spesso anche alla morte – tutti gli uomini che non sanno resisterle. Questo archetipo femminile ha origini letterarie e artistiche che precedono la nascita del cinema, eppure, nel passaggio dalla pagina o dalla tela allo schermo, permane come caratteristica ricorrente la presenza della danza, in quanto elemento imprescindibile della sua seduzione. Basti pensare a Salomè, a Carmen o alle innumerevoli gigolettes [le partner femminili degli apache – piccoli delinquenti nel gergo parigino di quegli anni – quasi sempre impegnate in una danza sensuale particolare in una taverna dei bassifondi] che popolano gli schermi nella stagione del muto […] Salomè e la gigolette in ultima analisi sono le due facce del “paradigma della diva” individuato da Ramirez: “seduttrice malvagia” la prima e “creatura condannata a un triste destino” la seconda, rappresentano due diverse declinazioni della femme fatale nel cinema muto italiano» [dal contributo di Elisa Uffreduzzi].

«Non è vero che la bellezza è cosa sempre vantaggiosa e utile, e non lo è specialmente dopo che è passata, per chi ne ha goduto. Su questo tema riflettono ormai da tempo gli studi internazionali sull’invecchiamento dei divi, sull’aging […] Helena Makowska […] un fascino [slavo], esotico e magnetico, corroborato da una bellezza conturbante, che raramente – come in questo caso – ha messo d’accordo critici, esegeti e pubblico […] è stata però dimenticata e raramente oggi si parla di lei […] E quasi a compensare [l’]unanime trasporto elogiativo delle grazie della fanciulla venuta da lontano, ci è offerto uno stuolo di appunti critici [tra anni Dieci e Venti] sulle sue capacità recitative e su un’espressività dai più giudicata carente […] Valgano ad ogni buon conto le riflessioni di Stella Dagna, che ricorda come “la supposta inespressività dell’attrice è in fondo anche corrispettivo dell’indifferenza del personaggio di fronte al maschio, alle convenzioni, alle remore morali”» [dal contributo di Alessandro Faccioli].

«Kally Sambucini [al secolo Calliope (Roma, 1892-1969)] rappresenta indubbiamente un modello di femminilità accogliente, alternativo rispetto a quello proposto dalle grandi dive, algide e irraggiungibili. Contrapponenendo loro – anche se non sullo stesso livello di mestiere e celebrità – un’immagine percepita dagli spettatori come autentica e accessibile, Kally mantiene il suo peculiare carisma popolare lungo tutto il decennio cinematografico che l’ha vista attiva [dal 1915 sino al 1925]: un carisma che si percepisce sia quando si aggira nelle oscure taverne frequentate dagli apache parigini, sia tra le pieghe – ben più sofisticate – del melodramma pirandelliano» [dal contributo di Denis Lotti].

3. «Favola & Fiaba. Rivista internazionale di studi e ricerche nelle letterature classiche e moderne», 1, con un Editoriale della Direttrice Lucia Rodler, Pisa-Roma, Serra, 2023 (gennaio), 164 pp., 40 euro (Privati Italia, brossura) [contributi di Maurizio Bettini, Tommaso Braccini, Sofia Gavriilidis, Daniela Marcheschi, Michele Rak, Vanessa Roghi, Massimo Scotti, Ambra Carta, Giulio Martire].

«Accanto ai problemi delle origini [giustamente Maurizio Bettini e Tommaso Braccini sottolineano le difficoltà di ricostruire la tradizione antica], il primo numero di “Favola & Fiaba” permette di seguire anche il flusso del mondo fiabesco nel corso dei secoli. Con Michele Rak e Massimo Scotti l’attenzione si sposta dalle fonti alla circolazione e ai mutamenti della tradizione fiabesca e della critica. […] Le principesse giovani e belle, ad esempio, hanno recentemente attirato l’attenzione di studiosi e studiose interessati a definire pregiudizi e stereotipi. […] Il fatto è che le nuove interpretazioni richiederebbero la preparazione storica e l’equilibrio di Marina Warner [cfr. almeno, in italiano, il recente C’era una volta. Piccola storia della fiaba, Roma, Donzelli, 2021] e invece, spesso, sono avanzate da ricercatori e ricercatrici della cultura woke, esperti di queer, women e gender studies, ma non delle lunghe durate della storia e della cultura, precisa bene Massimo Scotti. Ciò non significa, naturalmente, trascurare i problemi di ricezione che dall’Ottocento coinvolgono anche il pubblico giovanile [come fanno Sofia Gavriilidis, Vanessa Roghi, Ambra Carta, Daniela Marcheschi]» [dall’editoriale di Lucia Rodler].

«Il Romanticismo avrebbe lavorato a legittimare i fantasmi dei popoli e le chimere degli scrittori. La produzione letteraria rivoluzionaria e post-rivoluzionaria era considerata inadeguata e non competitiva con l’emergente e realistica romanzeria inglese. La letteratura doveva essere lo “specchio” della società civile, anche se il conflitto tra passioni e felicità dell’individuo ed etica e virtù della società appariva insanabile e forse per questo attrattivo per i lettori. […] Era il segnale della domanda di nuovi strumenti di rappresentazione sociale da parte della cultura industriale emergente. […] Danzano le fanciulle morte. Le apparizioni, i sogni, le visioni, i corpi immaginari erano soggetti che transitavano dalle dicerie e dalla librettistica dei marginali, che erano nelle tradizioni dell’esotismo interno europeo, ai romanzi e alle opere teatrali che acquisivano rilievo nel gusto colto dei frequentatori dei teatri e dei lettori dei romanzi. Un repertorio di figure che andava dai vampiri di area nordeuropea alle ballerine bianche e morte del teatro parigino fino ai corpi mobili ma meccanici che si muovevano sui palcoscenici, obiettivo estremo della ricerca sulle macchine e sulla danza» [dal contributo di Michele Rak].

«Accanto alle fiabe della tradizione, da leggere nella loro forma originale o da usare come materia prima, Rodari è tra i principali teorici della necessità di scrivere fiabe attuali, per i bambini che andranno nello spazio. Proprio da questa istanza nasce la collana einaudiana di Bruno Munari “Tantibambini” [persino un fatto tecnico può suggerire una fiaba]: “fiabe e storie semplici, senza fate e senza streghe […] per una nuova generazione di individui senza inibizioni, senza sottomissioni, liberi e coscienti delle loro forze”. Ma come, senza fate e senza streghe? si domanda Natalia Ginzburg […]» [dal contributo di Vanessa Roghi].

«Sanga [Glauco Sanga, La fiaba. Morfologia, antropologia e storia, Padova, CLEUP, 2020] si cimenta con il sujet brûlant per eccellenza della ricerca demologica, ossia la definizione di ‘cultura popolare’. Sintagma, questo, che è necessario scomporre nei termini ‘cultura’ e ‘popolo’, cui l’Autore dedica due paragrafi susseguenti che hanno il merito di ricostruire una sintetica storia di due concetti fortemente polisemici e di volta in volta piegati alle necessità del presente. ‘Cultura’ è ovviamente qui da intendersi nella sua accezione neutra, oggettiva, antropologica […] Una prospettiva ugualmente antisostanzialistica si ritrova nella trattazione della categoria di ‘popolo’ e ‘popolare’ […] Il settimo capitolo è dedicato alle ‘fiabe di incantesimo’, che hanno a protagonista un eroe vittima, generalmente di sesso femminile» [dal contributo di Giulio Martire].

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.