La “Dad” nel racconto di Vanessa Ambrosecchio il neurodigital non sogna

Vanessa Ambrosecchio, Tutto un rimbalzare di neuroni- Il racconto di cosa ci ha tolto la didattica a distanza, Einaudi, Torino, 2021, pp. 128

_____________________________

di Antonino Contiliano

.

Con l’attenzione e la cura dovute agli undici capitoli del racconto di Vanessa Ambrosecchio (Tutto un rimbalzare di neuroni-Il racconto di cosa ci ha tolto la didattica a distanza, Einaudi, Torino, 2021, pp. 128), pagina dopo pagina, non ti privi di adocchiare i ringraziamenti (con cui l’autrice chiude il suo “racconto”) e una breve nota con cui la stessa (non alla sua prima esperienza letteraria edita) si premura di dirci che la narrazione, nonostante simuli una realtà scolastica tutt’altro che fantasiosa, è il prodotto dell’immaginazione: un “libro di invenzione”!1. Il sistema scuola è quello che, in regime di pandemia Covid-19, vive le attuali trasformazioni della Dad (didattica a distanza) imposte dal controllo sanitario-politico pubblico, e rimodellanti (ad ampio raggio) il rapporto docenti-alunni, l’insegnamento- apprendimento e le relazioni inter-soggettive e affettive dei soggetti coinvolti. Sì che il racconto letterario della nostra autrice è leggibile, crediamo, nella possibile cornice percettiva del metodo analitico “figura e sfondo”; e tale che non sembra voglia nascondere la “politicità” della letteratura. Qui, infatti, la realtà delle immagini in primo piano (nel caso la vita e l’essere degli alunni) hanno lo scopo di far emergere la logica del potere che agisce sullo sfondo. Un messaggio metaletterario. Una politicità critica “sui generis” (oltre il contenuto) formalmente mediata – crediamo – dall’uso di espressioni gergali o del basso in corsivo (sgherri incazzati … Zoran acchiana i mura lisci… ci faccio più figura ….) in funzione di sottolineatura connotativa e dinamica.

Negli undici capitoli, l’articolarsi del rapporto docente-alunni, infatti, è in exopatia (un punto di vista autonomo). Un punto di vista che, non rinunciando alla propria sensibilità urtata e urticante, denuncia le brucianti verità che, in regime pandemico, hanno trasformato il sistema scolastico italiano nel sistema dei neuroni a specchio, e governato dalle piattaforme elettroniche e dai social network privati (ormai i sovrani della comunicazione, della formazione delle coscienze e dell’opinione pubblica in una con il governo politico glocal). Sono le verità prodotte dalle scelte orwelliane del “Ministro” ma visibili nella luce delle webcam. L’occhio che, nelle procedure della Dad, si accende e spegne come lucciole a comando, mentre l’intrusione nei luoghi socio-familiari degli alunni ne svelano i disagi e le diseguaglianze:

«Zoran e Manfredi spesso non partecipano alle videolezioni mattutine. Manfredi dorme e non c’è modo, o i genitori non lo trovano, di tirarlo giù dal letto: la sua diagnosi è un alibi di ferro. Zoran non dispone di un telefono con la connessione, dipende dall’apparecchio di sua madre, e sua madre non c’è mai. Ormai conosco dei ragazzi e dei loro genitori orai e abitudini, tanto li ho braccati; ma l’atteggiamento di degnazione con cui mi vengono accordati giorno e ora assomiglia a quello di un piazzista di materassi o depuratori d’acqua per una dimostrazione a domicilio» (Capitolo terzo, Didattica a domicilio, p. 63);

«Come lucciole che si addormentano sul far del giorno, le webcam si spensero una dopo l’altra lasciando al loro posto i tondini in alto a destra. Eccola qua, la mia 3H: due anni e mezzo di duro lavoro sulle dinamiche di gruppo e sul rapporto tra adulti e pari, e si era ridotta a una fila di oblò il cui unico segno di vita era cerchiarsi di bianco simulando una pulsazione quando uno di loro prendeva la parola. Ministro, mi si sono ristretti gli alunni! Mi si sono ristretti in una centrifuga virtuale che gli ha tolto il sorri­so e il broncio, i capelli impastati dei maschi e quelli sti­rati e lucidi delle ragazze, l’odore di lip gloss, di mottino schiacciato tra i libri, di fiato crudo al mattino, di erutto sgasato dopo la ricreazione. Gli ha tolto i corpi sgraziati, ingombranti, impacciati, le mani sempre in movimento, le teste ciondoloni. Gli ha tolto i rumori, le urla, i mormorii, le reazioni inconsulte, gli abbracci, le zuffe, le canzoni. Gli ha tolto i pianti, gli sguardi eloquenti, la gioia scalmana­ta di quando dici che domani è vacanza. Gli ha tolto i ge­nitori disoccupati, il padre che fugge, la madre depressa. Questi dati, la piattaforma non li registra. Non li inse­risce nelle annotazioni sulle attività svolte. E senza i loro corpi sgangherati, i loro guai senza rimedio e le loro gioie insulse, i miei alunni sono più leggeri. Me li hanno com­pattati, me li hanno zippati ciascuno in un file. Quando voglio, ci clicco su. Ma sarà la loro icona a comparire; il loro nome in sovrimpressione, se va bene. Saranno i com­piti che hanno fatto e quelli che non hanno fatto. Sarà il grafico del rendimento, che settimanalmente la piattaforma elabora per ciascuno di loro. I dati anagrafici. Il diagramma a torta delle loro assenze. Il confronto tra le valutazioni in presenza e a distanza. Di «loro», ministro, nessuna traccia» (Capitolo terzo, Distanti e dispersi, p. 34).

E in questo deserto delle tracce, di certo non ci può essere razionale condivisione che soddisfi la funzione e il valore delle azioni “Dad”. Qui il “Ministro” dell’istruzione appare come un “minus-ter” (minore-ministro) e l’insegnante come un “magis-ter” (maggiore-maestro); sì che il racconto – polifonia bachtiana di voci e identità eterogenee – è una “invenzione” che nel suo “falso reale” è più vera e concreta di una verità dimostrata o per assurdo o per prova sperimentale. L’alieno non mente, e se dice che mente dice la verità. Le strade della verità sono ricche di distorsioni (ne sa qualcosa in proposito la psicoanalisi con i suoi transfert e contro-transfert emotivi e non …). Lungo la via delle osservazioni critiche e giudicanti lasciate dall’io narrante (lo diciamo per sofisticheria) sembra trovarsi davanti all’antica “parabasi” del dramma, l’atto con cui l’autore, rivolgendosi allo spettatore/lettore, esponeva le proprie idee e il proprio giudizio servendosi di altre figure (la scena si popola e posiziona con altre voci affettive ed etiche).

Ora, per inciso, e prima di qualche parola sulla funzione dell’emozione (parola d’ordine nel de-pensiero d’epoca e degli automatismi comandati …), analogizzando quanto avanti, qui piace ricordare, a proposito dei fatti simulati nel racconto della nostra autrice, un aneddoto (umoristico!) riguardante la creatività artistica del pittore Picasso. Picasso, allorquando «gli chiedevano se i dipinti a lui attribuiti fossero davvero autentici, spiegava: “Io dipingo spesso dei falsi”»2. L’io autoriale di “Tutto un rimbalzare di neuroni” spiega invece che il suo racconto è “pura invenzione”! Una invenzione artistica che, come tutte le scritture letterarie (e nel caso basterebbe un occhio attento alla sola polifonia del variegato espressionismo metaforico che qualifica la narrazione dissonante di Vanessa Ambrosecchio), non trascura di registrare la realtà sotto la voce dell’immaginazione produttiva. Una realtà che non tralascia anche le inquietudini che il meccanismo della Dad infligge impietosamente, e senza risparmiare nessuno. Inquietudini del soggetto e della parola nelle emozioni delle soggettività (campo di forze pratiche) che, icastiche costellazioni di fotogrammi unici e singolari, nel qui e ora, si vogliono differenze non “unipatiche”; e ciò – crediamo – diversamente dal patetico dell’immedesimazione della vulgata (l’obbligata politically correct dello spartito di corte; diversamente sei lo sconveniente soggetto etico-politico da mettere alla gogna). Però, nonostante l’appello all’emozione (vi dedica un intero capitolo), nel racconto la nostra autrice non dà, giustamente, voce all’obbrobrio del politically correct. L’insegnante (indottrinata in un corso di aggiornamento), infatti, nell’applicare la tecnica dell’emozione aritmetizzata (dare un voto secco al proprio umore) sente il disagio del negativo che colpisce il gruppo scolastico e dribbla. Gira il passo sulla prova dell’esame interiore, una svolta verso l’autoconsapevolezza spirituale (i numeri della scala decimale, se difettano per misurare il profitto scolastico, figurarsi se sono utili per darci la misura degli umori, del patire di ognuno e ciascuno).

L’ego sum autoriale, infatti, è l’id di un insegnante critico: «un profeta stipendiato, assunto per credere dove nessuno crede. Quella sua fede è a volte l’unica, spesso l’ultima opportunità per un ragazzo. E noi siamo pagati per scommetterci. A occhi chiusi, come Pascal. […] insegnare non è una scienza esatta. Stai come un apprendista chimico davanti agli alambicchi e liquidi colorati, a chiederti che accadrà se mescoli questo con quell’altro […]. Non so se basti, ma so che la suddivisione in caste, che affligge persino uno sparuto gruppo di bambini, può essere momentaneamente (giusto un triennio) dimenticata» (Capitolo secondo, «Si poteva fare meglio quella classe», pp. 21, 22). Un docente (messaggiato a tutte le ore) che di buzzo buono lavora in una scuola difficile (zone periferiche e ricche di disagi come dio comanda: familiari, sociali, adolescenziali, psico-fisici, …). In questa scuola secondaria di primo grado, fra gli alunni, non mancano né quelli di lingua non italofona né i tanti ricchi di quei limiti che l’art. 3 della Costituzione italiana impegnerebbe ad eliminare in nome dell’eguaglianza di tutti. L’ambiente e il contesto sono quelli in cui docente e alunni, nell’ora dell’epoché pandemico mondializzato, catapultati nella Dad dalla governance del neocapitalismo robotizzato, e di rete, si barcamenano per non fa morire la speranza e la fiducia nelle possibilità dell’istituzione educativa di formare identità all’altezza dei bi-sogni di tutti e ciascuno. Una lotta contro la tristezza dei tempi, ma anche il bisogno e l’impegno per rivendicare la continuità del diritto al conservarsi umani (in una con le debolezze, le potenzialità e i punti forti propri a ciascun corpo, soggettività storicamente determinate e divenienti) ma sempre attenti a non rinunciare ai sogni. Cose impraticabili però dove la vita umana, affidata ai soli “neuroni” digitalizzati degli automatismi della rivoluzione informatico-elettronica del neocapitalismo metropolitano, si pretende governarla nella ‘fusione’ empatica delle identità ridotte all’unicum del nostro medesimo. I rapporti e i flussi valutativi, diagrammati e calcolati – mentre la posizione delle persone è inquadrata e catturata (senza possibilità partecipativa e decisionale) nell’evoluzione delle curve della “campana di Gauss”. Il grafico che stigmatizza i meritevoli e i non meritevoli. L’indicizzazione che non può vaporizzare la dimensione plurale dell’identità di ciascuno “io” che si relaziona nella pluralità di un collettivo o di un gruppo in movimento (la poli-sono-morfia), né ignorare la “stratificazione” semantica, o le differenti forme in cui si coniuga la cura dell’emozione sim-patizzata (il soggetto che la sente in prima persona e quello che la con-divide senza averla vissuta direttamente: le identità non godono degli stessi processi). I processi hanno nomi generali che individuano sintesi distinte. Ivan Rotella3, recensendo “Critica della ragione empatica. Fenomenologia dell’altruismo e della crudeltà” di Anna Donise, scrive che sull’empatia lo sguardo critico ha molti modi di dirla. Ora è nome di fusione inconscia – unipatia –, ora di sovrapposizione dei vissuti, ora di empatia emotiva si riconosce che non è il nostro vissuto (ma egualmente si sente la gioia o la tristezza altrui) –, ora di empatia immedesimativo-cognitiva come punti di vista di due menti diverse, ora di empatia comprendente e narrativa; quella che gioca con l’immaginazione che porta all’identificazione con personaggi distanti dal proprio sé.

Ma la Dad della rivoluzione del lavoro “4.0”, dei robot e delle azioni e reazioni automatizzate (per di più nelle mani delle piattaforme private dedite ai profitti e meno alla qualità della vita…) si occupa di tutto questo? Ne dubitiamo! Anzi toglie (non dà) spessore e densità alle vite e all’esistenza di grandi e piccoli connessi e gestiti dalle reti. È la rivoluzione che ha trasformato alunni e insegnanti (e non solo) in impiegati (dice il “racconto” di Vanessa Ambrosecchio) a tempo pieno delle piattaforme private che dell’informazione personalizzata hanno fatto merce di scambio valorizzato ad hoc. Impiegati e mal ripagati gli stessi, fornitori sorgente, vedono che ogni parola, ogni gesto e ogni immagine circolante nella Dad, infatti, non sfugge alla censura, al controllo e al riutilizzo come merce… catturata è usata come merce privatizzata. L’informazione è rimessa poi sul mercato per soddisfare, circolarmente, le esigenze degli stessi soggetti produttori diretti (clienti fedeli, usurati e dis-persi!). Da qui, absit iniura verbis, ancora il giudizio etico-politico – crediamo – sulla Dad e sull’alluso Ministro responsabile (e poi il modo elegante di porgere le “scuse” finali: «Storie e personaggi qui raccontatati non corrispondono a storie vere, a persone realmente esistenti», p. 127). Un modo libero e di distaccata cortesia che, oltre ad aver inventato i nomi degli alunni (giocati anche nella forma degli anagrammi) e usato il maiuscolo per il “Ministro”, si concretizza pure nell’uso dei pronomi e dell’impersonale “si”. Ma di questo intrigo e di questa veglia, misurati con prudenza nella finta autobiografia di un insegnante irreale-reale, Vanessa Ambrosecchio ne dà conto avveduto anche, ci sembra, ne “La scialuppa” (Capitolo quinto). È un conto dai risvolti non semplici. La dimensione delle emozioni delle soggettività narrate, del resto, è tema complesso (oggi – sembra – che catturi ascolti e fa vendere (e non c’è, di questi tempi, occasione e istante in cui la parola jolly non faccia capolino per agevolare il cliente educato all’immediatezza e alla semplicità delle cose: non c’è tempo da perdere: pensare e riflettere non paga!). Figurarsi poi se un editing editoriale sconsigli l’uso comunicativo-commerciale dell’emozione, la parola magica!

Lasciamo la parola al testo:

«A scuola, sin dalla prima media, avevo adottato l’appel­lo emotivo: lo avevo imparato a un corso e mi era piaciu­to subito. Era il mio modo di dare il buongiorno, di dire sono contenta di vedervi, di sapere come state. Si tratta di chiamare in ordine alfabetico: dopo l’abituale comuni­cazione di presenza, l’alunno dà un voto da zero a dieci al proprio umore, […]. All’inizio quelli della 3H, allora IH, non l’avevano presa bene. Dovette sembrar­gli un’intrusione nelle loro vite complicate, […] C’era chi rispondeva prontamente (e provocatoriamente), chi aveva bisogno di molti secondi per decidere. C’era chi alzava le spalle e piegava la bocca come a dire: e che ne so? neanche fosse un’interrogazione, e si guardava intorno accettando suggerimenti: – Coraggio, Sara, tu sola lo puoi sapere! – E finalmente Sara abbandonava l’espressione dormiente e mormorava un numero. Mattia invece sparava un vo­to e subito ci ripensava, esitava, si tormentava, infine si correggeva. Buon segno, mi dicevo, stanno imparando a guardarsi dentro. Manfredi poi ne aveva fatto il cavallo di battaglia del suo voluto isolamento, della sua alienazione. Zero, proclamava ogni giorno, invariabilmente. […] Già, Manfredi è svelto nei cal­coli quando gli conviene, nessuno lo fa fesso, Manfredi. E bravo a nuotare, a pescare. Nessuno di loro aveva mai preso sul serio le sue difficoltà, anzi forse persino quelle lo rendevano «normale», […] Manfredi è un ragazzo autistico […] e non sempre ha voglia di stare insieme agli altri. E può guarire? – mi chiede Mattia. La sua domanda è una spina, mi punge due volte, per Manfredi e per lui. Verità, verità, mi ripeto, e intanto spe­ro che non faccia danno, questa benedetta verità».

Ma il danno, prima di essere nella sua calcolabilità quantificata e numericamente determinata, è nel suo osceno regime di verità presupponente che le diversità dialoganti possano ritrovare un’unità comunicativo-intenzionale nell’identificazione di un medesimo sentire, ignorando o astraendo del tutto dal vissuto storico e temporale di ogni soggetto e dal ventaglio delle componenti che entrano nel patrimonio delle identità di ciascun “io”.

Presupporre che la diversità/alterità delle identità tra alunni e docenti (o dialoganti di altra storia) possa essere ridotta all’assurdo dell’unicum comunicativo emozionale è cosa che la fenomenologia delle condotte non registra e le teorie (dalla filosofia, all’antropologia, alla psicologia, alla logica, alla sociologia, all’etnologia …) non avallano. A tal proposito, il filosofo Michel Serres (solo per citare solo un caso) – richiamato in nota, fra gli altri, a da Paolo Fabbri in ordine alla problematizzazione del tema “identità” – dice che per “distinguere identità e appartenenza” bisogna definirla nei diversi campi: «“Logico per il principio e la sua tautologia, l’invarianza temporale per contraddi­zioni; sociopolitico, nella critica del razzismo e il processo d’esclusione; biologico per il si­stema immunitario e la sua fluttuante eccezione uterina; psicologico, poiché definisce una libido dell’appartenenza; medita sullo spazio e sul tempo e identifica infine l’io in tre sta­ti: una plasticità vergine, un paesaggio complicato, delle trasformazioni vibranti tra una fa­se e l’altra”»4.

L’assurdo dell’immedesimazione identitaria come immediato atto percettivo che, nel comune stato di cose o di eventi, annulla l’eterogeneità delle identità di ciascun individuo coinvolto (che una circostanza li tiene insieme) è la bella metafisica di comodo dei tempi “ipermoderni”; l’epoca fluida e precaria dell’eterno presente accelerato (l’accelerazione continua e perversa del sempre più veloce!).

Una nevrosi. Un’isteria fino al massimo dell’equivoca contrazione linguistica di cui, nel racconto della nostra, il ricorrente appellativo “Pro, Pro” (professore/ssa), nella sua forma di significante-significato, è spia semiotizzante non innocente. Vero è infatti che il potere, facendo appello all’emozione deintellettualizzante, semplificante, si facilita la strada per impartire i suoi comandi senza resistenza (deglutire senza digerire, parole e sintassi senza spessore …!), se le identità altrui sono riducibili a uno stampo semplificato se non agli acronimi (omg, organismi geneticamente modificati!).

Ma a smentire l’assunto, se non ci fossero già le stesse ricerche consolidate (filosofia, antropologia, sociologia, biologia, psicoanalisi …), a mettere in ginocchio questa becera moda basterebbe la pluralità delle voci, delle pieghe e dei ripieghi degli stessi alunni I/III-H. Le identità pulsanti della “Pro” del racconto sulla Dad, il trita carne o corpi o vissuti che si voglia dire (se non si vuole tirare in ballo la differenza concettuale e semantica tra corpo o esperienza vissuta (Erlebnis) – cosa molto netta nella lingua tedesca … ma di cui ha anche finemente detto, senza scendere nei particolari, il filosofo Merleau-Ponty allorquando ha usato anche la nozione carne (come dimensione che antecede la distinzione tra soggetto e oggetto). La fenomenologia di Edmond Husserl se ne è occupata ne “La crisi delle scienze europee”; quelle scienze cioè che non sanno della differenza tra le emozioni e le soggettività individuali e sociali che le patiscono, mentre il dubbio della nostra “Pro”, avanzando la valenza dei sogni, chiude il racconto con un “non so … degli alunni”.

«Degli alunni – «un manipolo di pirati, una banda di piccoli sgherri incazzati. Una buona metà con difficoltà di lettoscrittura. Due con disabilità e una forse. E fra gli altri due iperattivi, un’ansiosa, due stranieri, un depresso» (Capitolo secondo, cit., p. 15) – che ho avuto in vent’anni di scuola, non so nulla. Se dei sogni sognati per ciascuno di loro almeno uno si è realizzato, non so neanche quello. È giusto così. Così, non smetto di sognare» (Capitolo undicesimo, Connessa con un sogno, p. 126).

È un sognare che ha memoria del passato (Capitolo nono, Connessa col passato). Un ascolto non dismesso (non fuga o rifugio sentimentalistico … nelle stanze della “bellezza” modaiola del senso comune) con la poesia di Nâzim Hikmet (Il più bello dei mari, p. 105) e con il desiderio del futuro (?) del “vorrei”:

Il più bello dei mari

è quello che non navigammo.

Il più bello dei nostri figli

non è ancora cresciuto.

I più belli dei nostri dei nostri giorni

non li abbiamo ancora vissuto.

E quello

che vorrei dirti di più bello

con te l’ho ancora detto.

Il vorrei della temporalità vissuta come desiderio sognante. Le forze che metaforicamente trasportano le ragioni nel più bello dei mari, quello che non navigammo. Il tempo e lo spazio del modello di mondo figurato dal sogno e nel futuro del poeta. La dimensione che l’alunna Roaura intercetta ne il “presente indicativo” – l’è – della poesia. L’è che non rinuncia al possibile che in atto è negato: il non navigammo, il non cresciuto, il non vissuto. Netta e certa, infatti, è la percezione dell’alunna Roaura: il futuro non può essere schiacciato sul presente digitalizzato degli obiettivi quantificati del mercato educativo (e non …) attuale.

I desideri e i sogni non hanno unità di misura. Sono incommensurabili e come tali inattuali e sovversivi (incompatibili con il modello della competitività meritocratica e mercificabile). Il loro futuro non è riducibile al presente degli obiettivi visibili, misurati e controllati. L’avvenire degli eventi, che ogni giorno ripete, e il loro tempo è quello della vita temporalizzata e conflittuale. L’esser-ci etico-politico che nella geografia dello spazio-tempo delle eterogeneità e degli incontri inattuali, tra assonanze e dissonanze, li concretizza quali valori alternativi. La vita del “tempo fuori sesto” non ci empatizza né ci cattura nell’efficienza dei ritmi di regime.

Marsala, 15 sett. 2021


NOTE

1 Il racconto di Vanessa Ambrosecchio, “Tutto un rimbalzare di neuroni-Il racconto di cosa ci ha tolto la didattica a distanza”, Einaudi, Torino, 2021, è stato presentato dal prof. Achille Sammartano presso il centro “Otium” di Barbara Lottero (Marsala, 23 agosto 2021).

2 Davide Zolletto, Sub speci theatri. I livelli di realtà nell’umorismo, “Aut Aut”, n.282, novembre-dicembre 1997, p. 94.

3 Ivan Rotella, Empatia si dice in molti modi. Uno sguardo critico, in “Iride”, n. 92, Gennaio – Aprile 2021, pp. 216-18.

4 Paolo Fabbri, Identità: l’enunciazione collettiva, in “Aut Aut”, n. 385, marzo 2020, pp. 169-178.

______________________________

[Leggi tutti gli articoli di Antonino Contiliano pubblicati su Retroguardia 2.0]

______________________________

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.