“Le arti figurative”. Saggi di critica estetica di Charles Baudelaire

Charles Baudelaire (1821-1867): il mio poeta preferito, seguito da Rimbaud. A vent’anni avevo già letto tutte le opere dell’autore francese, finanche i saggi di critica estetica.

Baudelaire. Si tratta della più importante e inquietante personalità poetica di tutti i tempi. Con Les Fleurs du Mal (I fiori del male) Baudelaire pone le basi di una estetica in cui prevale una sensualità obiettiva, atta a penetrare le corrispondenze segrete fra immagini, voci e colori della natura. A tale estetica si accompagna uno stile capace di rivelare nelle parole e nei ritmi metrici quelle stesse realtà celate di cui è colmo l’universo come «una foresta di simboli».

Baudelaire ebbe anche la certezza dell’unità assoluta di prosa e poesia, mirando ad un linguaggio ideale che non potesse essere definito né in un modo né nell’altro. Non sta a noi giudicare se egli vi giunse o no. Certo i suoi «poemi in prosa», Le spleen de Paris, pur nella loro perfezione, vennero considerati da Baudelaire solamente come un tentativo sulla via di codesto stile. Egli, d’altronde, fu un prosatore impeccabile, nel vero senso della parola, come ci documenta la novella La Fanfarlo, i saggi Du vin e du haschisch, Les paradis artificiel, gli scritti di critica letteraria e di critica d’arte.

Ieri ho terminato la rilettura de Le arti figurative. Saggi di critica estetica di Charles Baudelaire. Ciò che segue non è un lungo articolo; voglio soltanto far partecipe il lettore delle mie avventure letterarie.

Riprendendo le parole di Stefano de Simone- curatore dell’edizione da me letta- nell’introduzione:

«Per quanto riguarda le creazioni artistiche, le esamina e definisce con acuta precisione lo stesso Baudelaire là dove mette a raffronto, in rapporto di somiglianza, l’attitudine dell’artista davanti al fantasma estetico che lo colpisce e quella del fanciullo davanti al “nuovo” che gli si presenta e lo attrae; se non che, egli osserva, l’uomo di genio ha i nervi resi solidi dall’esperienza e dalla ragione, mentre il fanciullo è tutto preso da nient’altro che dalla semplice fugace sensazione. “Il genio è l’infanzia ritrovata a volontà”, ma l’infanzia, egli aggiunge, dotata ora, per che riesca ad esprimersi, di organi virili e dello spirito analitico che le permette di ordinare la somma di materiali involontariamente accumulata. Sensibilità, dunque, a fondamento di ogni arte, e metodo dall’altra, perseguito a gradi per render quella idonea a conferir la sua stessa vita agli oggetti che l’han destata, e ad esprimerla» (1).

È questo il principio basilare della teoria estetica che il Baudelaire venne a mano a mano costruendosi. Una teoria compiuta e perfetta di per sé, la quale esula da ogni limite, diviene per tanto universale. A buon diritto il Baudelaire è stato ed è uno dei maggiori estetici del nostro tempo.

Altro merito di Baudelaire, quello di aver riconosciuta e affermata l’unità fondamentale dell’arte nelle sue molteplici manifestazioni. Uno il bello artistico, molteplici i mezzi onde variamente si esprime.

E ancora, dall’introduzione di de Simone:

« Che poté mai vedere in quelle stampe, in quelle opere, il piccolo Baudelaire? Lo stesso, di certo, che egli dice veda il fanciullo nel <<nuovo>> che gli si presenta. Una semplice sensazione, dunque; non ancora, evidentemente, il resultato di un’analisi venuta ampliandosi ed integrandosi attraverso un’esperienza dominata e guidata dal discernimento e dalla ragione. Non l’oggetto della rappresentazione distinto nei suoi particolari ed elementi costitutivi, ma un insieme unitario in cui quei particolari ed elementi si fondono armoniosamente nella visione integrale dell’oggetto cui appartengono, così da quasi scomparire nelle loro peculiari caratteristiche e funzioni per dar rilievo ad una sensazione sommaria, indeterminata, sorta da un moto spirituale, pur semplice ma spontaneo, saremmo per dire istintivo, piuttosto che da una precisa esplorazione del reale. È questo l’inizio stesso del procedimento creativo dell’opera d’arte; questo il principio basilare informatore della critica di ogni opera d’arte: muovere, cioè, dalla sensazione alla ricerca dei mezzi da adoperare o adoperati ad esprimerla. I mezzi da adoperare son da ricercare dall’artista; quelli adoperati, dal critico.
Ragion suprema dell’arte è, dunque, un sentire, che più è complesso e vivo e più esige di essere espresso, quasi nel bisogno di eternarsi. Una così fatta complessità ed esigenza non posson trovarsi, evidentemente, nel sentire del fanciullo: nascono invece e si accrescono con l’esperienza acquisita mediante l’ampliarsi del conoscere, la facilità ed immediatezza del riconoscere, l’esercizio della riflessione e dell’analisi. È tuttavia da rimaner fermo che cotesto lavorio va sempre esercitato sulla sensazione, non sull’oggetto che l’ha suscitata. Ritrarre l’oggetto tale qual è, non è creare, e l’arte è sopra tutto e soltanto creazione: creazione, o, meglio, ricreazione, dell’oggetto stesso non nella sua realtà delimitata, circoscritta, ma in rapporto, da una parte, con l’infinito, di cui- come definisce Baudelaire- è uno degli aspetti, e, dall’altra, con la sensibilità di colui che, osservando, ha còlto tali rapporti, dell’artista insomma. L’arte è così «assoggettamento della natura», «dominio sulla natura»: è, per tanto, creare. Non che l’oggetto debba esser un prodotto della fantasia, inesistente nel mondo reale, né che, pur avendo i caratteri di una realtà, debba esser comunque alterato per che entri nel campo dell’arte. Esso è in sé quel che è. L’opera dell’artista ne trasforma il significato, traendolo da oggettivo che è, – definisce ancora Baudelaire – ad essere soggettivo, portandolo dal non-io, cui appartiene, all’io non mai sazio del non-io, così da renderlo più vivo della vita stessa, sempre instabile, questa, e fuggevole. Così può dirsi che l’aspirazione dell’arte sia l’infinito, l’eterno.
Occorre, dunque, anzi tutto, riuscire a scorgere, nell’instabile e fuggevole, cotesto quid infinito ed eterno. E lo si scorge per un processo, evidentemente, del tutto spirituale, operante sì sull’oggetto fornito dalla realtà, ma non più osservato, questo, dall’organo fisiologico nell’atto stesso della visione, ma contemplato poi e meditato dallo spazio in una imagine rimasta ferma nel ricordo: un’imagine che va a mano a mano involgendosi come in un alone di nuova luminosità ed acquistandovi un rilievo ben altrimenti preciso che quello dell’oggetto al suo primo vedersi. Linee e colore e tutto modificato qua e là,- correggono, dice il Baudelaire,- i caratteri particolari apparsi nel mondo del reale, così da fondersi in una unità che renda l’unità della sensazione derivatane: unità che soltanto lo spirito può cogliere nella varietà degli accidenti e trasformarli per tal modo in note di contenuto e di rapporti universali. » (2)

La facoltà dello spirito, quindi, che governa il processo artistico è l’imaginazione (con una sola m), che Baudelaire distingue assolutamente dalla fantasia. Ma se involontario è l’operare dell’imaginazione, la volontà entra tuttavia, ed ha anzi gran peso, nel destarla e nell’esercitarla.

« L’opera d’arte è, dunque, espressione dell’intuire nel particolare l’infinito cui tende, con ansia sempre insoddisfatta, ogni animo squisitamente sensibile, profondamente meditativo; o, altrimenti, è nulla. Cotesta tendenza a così fatte intuizioni ed espressioni è detta dal Baudelaire romanticismo, con riferimento, non agli atteggiamenti polemici ed alle arbitrarie deviazioni, necessariamente decadentistiche, dell’indirizzo affermatosi nel primo Ottocento e designato con quello stesso nome, ma ai principii primi di esso, quelli dedotti appunto dall’esame attento, rigoroso, serenamente filosofico, di ogni qualsiasi creazione artistica. Con piena ragione poteva, per tanto, affermare il Baudelaire che ogni paese, ogni età, ha avuto ed avrà il suo romanticismo, dovunque e quando sono sorti e sorgeranno spiriti atti e preparati ad osservare in quella tal maniera il mondo contemporaneo. L’arte è, dunque, universale e individuale ad un tempo: un mondo ed uno spirito: né, dei due, l’uno senza l’altro, né l’altro senza l’uno» (3).

(1) C. Baudelaire, Le arti figurative. Saggi di critica estetica, a cura di Stefano de Simone,  pag.7
(2) Ivi, pag 9-11
(3) Ivi, pag. 14

[Charles Baudelaire, Le arti figurative. Saggi di critica estetica, a cura di Stefano de Simone, Unione tipografio-editrice torinese, 1961, pag. 461]

f.s.

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.