La lettura dei “classici”, la scuola e la scrittura: La situazione attuale (parte I)

La lettura dei “classici”, la scuola e la scrittura

I – La situazione attuale


di Gustavo Micheletti

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La situazione in cui gli insegnanti di materie letterarie nella scuola secondaria superiore si trovano attualmente ad operare non è tra le più propizie. Oltre ai problemi di ordine sociale e culturale che fanno da sfondo alle varie difficoltà che la caratterizzano e in cui s’imbattono quotidianamente, essa sembra accresciuta anche dall’azione delle disposizioni ministeriali in merito alle competenze letterarie che la scuola dovrebbe consentire agli studenti di sviluppare.

A questo riguardo, qualche esempio può risultare utile per mettere a fuoco alcune questioni salienti. Una tipologia della prima prova scritta dell’esame di Stato, per quanto concerne la parte più pertinente alla letteratura, consiste in un’analisi del testo che, anche quando fosse ben svolta, non garantirebbe l’esistenza di alcuna reale competenza letteraria e, soprattutto, di alcuna reale consuetudine con la lettura. È infatti possibile svolgerla attraverso parafrasi in grado di prosciugare i testi riportati come spunto di riflessione, con il risultato che, una volta esaurito lo spazio a disposizione – che è circa di quattro o cinque colonne, ovvero quanto è sufficiente a raccogliere le suddette parafrasi – non resta modo per il candidato di dire nulla di veramente personale, a meno che non voglia intraprendere un’operazione che potrebbe rivelarsi, in termini pragmatici, inutile o rischiosa. Secondo una mentalità e una disposizione sempre più diffuse, che tendono ad anteporre l’esito concreto di ogni prova all’espressione compiuta di un proprio personale approccio ai testi e all’espressione di un proprio argomentato punto di vista, a uno studente, e anche a un candidato all’esame di Stato, conviene infatti scrivere solo ciò che, a torto o a ragione, ritiene possa essere apprezzato e condiviso dal docente che dovrà esaminarlo.

La situazione non appare meno imbarazzante per quanto concerne le prove orali che caratterizzano attualmente gli esami di maturità: la commissione sceglie un brano, un’immagine , o comunque qualcosa da cui il candidato possa trarre ispirazione per collegare tra loro diverse discipline, col risultato frequente e ormai prevedibile di proporre collegamenti piuttosto stereotipati come fossero sue ragionate associazioni atte a comprovare l’articolazione multidisciplinare della sua cultura, il suo senso critico e il variegato insieme delle conoscenze e competenze acquisite.

Fino a qualche anno fa la situazione, pur essendo suscettibile di essere sviluppata in maniera decisamente più significativa, non era nel complesso molto migliore: i candidati all’esame di Stato dovevano infatti presentare alla commissione esaminatrice un breve lavoro scritto, detto comunemente “tesina”, che non si sapeva bene cosa dovesse contenere. In genere, gli studenti erano soliti non distinguere (e con loro buona parte dei docenti) tra “tesine” vere e proprie, ovvero dei brevi saggi in cui alcuni argomenti sono collegati in maniera interdisciplinare, e trattazioni multidisciplinari (dette a volte anche “percorsi”) in cui argomenti anche disparati e collegati in maniera per lo più pretestuosa erano raccolti insieme con la finalità prevalente di suggerire alcuni incipit ai commissari delle varie materie durante il colloquio orale.

L’esito di questa scarsa chiarezza in merito faceva sì che normalmente gli studenti tendessero ad equiparare accostamenti tematici tra loro molto diversi. Per esempio, il rapporto tra Leopardi e Schopenhauer quale è stato affrontato in molti saggi interdisciplinari seri e rigorosi (ad iniziare da un famoso scritto di Francesco De Sanctis) veniva considerato non dissimile da altri, quali per esempio quello tra “La Ginestra” dello stesso Leopardi e il tema del “vulcanismo”.

La situazione veniva descritta in maniera efficace da Marco Lodoli in un saggio sulla scuola che risale a quel periodo: “Pere e mele, cavoli e merende, guerra e pace, tutto si somma arbitrariamente. Tanto alla fine per gli studenti si tratterà di inserire un po’ di nomi sulla striscia di google, premere il tasto, aspettare un secondo, stampare qualche testo a casaccio, rilegare quelle trenta paginette e andare allo sbaraglio. In fondo somigliano alla vita, quelle tesine, dove tutto si mescola senza senso, dove tutto miracolosamente si tiene insieme con lo sputo”.1

Ora, poiché simili espedienti didattici costituisco ancora un sistematico fattore confusionario per qualsiasi studente, tanto da poter risultare persino fuorviante rispetto alla scelta dei suoi futuri studi universitari, forse qualche cambiamento di rotta sarebbe opportuno, se non altro affinché i candidati all’esame di Stato divengano più consapevoli delle finalità delle prove cui sono sottoposti, nonché del senso complessivo dell’esame stesso.

L’ostinata permanenza di simili scenari è ancora oggi, e ancora di più rispetto a 20 o 30 anni fa, dovuta all’impostazione didattica che orienta le decisioni ministeriali, che sono per lo più riconducibili a quel “ceto buro-pedagogico”, come lo definiva Guido Armellini una trentina di anni fa,2 che sembra in servizio permanente presso il MIUR al di là dell’alternarsi dei vari ministri che hanno occasione di dirigerlo. Coadiuvato da efficaci campagne televisive e mediatiche, tale ceto sembra adoperarsi incessantemente per fare in modo che si radichi sempre più nei nostri studenti la convinzione che la “cultura” consista in fondo in nulla che non sia propizio a vincere dei premi, sostenere colloqui o intraprendere carriere, assecondando così quella tendenza, già ampiamente diffusa, che sospinge un numero sempre maggiore di ragazzi verso la semplificazione frettolosa e dogmatica, assecondando un pragmatismo disinvolto e sostanzialmente conformista.

Come hanno osservato alcuni studiosi della scuola di Palo Alto, la mentalità dei giovani manifesta una crescente tendenza al pragmatismo e alla “semplificazione”. Per esempio – osservano – “nella maggior parte delle università statunitensi ed europee è assai diffuso il problema della relevance di un’istruzione universitaria che sia moderna; in altre parole, esiste una forte richiesta di nozioni che siano immediatamente utili alla vita. Anche in questo caso si assiste alla negazione generica di complessi problemi con cui per secoli hanno cercato di venire a patti i pensatori e gli insegnanti più illuminati. L’argomento è stato affrontato da Eulau in modo incisivo e conciso in una recente conferenza. A suo parere, la corsa al ciò-che-serve (alla Relevance con la R maiuscola) proprio perché si suppone che sia una richiesta legittima e una panacea per ovviare alle difficoltà di acquisire un’istruzione universitaria, ha in sé i germi della propria distruzione”3. Secondo la sopramenzionata ricerca di Eulau, gli studenti universitari – ma il discorso vale anche per quelli delle secondarie superiori – manifestano sempre più spesso una duplice esigenza. Da un lato quella di semplificare e ridurre ogni fenomeno ad una sola spiegazione causale: così “i problemi ambientali sono dovuti all’avidità di guadagno; i problemi carcerari alla brutalità delle guardie; la guerra è dovuta all’imperialismo economico; e così via”. Dall’altro, pare sempre più pressante l’esigenza che “i contenuti dell’insegnamento e della ricerca debbano essere freschi e aggiornati come il giornale radio del mattino. Considerare gli eventi da un punto di vista storico e filosofico significa sfuggire alle proprie responsabilità”. Alla fine, la tendenza dominante e più efficace risulta essere anche quella più immediatamente gratificante: “ascoltare solo quelli che la pensano come noi o combattono per le nostre cause”4.

Quest’atteggiamento diffuso – che economizza il tempo e le energie favorendo il dilagare di un conformismo culturale sempre più invadente – si manifesta anche nel campo più specifico della letteratura e del suo insegnamento. Per esempio, il caso descritto da Daniel Pennac in Come un romanzo, quando racconta di come il suo insegnante di lettere – verso cui manifesta la più sincera gratitudine per avergli consentito di accedere al piacere della lettura – entrasse in classe rovesciando sulla cattedra pile di libri tra cui poi gli studenti potevano scegliere quelli che più li incuriosivano e che leggeva per tutta l’ora pagine che gli erano particolarmente care5 risulterebbe difficilmente riproducibile nella scuola di oggi, e non solo in quella italiana. Gli studenti sembrano infatti presi da mille impegni, scolastici e non, e il tempo da dedicare alla lettura di un libro rischia sempre di risultare un investimento poco remunerativo del proprio impegno. Che vantaggio c’è a sciropparsi centinaia di pagine di un romanzo che spesso parla di un mondo molto lontano e diverso dal nostro quando tutto quello che c’è da sapere per sostenere in maniera almeno discreta un’interrogazione può essere racchiuso in una decina di pagine imparate bene a memoria?

Così alla fine può risultare sorprendente – almeno per quei non addetti ai lavori che abbiano costruito durante la propria vita un rapporto personale e “sincero” con la lettura – il fatto che molti studenti sappiano parlare e scrivere con disinvoltura, e persino utilizzando anche correttamente un lessico critico e narratologico, di libri che non hanno, in molti casi, mai letto.

Quest’ultima circostanza dovrebbe, in particolare, indurci una volta di più a interrogarci non solo su ciò che debba intendersi per didattica della letteratura, ma anche su quelle che dovrebbero essere le finalità di tale didattica. Nel quadro generale appena descritto, non è forse un caso quanto Berardinelli osserva a proposito dei nostri studenti universitari quando rileva come, almeno nelle lettere, quelli che si laureano con maggiore ritardo siano spesso i migliori, in quanto studiano per piacere, per coltivare se stessi, per restare il più possibile studenti, piuttosto che per conseguire risultati efficaci sotto il profilo della carriera e del lavoro, o della formazione di una certa “cultura” da esibire nelle circostanze opportune. Sono soprattutto gli studenti più lenti, talora proprio coloro che possono sembrare più “svogliati” o poco “scolarizzati”, quelli che spesso riescono a trovare nella lettura un corroborante integratore della loro esperienza, un rimedio sovrano contro quell’angustia e quel disagio di vivere che assaliva spesso Montesquieu, per il quale, tuttavia, non c’era dolore che un’ora di lettura non riuscisse a far svanire.

Ma in che modo la lettura e la scrittura possono arrivare, dialogando tra loro, ad avere nella vita degli studenti delle scuole secondarie superiori una funzione ed un valore anche solo approssimativamente paragonabili a quelli che avevano per Montesquieu? Quale tipo di apprendistato, quale didattica, potrebbero rendere fruttuoso – in termini culturali, etici, psicologici e più in generale esistenziali – l’incontro della loro vita con la letteratura?

Anche per cercare di rispondere a queste domande, è opportuno partire dall’esame di alcune premesse concrete, questa volta più specifiche e pertinenti al nostro tema. Tra gli studenti delle scuole superiori è sempre più diffusa la tendenza a ritenere che il saper parlare di un libro consista nel raccontarne la trama e nel saperne analizzare lo stile secondo i canoni critici suggeriti dall’insegnante e/o dal manuale adottato. Così, I promessi sposi è alla fine la risultante della sua trama e delle caratteristiche narratologiche presenti nella prosa adottata nell’occasione dal Manzoni. Tuttavia, ciò che fa di un romanzo un bel romanzo, o di un racconto un bel racconto non può mai essere individuato attraverso la semplice sommatoria di tali elementi. Si può infatti scrivere un’opera di narrativa con una trama accattivante e utilizzare anche raffinati espedienti stilistici, capaci per loro natura d’innescare commenti critici forbiti e riccamente articolati, e scrivere un’opera priva di alcun rilievo sotto il profilo estetico e letterario.

Quest’apparente contraddizione dipende dal fatto che la qualità della prosa non può essere evinta dalla sommatoria di tali fattori. Anche alla luce di queste brevi considerazioni, una domanda che converrebbe allora porsi potrebbe essere la seguente: è possibile una didattica della letteratura che non insegni anche a riconoscere i buoni libri, o almeno a trovare delle differenze tra quelli che sono considerati da secoli dei capolavori e quelli che possono tutt’al più essere ritenuti dei libri piacevoli o interessanti? Questa domanda ne sottende però un’altra: come si fa a riconoscere la buona prosa se essa sembra sfuggire ad ogni ipotesi utile ad una perspicua caratterizzazione?

Se ci proponiamo di definire cosa intendiamo per “buona prosa”, rischiamo di trovarci di fronte a perplessità analoghe a quelle che cui s trovò di fronte S. Agostino quando s’interrogò su cosa fosse il tempo: quando nessuno ci chiede cosa sia, sappiamo che cos’è; ma, se interrogati, non sappiamo definirla. Ma se non sappiamo definire la buona prosa, quali criteri possono rivelarsi utili per indurre gli studenti a leggere direttamente gli stessi testi cui fanno riferimento i programmi ministeriali, senza avvalersi di strumenti più o meno larvatamente costrittivi? E quindi, più in generale e ancora prima, come scegliere i testi che è opportuno suggerirgli di leggere?


NOTE

1 M. Lodoli, Il rosso e il blu. Cuori ed errori nella scuola italiana, Einaudi, Torino, 2009, pp. 66-67.

2 AAVV, Buone notizie dalla scuola. Fatti e parole del movimento di autoriforma; a cura di Antonietta Lelario, Vita Cosentino, Guido Armellini; Pratiche editrice, Parma, 1988.

3 P. Watzlawick, J. H. Weakland, R.Fisch del “Mental Research Institute di Palo Alto”, Change. Sulla formazione e soluzione dei problemi, trad. it. Astrolabio, Roma, 1974, pp. 57-58.

4 Ibidem; cfr. H. Eulau, Reason and RelevanceReflections on a madness of our time, Student Lawer, 1972, p. 16; trad. it in P. Watzlawick, J. H. Weakland, R.Fisch del “Mental Research Institute di Palo Alto”, Change. Sulla formazione e soluzione dei problemi, cit. pp. 57-58.

5 Cfr D. Pennac, Come un romanzo, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1993; ed. cit. 2011, pp. 72-73.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.