La lettura dei “classici”, la scuola e la scrittura: Dalla lettura alla scrittura (parte IV)

La lettura dei “classici”, la scuola e la scrittura

IV – Dalla lettura alla scrittura


di Gustavo Micheletti

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Nonostante tutti gli sforzi e i tentativi spesso coraggiosi e appassionati di molti insegnanti, l’impressione è che anche nella scuola si cerchi prevalentemente di far sì che gli studenti sappiano parlare in modo pertinente di letteratura piuttosto che favorire un loro incontro reale con i libri, con i loro personaggi e con le esperienze umane che le storie narrate racchiudono, traendo spunto dalla loro lettura per cimentarsi con l’arte di raccontare ciò cui avrebbero davvero voglia di dare voce, cogliendo negli stessi libri altrettanti incipit di una narrazione in divenire, i gradienti di un’iniziazione all’arte difficile di scoprire altri “mondi” e d’imparare ad articolare ed esprimere quello proprio interiore.

A questo riguardo, ancora Proust scrive che “una delle grandi e meravigliose caratteristiche dei bei libri (che ci farà comprendere la funzione a un tempo essenziale e limitata che la lettura può avere nella nostra vita spirituale) è questa: che per l’autore essi potrebbero chiamarsi «conclusioni» e per il lettore «incitamenti». Noi sentiamo benissimo che la nostra saggezza comincia là dove finisce quella dello scrittore; e vorremmo che egli ci desse delle risposte, mentre tutto quanto egli può fare è solo d’ispirarci dei desideri. Desideri che può destare in noi solo facendoci contemplare la bellezza suprema che il supremo sforzo della sua arte gli ha permesso di attingere. Ma, per una legge singolare (e, d’altronde, provvidenziale) dell’ottica spirituale, legge che significa forse che la verità non possiamo riceverla da nessuno e che dobbiamo cercarla noi stessi, quel che rappresenta il termine della loro saggezza ci appare soltanto come il principio della nostra: dimodoché, proprio nel momento in cui ci hanno detto tutto quanto ci potevan dire, essi fanno nascere in noi il sentimento che non ci abbiano ancora detto nulla”.1

Questa esperienza, che sarebbe anche in grado di favorire il passaggio dalla lettura alla scrittura, che potrebbe instaurare tra le due una feconda dialettica espressiva, è invece, secondo Proust, per lo più preclusa a colui che definisce come “letterato”. Questi infatti “legge per leggere, per ritenere quel che ha letto. Per lui, il libro non è l’angelo che s’invola appena aperto le porte del paradiso celeste, ma un dio immobile, da adorare per lui stesso, e che, invece di ricevere una dignità vera dai pensieri che suscita, comunica a tutto quanto lo circonda una dignità fittizia. Il letterato invoca sorridendo in onore d’un certo nome il fatto che si trova in Boccaccio o in Villehardouin, in favore d’una certa usanza il fatto che è descritta da Virgilio. Il suo pensiero, incapace di attività originale, non sa isolare nei libri la sostanza che potrebbe fortificarlo; s’ingombra della loro forma intatta, la quale, anziché essere per lui un elemento assimilabile, un principio di vita, non è che un corpo estraneo, un principio di morte. C’è bisogno di aggiungere che io considero malsani tale gusto, tale rispetto feticistico per i libri, solo relativamente a quelle che sarebbero le abitudini ideali d’uno spirito senza imperfezioni che di fatto non esiste, allo stesso modo che i fisiologi descrivono un funzionamento degli organi perfettamente normale quale non si trova negli esseri viventi?”.2

Il problema dell’insegnamento della letteratura nella nostra scuola secondaria potrebbe dunque essere riassunto, alla luce di queste osservazioni di Proust, nella sua tendenza a formare “letterati”, o comunque mini esperti di letteratura, prima ancora di aver formato dei lettori. Molto difficilmente un “letterato” – nel senso in cui ne parla lo scrittore francese, e tanto più se costruito in fretta attraverso la somministrazione di regole esegetiche o paradigmi critici appresi astrattamente dai manuali scolastici – potrà essere indotto a riversare in una attività di scrittura quanto ha appreso e quanto ha eventualmente assorbito anche da una lettura diretta dei testi, se questa è stata intrapresa per fini eminentemente scolastici o allo scopo edificante di accrescere la propria “cultura” generale.

Come osserva ancora Daniel Pennac, “noi che abbiamo letto e affermiamo di voler diffondere l’amore per il libro, preferiamo troppo spesso il ruolo di commentatori, interpreti, analisti, critici, biografi, esegeti di opere rese mute dalla devota testimonianza che diamo della loro grandezza. Imprigionata nella fortezza delle nostre competenze, la parola dei libri lascia il posto alla nostra parola. Invece di permettere all’intelligenza del testo di parlare per bocca nostra, ci affidiamo alla nostra personale intelligenza, e parliamo del testo. Non siamo gli emissari del libro ma i custodi giurati di un tempio di cui vantiamo le meraviglie con parole che ne chiudono le porte”.3

Ma senza l’esperienza del piacere di leggere, non può nascere il piacere di scrivere, e senza il piacere di scrivere non è possibile scoprire che esiste un proprio modo di raccontare, che può essere bello trovare le parole giuste, un modo “accurato” di annotare sulla carta o su una pagina bianca di word quanto davvero si pensa o si sente, quanto ci siamo sorpresi a immaginare o ricordare. Così la propria maniera di guardare il mondo non può formarsi ed emergere se non in maniera approssimativa, in un modo per lo più inconsapevole e disordinato, e tanto meno potrà prendere corpo un proprio modo di scrivere, un modo che sia in grado di raccogliere la nostra esperienza e insegnarci a cogliere in essa un momento individuale e universale a un tempo. Questa, che una condizione imprescindibile per la nascita di un libro non effimero e che abbia qualcosa da lasciare nel tempo, è infatti anche la condizione per ogni personale e sincero approccio tanto alla lettura che alla scrittura.

In questo quadro, per cercare di far scattare la molla in grado d’innescare il passaggio dalla prima alla seconda, si potrebbe adottare il metodo intrapreso, per esempio, da Sandro Onofri. In Registro di classe, egli spiega come i ragazzi tendano a considerare la scrittura come una “galera seicentesca” e la lingua che convenzionalmente si usa come una “palla al piede che fa muovere a fatica”, impedendo “salti e velocità”. Per farli sentire meno imbranati e “meno in cella”, Onofri racconta di aver loro permesso talvolta di scrivere “senza regole, così come si sentono, con una traccia molto labile, e con una lingua il più possibile vicina a quella che usano parlando”.

I risultati furono “qualche volta sorprendenti”: anche “i più somaroni” riuscirono infatti a produrre “testi originali e pieni d’invenzioni”. Ad esempio, una ragazza con la quale litigava ogni giorno gli presentò un racconto nel quale descriveva la sua vita famigliare in uno stile ossessivamente paratattico, giocato quasi interamente su frasi nominali e “calibrando la posizione delle parole per privilegiare il ritmo. Un pezzo notevole” – commenta il professore e autore – divertente anche per lui che lo lesse, e non si trattò dell’unico caso.4

Naturalmente, sarebbe poi opportuno far capire che è possibile conservare le peculiarità del proprio stile anche eliminando gli errori, il che consentirebbe, tra l’altro, l’avviamento di una discussione seria e concreta sul perché certe espressioni debbano o possano essere considerate degli errori. Quest’esercizio ad eliminare certe espressioni scorrette – ma anche quelle gergali, o dialettali, quando usate impropriamente rispetto al contesto narrativo – dal proprio testo, e a comprendere come queste possono eventualmente essere usate, potrebbe avviare gli studenti verso una maggiore “accuratezza” nel modo esprimersi senza privarli di un loro personale e originale accesso alla scrittura. Ciò su cui si dovrebbe mettere l’accento, in questo caso, è che è possibile conquistare un proprio stile, capace di raccontare la propria esperienza e la propria visione del mondo in maniera significativa anche rinunciando ad alcuni vocaboli del proprio lessico abituale, o cercando comunque di usarli in modo non arbitrario.

Per Raymond Carver , “uno scrittore che ha una maniera particolare di guardare le cose e riesce a dare espressione artistica alla sua maniera di guardare le cose, è uno scrittore che durerà per un pezzo”,5 ma perché sia possibile accedere in maniera consapevole alla propria maniera di guardare le cose è necessario aver prima apprezzato questa capacità nelle opere che la testimoniano in maniera chiara e coinvolgente, è necessario cioè aver scoperto il gusto e il piacere che può derivare – come ancora Carver osserva citando Ezra Pound – da quella «fondamentale accuratezza d’espressione» che «è il solo e unico principio morale della scrittura». Sebbene questa capacità non sia di per sé sufficiente, Carver la considera comunque il segno che si è perlomeno “sulla strada giusta”:6 ma si tratta di una strada che bisogna aver prima condiviso con chi l’ha già scoperta sul suo cammino, si tratta di un piacere che può scaturire solo dalla condivisione di una memoria narrativa, di un piacere che si è già percepito nella pagina di un libro o anche solo in qualche frase.

Il sapore di una pagina o di una sola frase può infatti dischiudere l’esistenza di ogni studente verso la lettura e la scrittura più di qualsiasi conoscenza della letteratura, dei suoi stili e dei criteri narratologici che ci consentono di analizzarne la forma; anzi, costituiscono una premessa indispensabile affinché questi assumano un significato concreto e pertinente.

Quando Jorge Luis Borges illustra il suo metodo didattico (era professore di letteratura inglese), pone l’accento proprio su quest’aspetto: “ho preferito insegnare ai miei studenti non tanto la letteratura inglese – che ignoro – ma l’amore per certi autori, o meglio ancora, per certe pagine, o meglio ancora, per certe frasi. E questo basta, mi pare. Ci s’innamora di una frase, poi di una pagina, poi dell’autore. Be’, perché no? È un bel modo di procedere. Io ho tentato di portare a questo i miei studenti”.7

Senza la testimonianza diretta da parte del “docente” del suo amore per i libri, e soprattutto per quelli a lui più cari, quest’iniziazione non può verificarsi con successo. L’indicazione di massima che abbiamo suggerito poco fa, virgolettandola, ha dunque bisogno d’una integrazione, e ciascun insegnante potrà realizzarla – se la riterrà utile e in sintonia col proprio modo d’insegnare letteratura – solo trovando in se stesso l’ispirazione necessaria, ma in se stesso come “lettore”, ancora prima che come “docente”.

Con altre parole, anche Daniel Pennac ribadisce lo stesso principio e lo stesso metodo già adottati da Borges: “amare vuol dire, in ultima analisi, far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo. E queste preferenze condivise popolano l’invisibile cittadella della nostra libertà. Noi siamo popolati da libri e da amici. Quando una persona cara ci dà un libro da leggere, la prima cosa che facciamo è cercarla fra le righe, cercare i suoi gusti, i motivi che l’hanno spinta a piazzarci quel libro in mano, i segni di una fraternità. Poi il testo ci prende e dimentichiamo chi in esso ci ha immersi: tutta la forza di un’opera consiste proprio nel saper spazzar via anche questa contingenza! Eppure, con il passare degli anni, accade che l’evocazione del testo faccia tornare alla mente il ricordo dell’altro: alcuni titoli sono allora di nuovo dei volti. E, siamo giusti, non sempre il volto di una persona amata, ma anche quello (oh!, raramente) del tal critico o del tal professore. È il caso di Pierre Dumayet, del suo sguardo, della sua voce, dei suoi silenzi, che nelle Letture per tutti della mia infanzia dicevano tutto il suo rispetto per il lettore che grazie a lui sarei diventato. È il caso di quel professore la cui passione per i libri sapeva dotarlo di un’infinita pazienza e regalarci perfino l’illusione dell’amore. Doveva proprio preferirci – o stimarci – noialtri allievi, per darci da leggere quel che gli era più caro”.8

Quindi – tanto per cercare di concludere in un modo propositivo questa nostra personale riflessione – ciò che bisognerebbe cercare di porre gli studenti in condizione di capire prima d’insegnargli qualsiasi teoria sulla letteratura o almeno parallelamente al cercare di fornirgli gli strumenti idonei per analizzare criticamente qualsiasi testo, è che quando si scrive, così come quando si legge, qualcuno ci parla e ci ama, e che se si possono dire cose giuste su un libro senza averlo letto (e senza copiarle da qualcuno che lo ha letto), vuol dire che non sono cose importanti, né all’interno del libro né nella loro vita di lettori.

Gli effetti di un tale amore – di cui parlano sia Borges sia Pennac – possono essere testimoniati da chiunque ne abbia avvertito la reciprocità: a meno che non siamo noi a smetterle di amarlo, il libro che abbiam amato continuerà a starci vicino e a farci sentire, talora in modo discreto, tal altra in maniera assai più vivace e imprevedibile, la sua presenza nella nostra vita. I suoi personaggi potranno forse sembrarci meno interattivi dei nostri amici migliori, ma saranno comunque sempre pronti a farci sentire la loro voce, che si farà ogni volta diversa ad ogni occasione in cui saremo in grado di dialogare con loro. Si tratta di amici che non seguono molto le mode del momento, per quanto abbiano sempre qualche implicita opinione in proposito, e che a volte si rivelano piuttosto scomodi, proprio perché ci mostrano soluzioni inaspettate ai dilemmi che la vita ci pone davanti e perché le loro idee non assecondano spesso le opinioni e i gusti correnti. Ma sono amici che sono stati raccontati, o che si sono raccontati da soli, e ci forniscono la testimonianza diretta e incontrovertibile che ciò che può rimanere di noi, e soprattutto sempre “vivo” per noi, è anche ciò che ci darà una mano a sgombrare il campo da tutto quanto d’inessenziale ci offusca la vista e ci distrae dalla nostra storia e dal nostro destino: si tratta esattamente di ciò che può essere raccontato, di ciò che può trovare la sua forma in una narrazione, e specialmente in una narrazione scritta, così come la lettura, e in particolare quella dei “classici”, ogni giorno a tutti ricorda e insegna.

[parte III]


Bibliografia

M. Lodoli, Il rosso e il blu. Cuori ed errori nella scuola italiana, Einaudi, Torino, 2009.

AAVV, Buone notizie dalla scuola. Fatti e parole del movimento di autoriforma; a cura di Antonietta Lelario, Vita Cosentino, Guido Armellini; Pratiche editrice, Parma, 1988.

P.Watzlawick, J. H. Weakland, R. Fisch del “Mental Research Institute di Palo Alto”, Change. Sulla formazione e soluzione dei problemi, trad. it. Astrolabio, Roma, 1974.

H. Eulau, Reason and RelevanceReflections on a madness of our time, Student Lawer, 1972.

D. Pennac, Come un romanzo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1993; ed. cit. 2011.

J.L. Nancy, Del libro e della libreria. Il commercio delle idee, trad. it. Cortina, Milano.

I . Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano, 1995.

J. Ruskin, Sesamo e i gigli, trad. it. Nuova editrice Berti, Piacenza, 2013.

U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi, Harvard University, Norton Lectures 1992-1993, trad. it. Bompiani, Milano, prima edizione 1995; ed. cit. 1999.

M. Proust, Giornate di lettura, trad. it. Il Saggiatore Einaudi, Torino, 1965.

S. Onofri, Registro di classe, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano, 2008.

R. Carver, Il mestiere di scrivere, trad. it. Einaudi, Torino, 1997.

M. Hadis, Borges in aula, in J. L. Borges, La biblioteca inglese. Lezioni sulla letteratura, trad. it. Einaudi, Torino, 2006, pp. XXII-XXX.


NOTE

1 Ivi, pp. 136-137.

2 Ivi, p. 143.

3 D. Pennac, Come un romanzo, cit. p. 77.

4 S. Onofri, Registro di classe, Edizioni scolastiche Bruno Mondadori, Milano, 2008, p. 87.

5 R. Carver, Il mestiere di scrivere, trad. it. Einaudi, Torino, 1997, p. 6.

6 Ibidem.

7 Borges visita a Pezzoni, in Enrique Pezzoni, lector de Borges – Lecciones de literatura 1984-1988, Editorial Sudamericana, Buenos Aires 1999, lezione 16, p. 204; cit. in. M. Hadis, Borges in aula, in J. L. Borges, La biblioteca inglese. Lezioni sulla letteratura, trad. it. Einaudi, Torino, 2006, pp. XXII-XXX, p. XXIII.

8 D. Pennac, Come un romanzo, cit., pp. 70-71.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.