Il verso inverso n.1: Poesia come cecità

Poesia come cecità


di Francisco Soriano

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Implacabile, lapidaria, necessaria, labirintica, civile, resistente, intonsa a ogni forma di corruzione: la poesia si schiude al mondo in petali e spine. Come la bellezza ci distoglie da ogni senso di fine, vive, per così dire, di vortice e vita vissuta. Iosif Brodskij sosteneva che ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo. In questa definizione si nasconde una solida verità: l’esperienza estetica di un individuo appartiene totalmente a una scelta di tipo esistenziale e di prassi nel quotidiano, e riguarda proprio l’arte, la letteratura, la poesia: il gusto letterario, ad esempio, è refrattario e invincibile ai ritornelli e agli incantesimi della demagogia politica in tutte le sue versioni. Così la poesia è l’espressione più alta della mutazione, del comportamento, del linguaggio. Quest’ultimo assume la forma di un monolite che si vuole trasformato, che invece è solo oggetto di lenta mutazione: si manifesta come un luogo intoccabile ed eterno, infinito per dimensioni, e si muove come un magma inarrestabile.

Fare poesia è l’ineludibile conseguenza di una necessità connotante il genere umano: tuttavia, copiosi sono i detrattori, solitamente schierati nella triste e grigia galassia del potere. Sono coloro i quali tentano di avversare strenuamente i poeti, gli interpreti di una vera e propria asimmetria al loro pensiero bieco e interessato. Per il potere inteso come sistema, struttura e sovrastruttura gerarchica, la poesia è sublimazione dell’inutile. Le si vorrebbe contrapporre l’insensato verbo del fare con le sue leggi sociali, economiche, sociologiche, che impongono scelte spesso violente e distopiche. Il potere si definisce per l’endemica appartenenza alle cose del passato, ai tanti ieri cosparsi di guerre, ingiustizie, olocausti, persecuzioni e diseguaglianze. Per il potere l’oggi è già ieri. Tuttavia, nessun medicamento ci si deve attendere dalle parole in versi, né soluzioni salvifiche, tanto meno ipotesi di edonistici quanto vacui piaceri determinati dalla retorica della bella parola, scritta in conciliante estasi con l’Universo. La poesia ci scuote ai quattro venti e ricerca, instancabilmente, il suo volto non comune, parafrasando Baratynskij. L’impossibilità di una definitività nell’esperienza poetica quanto nella ricerca di una definizione che ne sancisca, seppur a grandi linee, la sua essenza e il suo etimo, ci lasciano percepire quanto la poesia appartenga a un arcano mondo sospeso che non conduce, infatti, al razionale incontestabile, quanto piuttosto alla vertigine del vuoto che ci appare sempre di più come lo spazio unico e reale della nostra inestricabile esistenza.

L’andamento è lento, anarcoide, esposto alle irregolarità, ai piani inclinati, sfugge al tempo, alle gerarchie, alle intemperie del giorno e della notte, alle cose visibili che, puntualmente, ci ingannano con la propria esplicita irrealtà. Tuttavia, non è tutto così ontologicamente invisibile nella poesia. Essa esprime le sue forme, non con semplice e dogmatica artificialità, ma con un qualche tipo di limite artificiale indispensabile, come l’artigiano del fare poesia, T.S. Eliot, ci segnalava. Per questo sfuggiamo alle retoriche che vorrebbero liberarsi da ogni forma nel poetare e ricordiamo quanto Ezra Pound, nonostante il suo infrangibile e ricorrente richiamo alla classicità nel comporre versi sia oggi, invincibilmente, più cittadino dell’era dell’antropocene di quanti, tanti, profeti del verso libero senza ritmo e senza armonia, possano immaginare. Epigoni spesso, sono gli agenti per conto del nuovo, operazione che appare, da subito, come un bel capitombolo nel passato remoto, loro malgrado durano il tempo della vita di una falena. Il fare poesia è prassi nella vita quotidiana, senza obiezione alcuna deve sublimare una coerenza che non sia a fasi alterne. Nella grandezza della parola, nel fluire incommensurabile della poesia e talvolta della prosa, nell’attivazione del linguaggio del proprio tempo, i più visionari e sperimentali di tutti sono stati coloro i quali hanno rivolto lo sguardo ai posteri: François Villon e Arthur Rimbaud, Giacomo Leopardi ed Eugenio Montale, Ezra Pound e T.S. Eliot, Else Lasker-Schüler e Juana Inés de la Cruz, Anna Achmatova e Cristina Campo, Osip Mandel’štam e Iosif Brodskij, Odisseas Elitis e Giorgos Seferis, Marguerite Yourcenar e Maria Zambrano, Louis-Ferdinand Céline e Kakuzo Okakura, solo per citarne alcuni.

La poesia è cecità. Nella dimensione di un cieco si possiede l’abilità suprema dello scrutare, del vagare senza difficoltà fra le anse di ogni rigo, di ogni singola parola, punto di interpunzione, vuoto, si percepisce l’arcano e la forza espressiva. Piena, insolita, rivoluzionaria, politicamente scorretta, armonica, la poesia vissuta nell’oscurità dei non vedenti è qualcosa di strabiliante. Nella sua estatica dimensione nulla ha a che fare con il visivo e la sua falsa immagine, come avviene nelle bolge dell’avanspettacolo popolato dai contemporanei poeti laureati in felpa o livrea, a ricevere premi e medaglie luccicanti di bagliori riflessi. Meglio sarebbe concentrarsi sul da farsi, in questo momento di transizione sociale e politica così confuso, epidermicamente autoritario, autocratico, autoreferenziale, nel caos imperante e funzionale di un liberismo che non rispetta l’individuo e corrode ogni cosa sfruttando e mercificando. Avendo la poesia una dimensione demiurgica, essendo carne viva, assolve alla necessità di prendere parte alla vita, come dibattito, come lotta, come svolta, come protagonismo, come racconto, come estetica di un mondo diverso, immaginato e finalmente attuato.

Tuttavia, la poesia è generalmente refrattaria alla condivisione. Come affermava Iosif Brodskij, tutto può essere condivisibile, dal pane alle convinzioni, dal letto a un amante, ma è impossibile che ciò avvenga per una poesia di Rainer Maria Rilke. Questo teorema viene argomentato con legittime ragioni quando si sostiene, ad esempio, che l’arte in generale, la letteratura e la poesia in special modo, non sono apprezzate dai paladini del bene comune, dai padroni delle masse, dagli araldi della necessità storica. Su questo piano nulla può essere contestato: la relazione conflittuale con il potere in tutte le sue forme e ingerenze è sotto gli occhi di tutti, puntualmente si verifica in ogni sistema politico, oggi come ieri, con la falce della censura e l’arma dell’abiura. Bisognerà, però, seriamente riflettere sulla dimensione privata dell’arte e della poesia perché, verosimilmente, quest’ultima è la forma più antica e anche più letterale di iniziativa privata: l’arte stimola nell’uomo la sua unicità e individualità, trasformandolo da animale sociale in un «Io» autonomo.

Odisseas Elitis racconta che già adolescente prendeva la penna in mano per scrivere poesie: questa azione rappresentava un cosciente, inesorabile e ininterrotto esercizio di eterodossia. In fondo – diceva il poeta – volevo cantare in modo diverso da come cantavano gli altri, anche a rischio di stonature. Ma la conquista è tutta nella libertà conquistata, nell’aver finalmente abitato la diversità desiderata. Il fare poetico richiede strumenti, tecnica, mani, voci, scalpello, intarsio. Ma, ci chiediamo, chi è l’uomo che mortifica la propria fantasia, la propria creatività, se non un invalido della realtà? È proprio vero che i cosiddetti uomini pratici se ne andranno un giorno dalla vita senza averla neppure balbettata, due volte analfabeti. La dimensione privata si mescola, dunque, alla solitudine, davvero unica, ineludibile e, forse, necessaria anche questa.

In ogni necessità intrinseca alla creazione di un verso è certamente il suono a precedere l’immagine. Viene alla luce, concependosi insieme alla parola e ne rimane fedele come la musica lo è con il verso, dalla notte dei tempi non si sono mai più ignorati. Tanto più la rima è mutata e il verso chiuso si è affrancato da una sterile osmosi sonora, tanto più è difficile infondere armonia e calibratura nel versificare. Una poesia che non è sonora è una cacofonia insopportabile, nega l’esistenza del verso, sbeffeggia il ritmo e le parole inaridiscono: neppure un prosimetro scritto bene, senza melodia, renderebbe giustizia alla sete di un canto. L’ideogramma concepito in una elaborazione complessa e quasi miracolosa si manifesta come ogni istante poetico che pretende di divenire afflato, gioia. È come il canto del merlo sull’ulivo fiammeggiante in squame d’argento. È lì, da sempre, nerissimo con il suo becco in bella mostra, unico arancione a stagliarsi prima del tramonto sulla linea d’attesa, fra il mare e il cielo, appena visibile in un pomeriggio d’aprile.

Negli anni Sessanta, in Italia, grazie all’onda d’urto dei cambiamenti epocali in atto, vi fu un sostanziale quanto generale rinnovamento del linguaggio poetico: molti poeti allontanandosi dalla consolidata componente ermetica, provenivano e si dirigevano verso perimetri diversi. Le trasformazioni in termini di linguaggio crearono un humus di interventi, in poesia, davvero ragguardevoli. A differenza di quanto avveniva negli anni Cinquanta, si andava verso l’adozione di un linguaggio più vicino alla realtà. In quegli anni, la questione sembrava porsi nei soliti termini, e cioè quella di intendere come tradizione una poesia lirica che fosse distante dal linguaggio quotidiano, caratterizzata da una intonsa quanto cristallina espressione di soggettività: diatriba non da poco, perché da questo postulato si decideva una precisa scelta linguistica e di stile, direi anche di canone. Alcuni negavano le forme liriche, altri cercavano di rimodularle nella loro pratica di scrittura. Si trattava di mettere in discussione, una volta per tutte, il predominio della lirica in poesia.

Il punto di svolta avvenne con i contributi di Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta, Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani, solo per citarne alcuni, che decretarono con il gruppo ’63 la formale critica del lirismo e, in risposta, lo svelamento del linguaggio colloquiale e “popolare”. Le opere di Sereni, Caproni, Giudici, Raboni, Zanzotto e lo stesso Montale (che non rispondeva a nessun canone rappresentando l’unico, intonso poeta senza tempo) sono la prova di quanto si andava attestando nel dopo lirica, un momento determinante e dirimente per la comprensione delle trasformazioni in atto. La pubblicazione dell’antologia de I Novissimi nel 1961, curata da Alfredo Giuliani, segnò un momento epocale del quale tutti i poeti e gli scrittori venuti successivamente dovettero tenere conto. Il Gruppo ’63 non stilò mai un manifesto di valori o criteri da seguire, ma questa pubblicazione fu molto esplicita nell’enunciare alcuni punti che, a molti, apparirono imprescindibili: il superamento totale dell’assioma poesia/lirismo e il disconoscimento del soggettivismo rappresentato dal poeta/io, con il suo accantonamento in una funzione davvero marginale se non di totale cancellazione.

Di questa esperienza dei Novissimi, alcuni punti di arrivo rappresentano ancora oggi dei validi riferimenti, ma non sono affatto intangibili. I Novissimi dichiaravano che la lirica in poesia fosse superata grazie alla dispersione, frantumazione, crisi della soggettività che determinava, a sua volta, l’alienazione dell’individuo/soggetto nel linguaggio. A mio vedere, quest’ultima dinamica non solo è stata ampliata come fenomeno nell’era dell’antropocene, ma ha assunto addirittura altre connotazioni di esacerbato solipsismo, grazie alla rivoluzione informatica e alla digitalizzazione di interi campi della vita sociale e comunicativa, definendo soprattutto nuovi linguaggi e nuovi paradigmi comunicativi. Per i Novissimi il soggetto protagonista che fa poesia aveva perduto la sua soggettività poetante e si abiurava totalmente al suo protagonismo con lo schizomorfismo. Con il verso atonale, in particolare, si smorzava lo slancio lirico: non si aveva a che fare con la soggettività tradizionalmente/canonicamente intesa, ma con un certo modo di sentirla. Anche in tempi più recenti basterebbe leggere gli endecasillabi di Giovanni Raboni, dettati da una scelta tecnica che è stata definita come dissoluzione atonale, cioè quel processo che lo ha condotto all’atonalità in una soluzione antilirica che si concentra sul tema della morte, della memoria e, soprattutto, sull’incomunicabilità urbana e l’isolamento esistenziale. Lo stesso Giuliani avvertiva quanto le poesie contenute nell’antologia volessero volutamente infrangere l’orizzonte d’attesa del lettore e quanto “urtarlo”, realizzando una poesia che crei un effetto quasi di choc al momento della lettura, allontanandosi del tutto da “facili” strategie comunicative. Le modalità di scrittura apparivano in una forma caotica, come Giuliani ci argomenta: il caos stabilisce invero il metodo da cui deriva la struttura stessa del componimento, struttura che, in accordo con i processi mentali che regolano l’esperienza quotidiana nella contemporaneità – si fa schizomorfa, discontinua, frantumata. La lezione dei Novissimi fu indicativa di quanto la forma del poetare, seppur in radicale crisi e messa in discussione, apparisse fondamentale nello stabilire che il cosiddetto verso atonale non era semplicemente un verso libero, ma una nuova soluzione che consentiva di abbandonare la prosodia basata sull’accentazione sillabica della tradizione. Questo non significava infrangere ma costruire una nuova idea di accentazione che esaltava le unità sintattiche cercando di spronare, nel respiro del poeta e nella capacità di ascolto del lettore, la sublimazione di questa nuova modalità di fare poesia. In questo senso, ancora una volta le lezioni venivano impartite da Pound ed Eliot, come Alfredo Giuliani ci informa. Pound cercava una risposta a una semplice domanda: come dare consistenza al verso libero? Egli sosteneva che fosse nella quantità la risposta. Giuliani allora si chiedeva che cosa fosse per noi moderni la “quantità”. Era connessa alla musica del verso o alla musica della lingua? La sua perdita fu inevitabile o è soltanto illusoria? Pound rispondeva in base ai suoi esperimenti metrici dando un valore straordinario ai “classici”, così segnalando: Io penso che l’esigenza del verso libero nasca dal senso della quantità che si riafferma dopo una lunga inedia. Dubito che noi possiamo assumere, per l’inglese, le regole del greco e del latino, specie dai grammatici latini … Credo, invece, che possiamo progredire tentando di approssimarci ai metri quantitativi classici (NON di copiarli) piuttosto che trascurando di dar peso a tali questioni. In Tradition aggiungeva: Il movimento della poesia è limitato soltanto dalla natura delle sillabe e del suono articolato, e dalle leggi del ritmo melodico. L’intervallo ci offre un completo trattato su ogni sorta di verso, allitterativo, sillabico, accentuativo e quantitativo. In ABC of Reading, Pound fu definitivo sul concetto di ritmo quando lo definì alla stregua di una vera “legge interiore”: Il ritmo è una forma scolpita nel tempo.

Quest’ultima affermazione pone in Giuliani gli interrogativi più elementari del caso, non per la loro semplicità, ma perché risultano essere dei veri e propri postulati/corollari: La poesia si atrofizza quando si allontana troppo dalla musica; i suoni articolati hanno diversi pesi e durate; le qualità del suono, altezza e durata, possono essere naturali oppure modificate dall’interdipendenza dei suoni; la qualità del suono è inseparabile dal discorso. Altrettanto incisivo e definitivo fu il contributo di T.S. Eliot, in merito a queste questioni, nel suo testo The music of poetry: Il compito del poeta varia non solo in ordine al suo temperamento, ma anche secondo il tempo in cui vive. In certi periodi deve esplorare le possibilità musicali di una convenzione ormai accettata sulle relazioni intercorrenti fra il linguaggio della poesia e la lingua comune; in altri periodi deve mettersi alla pari con i mutamenti del pensiero e della sensibilità. Tale movimento ciclico influisce in maniera determinante sul nostro giudizio critico. Eliot si soffermava su un punto fermo che consisteva nell’avvertirci dei periodici mutamenti cui è soggetto il rapporto del linguaggio poetico con se stesso. Nel caso dei Novissimi era quello della trasformazione, intensa, operatasi nella lingua comune dall’Ottocento fino agli anni Sessanta, obbligando alla necessità di un adeguamento ai mutamenti del pensiero e della sensibilità.

Sono passati molti anni e la riflessione dei Novissimi rimane rilevante per delineare la storia dei movimenti, le vicissitudini polemiche sul linguaggio e il fare poesia. Tuttavia, la loro riflessione improntata fondamentalmente come critica alla società neocapitalistica e al mondo borghese (visto in un’ottica retriva e brutale), non ha forse prodotto gli effetti desiderati. Una cosa era dire che il problema della lingua letteraria si risolveva nel trattare la lingua comune con la stessa intensità della lingua poetica della tradizione e di portarla a misurarsi con la realtà contemporanea, altro era l’azione nei tessuti della società come un vero movimento antiborghese, popolare e moderno (rivoluzionario?) come avrebbe dovuto. Una critica legittima si potrebbe azzardare, a mio vedere, anche nei confronti di quella dialettica così “definitiva” di un gruppo di poeti e critici letterari che discorrevano e giudicavano come intellettuali antiborghesi e che, in qualche modo, non si discostavano da un modus agendi altrettanto borghese. Le così decantate quanto nichiliste previsioni della fine e inaridimento della poesia sono state sconfessate da una produzione poetica e letteraria abbastanza ragguardevole, anche dopo gli anni ’60 quando, per onor del vero, lo sviluppo capitalistico in Italia aveva effettivamente realizzato il suo exploit. Nessuno si sottrae alla critica di un sistema che basa la sua stessa visione universalistica solo sullo sfruttamento delle persone e dei territori in modo sconsiderato, oggi più che allora, e continua a devastare e violentare senza ritegno. Ma la poesia sopravvive forte, rigenerandosi in quel linguaggio che muta, muovendosi in un immenso territorio fra cocci di bottiglia aguzzi senza mai toccarli e senza far rumore. I gruppi poi, forse in particolar modo nel nostro Paese, soffrono i rinnovamenti interni: a un certo punto e al contrario, assumono connotazioni monolitiche impenetrabili con atteggiamenti e giudizi discriminanti verso altri scrittori, poeti e intellettuali di valore incommensurabile. La coerenza delle decisioni e della prassi nella vita quotidiana (dei poeti e degli intellettuali che si definiscono talvolta come rivoluzionari, avanguardisti o sperimentalisti), è una dimensione maldestramente rivendicata solo per gli altri. Ma come dimenticare, sempre in virtù di una narrazione storica coerente, quando i neoavanguardisti del ’63 apostrofarono Giorgio Bassani e Carlo Cassola (ovvero gli scrittori de Il giardino dei Finzi Contini e La ragazza di Bube, fra gli altri), come Liale, nella significazione di aver scritto testi di chiara fattura neoromantica, un po’ melensi e stucchevoli, con mirabile ingiustizia.

La poesia dà segni di ostinata quanto invincibile immortalità. La profetizzazione di una sua fine, mortificata e svuotata da una società borghese votata allo svilimento di tutti gli individui, ha mostrato limiti e angosce talvolta illegittime. Il bisogno di sopravvivere e radicarsi, in poesia, negli esseri umani è la prova incontrovertibile di una necessità, anche biologica. La sua testimonianza è la prova chiarissima che ogni individuo, nel gesto creativo rivendica la sua libertà e la sua autodeterminazione a qualsiasi costo. Le parole e i linguaggi sono l’unico vettore di consapevolezza della propria esistenza e del proprio esserci. Nei primi anni del ‘900, Rainer Maria Rilke cominciò uno scambio di lettere con un giovane poeta che gli chiedeva lumi sul fare poesia. L’epistolario di rara e profonda dolcezza, di passione fiammeggiante e consapevolezza, ci avverte dell’enorme responsabilità che la poesia, con il suo carico di gioia, sembra segnalarci: Voi domandate se i vostri versi siano buoni. Lo domandate a me. L’avete prima domandato ad altri. Li spedite a riviste. Li paragonate ad altre poesie e v’inquietate se talune redazioni rifiutano i vostri tentativi. Ora (poiché voi m’avete permesso di consigliarvi) vi prego di abbandonare tutto questo. Voi guardate fuori, verso l’esterno e questo soprattutto, voi non dovreste farlo. Nessuno vi può consigliare e aiutare, nessuno. C’è una sola via. Penetrate in voi stesso. Ricercate la ragione che vi chiama a scrivere; esaminate s’essa estenda le sue radici nel più profondo luogo del vostro cuore, confessatevi se sareste costretto a morire, quando vi si negasse di scrivere. Quale ragione dunque ci spinge alla scrittura di versi, al punto di chiederci se disponibili alla morte pur di realizzare questo necessario impulso vitale ed esistenziale? Dunque, anche per Rilke, un’opera d’arte è buona, s’è nata da necessità. In questa maniera della sua origine risiede il suo giudizio: non ve n’è altro. […] Penetrate in voi stesso e provate la profondità in cui balza la vostra vita; alla sua fonte troverete voi risposta alla domanda se dobbiate creare. Accoglietela come suona, senza perdervi in interpretazioni. E in ogni vortice che ci conduce alla poesia come la nostra unica fonte di vita, troveremo la ragione e il modo di essere altro, infinitamente migliori di ieri.


    • I NovissimiPoesie per gli anni ’60. Edizioni Einaudi – Torino, 1965
    • Rainer Maria Rilke – Lettere a un giovane poeta. Edizioni Adelphi – Milano, 1998
    • Odisseas Elitis – Il metodo del dunque. Donzelli Editore – Roma, 2011
    • Iosif Brodskij – Fuga da Bisanzio. Gli Adelphi – Milano, 2023
    • Iosif Brodskij – Dall’esilio. Edizioni Adelphi – Milano, 2024
    • T.S. Eliot – Sulla poesia e sui poeti. Edizioni Bompiani – Milano, 1956
    • Ruggero Bianchi – La parola e l’immagine. Edizioni Mursia – Milano, 1968

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.