La lettura dei “classici”, la scuola e la scrittura: Perché e come cercare di far leggere i “classici” (parte III)

La lettura dei “classici”, la scuola e la scrittura

III – Perché e come cercare di far leggere i “classici”


di Gustavo Micheletti

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Le situazioni e le problematiche appena accennate potrebbero essere riassunte e chiarite dalla difficoltà che s’incontra oggi nella scuola di indurre gli studenti a una lettura dei “classici” senza utilizzare metodi costrittivi o sottilmente ricattatori. Ma è davvero importante far leggere i “classici”? E se sì, con quali motivazioni e approcci si possono indurre gli studenti a sobbarcarsi la fatica (perché spesso, almeno all’inizio, è anche una fatica) di leggere opere piuttosto impegnative e spesso voluminose?

Cercando di rispondere a questa domanda, potremmo intanto far notare che i “classici” sono libri nel senso più pieno del termine: essi ci costringono a sperimentare una pluralità di mondi e di società diverse, diversi tipi di mentalità e di cultura, contesti storici anche molto remoti, ponendoceli davanti in modo verosimile, penetrante e coinvolgente. Essi ci aiutano a uscire dal nostro mondo, ad abbandonare momentaneamente i suoi paradigmi consentendoci di viaggiare in altri universi culturali e letterari, in quelli dei loro autori e in quelli cui hanno saputo dar vita nei loro lettori.

Attraverso la lettura – scrive Jean- Luc Nancy – “ciò che arriva al lettore è un mondo, e quel mondo viene a mescolarsi alla pluralità dei mondi da cui si lascia abitare. La lettura è una mescolanza di mondi”.1 In questo senso, si può ritenere che “i classici” favoriscano l’esperienza di una tale mescolanza meglio di altri libri più attuali e di più facile lettura. Un libro – scrive ancora Nancy – “non è soltanto, o meglio non è affatto, un veicolo o un supporto di comunicazione”: esso è invece “immediatamente, di per sé, prima di tutto, comunicazione e commercio di sé con se stesso. Chi lo legge davvero entra in questo commercio e non fa nient’altro. Proprio in questo consiste la sua differenza rispetto al ‘libello’ o al ‘trattato’: questi ultimi trasmettono un messaggio, mentre il libro comunica da sé in persona, se è lecito esprimersi così”.2

Pur essendoci molti “libri”, e persino, forse, “libelli”, che sembrano proporre questa comunicazione “in persona”, non tutti sono anche in grado di favorire allo stesso modo una comunicazione e un’analoga contaminazione fra “mondi”. Anche sotto questo profilo, infatti, i “classici” sembrano godere di una posizione privilegiata. Innanzi tutto perché – come spiega Calvino – “I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).3

Essi non comunicano solo qualcosa di personale relativamente al tempo presente, non inducono facili proiezioni o identificazioni nei loro personaggi, ma favoriscono la formazione di un interiore spazio storico, mettono il lettore a confronto con mentalità anche molto diverse e con personaggi che solo difficilmente potrebbero incontrare nella cerchia dei loro amici o conoscenti, nonché all’interno degli ultimi best-seller. Anche per questo – scrive ancora Calvino – “È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”.4

Persistere come “rumore di fondo”, riuscendo altresì a costituire un’alternativa alle mode e ai modi di pensare che imperversano nel tempo presente: ecco un requisito che pare proprio contraddistinguere i “classici”, o comunque quelli che, con John Ruskin, il grande scrittore e storico dell’arte inglese della metà dell’ottocento, potremmo definire “libri per ogni tempo”. Ruskin ha infatti evidenziato con largo anticipo e in modo quasi premonitore una differenza che sembra oggi particolarmente illuminante anche rispetto alla situazione in cui versa attualmente l’insegnamento della letteratura. Durante una conferenza a Manchester sul tema della lettura, disse di comprendere le ragioni per cui possano risultare preferibili “scritti rapidi, e, per così dire, effimeri, a testi lenti e di ampio respiro”. Ciò nondimeno, in quella circostanza propose una distinzione piuttosto perentoria, per quanto chiaramente argomentata, tra libri “buoni” e libri “cattivi”, e più in particolare, tra “libri del momento” e “libri di tutti i tempi” su cui forse vale la pena di soffermarci.

Tutti i libri sono divisibili in due classi, il libro del momento e il libro di tutti i tempi. Segnatevi questa distinzione – disse Ruskin – che non dipende soltanto dalla qualità. E non è solo il libro cattivo che non dura. È una distinzione di genere. Ci sono i libri buoni per il momento, e quelli buoni per tutti i tempi. Ci sono cattivi libri per il momento, e quelli cattivi per tutti i tempi. Prima di proseguire, dunque, devo definire i due generi di libri. Il buon libro del momento, e non parlo quindi di quelli cattivi, è semplicemente la conversazione utile o piacevole, stampata per voi, di qualche persona con la quale non potete altrimenti parlare. È spesso davvero molto utile, perché vi dice quel che occorre sapere. È anche molto piacevole perché è come parlare con un amico saggio, se questi fosse presente. Gli ameni reportage di viaggi, le discussioni divertenti e spiritose su varie questioni, i vivaci o patetici racconti in forma di romanzo, gli studi seri e le esposizioni di fatti da parte di chi ha presenziato agli eventi della storia, tutti questi libri del momento, che si moltiplicano tra noi via via che l’educazione diventa più generale, sono un bene caratteristico della nostra epoca. Dovremmo esserne molto grati e dovremmo provar vergogna di noi stessi se non ne facciamo buon uso. Invece, ne facciamo l’uso peggiore se permettiamo loro di usurpare il posto dei veri libri, perché, per la precisione, essi non sono libri nel senso proprio del termine, ma solo lettere o giornali stampati bene. Forse la lettera di un nostro amico è piacevole, o necessaria, oggi; ma dobbiamo considerare se valga la pena di conservarla. Il giornale è probabilmente adatto al momento della colazione, di sicuro non è la lettura adatta per tutto il giorno.5

Sulla scia di Ruskin, si potrebbe quindi pensare che quelli che chiamiamo “classici” siano anche “libri per ogni tempo”, e quindi, probabilmente, anche libri che, almeno sotto quest’aspetto, devono contenere qualcosa di “buono”, di universalmente riconoscibile come un lascito in qualche modo prezioso. Del resto – e anche questo potrebbe costituire un elemento su cui far riflettere gli studenti – se sono stati e apprezzati, spesso anche amati, da tante persone appartenenti a generazioni diverse e a diversi universi culturali ci dev’essere pure un motivo, e forse non è un motivo trascurabile. Certo, sono libri che non sono stati scritti per raccontare semplicemente una propria esperienza personale, ma devono averla saputa trasfigurare in un momento più universalmente significativo, capace di travalicare il gusto specifico di diverse generazioni, la loro mentalità e il loro sistema di valori.

Un libro – dice ancora Ruskin – è scritto non solo per moltiplicare la voce del suo autore, non soltanto per trasmetterla, ma anche per immortalarla. L’autore ha qualcosa da dire. Qualche cosa che ritiene essere vera e utile, o bella e benefica. Quindi, per quanto ne sa, nessuno l’ha mai detta e nessun altro potrà mai dirla. È tenuto a dirla, in modo chiaro e piacevole, se ne è in grado. In tutta la sua vita pensa che questa sia la cosa, o l’insieme di cose, che per lui costituisce una rivelazione: questo è il dato di conoscenza o di visione che ha avuto la fortuna di cogliere e che vorrebbe comunicare in modo duraturo”.6

Un altro requisito dei “classici”, e tuttavia non indipendente dal primo, dipende forse dal fatto che essi sembrano riuscire ad allungare in qualche modo la vita dei loro lettori proiettandola in contesti che sono in grado di porre in discussione il loro ordinario modo di pensare e di sentire. Essi non si limitano a fare leva sul piacere del gioco che è implicito ad ogni finzione narrativa – e sul quale sia Schiller sia Huizinga hanno fornito ampi ragguagli – ma pongono in relazione la memoria personale del lettore con quella collettiva.

Su quest’aspetto, sembrano concordare Italo Calvino e Umberto Eco. Per il primo “i classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale”.7 Per il secondo – che pare sviluppare proprio le osservazioni, appena citate, di Calvino – “questo intrico di memoria individuale e collettiva allunga la nostra vita, sia pure all’indietro, e ci fa balenare davanti agli occhi della mente una promessa di immortalità. Godere di questa memoria collettiva (attraverso i racconti degli anziani o attraverso i libri) ci pone un poco nella condizione di Borges davanti al punto magico dell’Aleph: in qualche modo nel corso della nostra vita noi possiamo rabbrividire con Napoleone per un levarsi improvviso del vento dell’Atlantico su Sant’Elena, gioire con Enrico V per la vittoria di Azincourt, soffrire con Cesare per il tradimento di Bruto. Allora è facile capire perché la finzione narrativa ci affascina tanto. Ci offre la possibilità di esercitare senza limiti quella facoltà che noi usiamo sia per percepire il mondo sia per ricostruire il passato. La finzione ha la stessa funzione del gioco. Come ho già detto, giocando, il bambino apprende a vivere, perché simula situazioni in cui potrebbe trovarsi da adulto. E noi adulti attraverso la finzione narrativa addestriamo la nostra capacità di dare ordine sia all’esperienza del presente sia a quella del passato.8

Prescindendo dai loro requisiti più specificamente letterari, i “classici” sembrano dunque più capaci, rispetto ad altri libri, di dischiudere orizzonti nuovi, di far intravedere scenari storici e psicologici che possono favorire la crescita umana, spirituale e culturale, dei loro lettori, di amplificare la loro sensibilità e di migliorare la loro capacità di ascoltare, di esprimere le proprie idee e di narrare e ritrovare la propria storia, sottraendo nel contempo gli stessi lettori all’influenza univoca e pervasiva del conformismo mediatico e culturale che caratterizza il tempo presente.

Ma come indurre gli studenti ad abbandonare un sempre più diffuso pregiudizio nei loro confronti? Come far sì che, per il fatto che essi sono in qualche modo percepiti come libri “vecchi”, il loro contenuto non venga istintivamente abbinato alla noia e che la loro lettura non venga considerata uno spreco di energie rispetto al fine pragmatico di conseguire una promozione o qualche altro “titolo” utile sotto il profilo sociale o professionale?

Veniamo così alla nostra seconda domanda, forse la più importante e pertinente in questa sede: quali argomenti si potrebbero addurre per indurre gli studenti a cimentarsi con la loro lettura, piuttosto che con quella dell’ultimo best-seller pubblicizzato alla televisione o su Facebook, per quanto anche questa possa rivelarsi utile e costituire comunque un buon modo per iniziare il proprio apprendistato di lettori?

Nel tentativo di rispondere cerchiamo intanto d’individuare le differenze tra l’approccio alla lettura di molti giovani d’oggi e quello di un adolescente – anche se non proprio tipico – di oltre un secolo fa.

Nelle sue Giornate di lettura – un testo nato, tra l’altro, proprio per introdurre l’edizione francese del libro di Ruskin di cui abbiamo già riportato alcuni passi – Marcel Proust scrive che “non esistono forse giorni della nostra infanzia che abbiam vissuti pienamente come quelli che abbiam creduto di aver trascorsi senza vivere, in compagnia d’un libro prediletto. Tutto quel che (a quanto ci sembrava) li riempiva per gli altri, e che noi scartavamo come ostacoli volgari a un piacere divino, il gioco per il quale un amico veniva a cercarci nel punto più interessante; l’ape o il raggio di sole che ci davan fastidio, costringendoci ad alzar gli occhi dalla pagina o a cambiar di posto; le provviste che ci erano state date per l’ora di merenda e che lasciavamo accanto a noi sul sedile, senza toccarle, mentre, sopra il nostro capo, il sole diminuiva di forza nel cielo azzurro; il pranzo che ci aveva obbligati a rientrare e durante il quale pensavamo solo a salire subito dopo, in camera, a terminare il capitolo interrotto, tutto questo, di cui la lettura avrebbe dovuto farci sentire soltanto l’importunità, ne imprimeva invece in noi un ricordo talmente dolce (e, pel nostro giudizio attuale, più prezioso di quel che leggevamo allora con amore) che, ancor oggi, se ci capita di sfogliare quei libri di un tempo, li guardiamo come se fossero i soli calendari da noi conservati dei giorni che furono, e con la speranza di veder riflesse nelle loro pagine le dimore e gli stagni che più non esistono”.9

Quanto rimanga oggi della possibilità di vivere la lettura con la stessa intensità di cui era capace Proust è difficile dire; certo, l’impressione è che d’allora, cioè dalla fine del secolo XIX, ma in realtà anche soltanto da una trentina di anni fa, le cose siano molto cambiate. Il nostro modo di leggere (e non solo quello degli studenti) pare oggi molto più frettoloso e talora concitato, i tempi che si dedicano alla lettura sono sempre più residuali, ritagliati a fatica tra le ore di lavoro o di studio, e anche la nostalgia di certi momenti legati al tempo trascorso in compagnia d’un libro appare meno coltivata e rilevante. Proprio l’assenza di questi momenti di nostalgia, proprio la rimozione dalla vita di quei momenti di ozio che da sempre accompagnano il raccoglimento e l’immaginazione, possono costituire il principale ostacolo sia alla lettura dei classici sia all’instaurarsi di una felice risonanza dialettica tra lettura e scrittura. Il non aver “tempo da perdere” – proprio quel tempo la cui coltivazione costitutiva per Rousseau la fonte principale di ogni formazione umana non effimera e posticcia – sembra costituire oggi la difficoltà principale per favorire il loro incontro. Ma se è così, è solo riappropriandoci di questo “tempo perso”, di quelle ore trascorse gratuitamente a viaggiare tra le pagine di un libro e a continuarne le frasi abbandonandoci alla nostra immaginazione, nutrendola con la nostra memoria personale e i pensieri che saprà suscitare, che si può ritrovare quel piacere di leggere – anche con la fatica iniziale che può accompagnare i primi passi di un giovane apprendista lettore – che a sua volta può innescare quello di scrivere.

Chi perde tempo, acquista tempo”: quale verità pedagogica è oggi più censurata? Quale suona più eretica e impraticabile? Ma senza questa “perdita di tempo” nessun studente può accedere realmente né al piacere della lettura né iniziare a sperimentare il gusto e il sapore nuovo che lo scrivere può dare alla sua vita, e se a scuola non si riesce ad anteporre quest’aspetto ai compiti da svolgere e alle tante cose da imparare e da sapere, ogni formazione letteraria risulterà necessariamente effimera, proprio perché incapace di innescare quest’incontro e quest’inizio di una personale intrapresa narrativa che può costituire un’interlocutrice varia e preziosa lungo tutto l’arco dell’esistenza.

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NOTE

1 J.-L. Nancy, Del libro e della libreria. Il commercio delle idee, trad. it. Cortina, Milano, pp. 33-34.

2 Ivi, p. 24.

3 I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano, 1995, p. 8.

4 Ivi, p. 12.

5 John Ruskin, Sesamo e i gigli, trad. it. Nuova editrice Berti, Piacenza, 2013, pp. 65-66.

6 Ivi, p. 67.

7 I. Calvino, Perché leggere i classici, cit., p. 7.

8 U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Harvard University, Norton Lectures 1992-1993, trad. it. Bompiani, Milano, prima edizione 1995; ed. cit. 1999, p.163.

9 M. Proust, Giornate di lettura, trad. it. Il Saggiatore Einaudi, Torino, 1965, pp. 118-119.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.