I filosofi dell’‘Inizio’. Sergio Givone, “I presocratici. Ritorno alle origini”

I filosofi dell’‘Inizio’


di Stefano Lanuzza 

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Piemontese a Firenze e qui Assessore alla cultura dal 4 giugno 2012 al 25 maggio 2014, Sergio Givone è filosofo estetologo, saggista e narratore. Fondamentali, tra i suoi libri, Hybris e Malinconia. Studi sulle poetiche del Novecento (1974), Dostoevskij e la filosofia (1984); Storia dell’estetica (1988), Disincanto del mondo e pensiero tragico (1989), La questione romantica (1992), Storia del nulla (1995), Eros/ethos (2000), Il bibliotecario di Leibniz. Filosofia e romanzo (2005), Metafisica della peste. Colpa e destino (2012), Trattato teologico-poetico (2017), Sull’infinito (2018). Con i romanzi Favola delle cose ultime (1998), Nel nome di un dio barbaro (2002) e Non c’è più tempo (2008), ambientato nel sottomondo d’una Firenze tenebrosa e terrifica, vincitore del Premio nazionale Rhegium Julii (2008).

Con il più recente I presocratici. Ritorno alle origini (Bologna, il Mulino, 2022, pp. 142, € 13,00), quasi un frutto della dislocazione dell’autore in un’isola dell’Egeo e del fecondo incontro con quell’Ellade dei precordi d’una philosophia crogiolo di pensatori (nell’insegnamento scolastico, un po’ trasvalutati) che, prima di Socrate e Platone, a partire da Talete inaugurano il pensiero occidentale. Suggerendo, con Anassimandro, “intuizioni che preludono alla fisica moderna” (Givone).

D’ogni cosa conta l’Inizio, l’archè (ἀρχή) dei presocratici capaci di pensare circolarmente, muovendo dall’originarietà di tutte le cose, il disincanto e una fine introducente il ritorno e, insieme, il futuro… Non dall’aristotelica ‘meraviglia’ – registra il filosofo con riferimento ancora ad Anassimandro – bensì “dal disincanto nasce la filosofia! Una scoperta formidabile: il mondo non è se non quello che è”. Non per questo può dirsi che, col traumatico disincanto, decada il mito detentore del “segreto del principio” (Givone). Non si è sicuri, insomma, che una certa rappresentazione mitologica del mondo (quella, per esempio, di Talete secondo cui ‘tutto è pieno di Dei’ Daimónion) resti esclusa dal pensiero presocratico.

Coi presocratici vissuti tra il VI e il V secolo a.C., il cui primario concetto sospeso tra domanda e risposta è Perché, sembrerebbero svanire le metafisiche, i miti e la stessa religione? Non è proprio così se quanto può soprattutto pensarsi è l’abbagliante realtà interrogata-rivelata – per Givone “lo splendore del vero tutt’uno con lo splendore del reale”. Quando la realtà “non è più la Sfinge che interroga Edipo, ma Edipo che interroga la Sfinge” indovinandone l’enigma: ‘Chi è quell’essere che dapprima cammina a quattro gambe, poi con due e infine con tre?’. Certo è l’uomo: prima bambino, poi adulto, infine vecchio sorretto da un bastone… Pone domande, la filosofia; ma dà anche risposte.

Se è possibile cogliere nei presocratici l’attenzione alla natura e i prodromi dell’interesse per la scienza, è pur vero che la loro physis appaia strettamente legata all’archè ovvero a una genesi determinatasi in una sorta di non limitabile pluridimensionalità fatta di contrasti e di vuoti. Nel senso che quello presocratico, pensiero espanso sull’Essere visto in tutte le sue sfaccettature, proprio per questo e “facendo i conti col nulla”, s’apre a una “verità che sopporta la contraddizione” (Givone) nonché un lógos non trascendente il mito.

Dopo verrà Aristotele che, criticando l’archè, individuerebbe nella proiezione verso il cosmos (κόσμος ordine armonico) un superamento del mito e della religione a favore dell’etica. Tuttavia, il suo scopo non pare sia quello di spiegare quanto, piuttosto, di sciogliere nei propri stessi filosofemi una frammentaria, mutevole varietà di tesi e antitesi implicanti:

il naturalismo panteista e ateo di Talete (VII secolo a.C.), scientista riottante con un mondo invaso da deità e demoni cui oppone l’archè determinata nell’acqua, per lui ‘la cosa più bella del mondo’, che intride i viventi e la natura-realtà vivente. Umida è la vita, secca la morte;

Anassimene, secondo cui il principio non è l’acqua (che è ‘aria condensata’; così come il fuoco è ‘aria rarefatta’), ma l’ingenerata infinita aria (pneuma πνεῦμα, respiro e soffio vitale) “fatta della stessa materia di cui è fatta l’anima” (Givone);

l’infinito illimitato indeterminabile inizio da cui tutti gli esseri provengono, di Anassimandro: per il quale, però – avanza Givone –, l’infinito “non è l’essere. Semmai è il non essere. […] L’infinito è ciò che i viventi non sono. […] Il suo pensiero porta il disincanto al fondo”… Non nell’acqua né nell’aria Anassimandro identifica l’essenza primordiale-vitale del mondo, bensì nell’indefinibile, invisibile ápeiron fondamento e sostanza dell’archè;

la ‘totalità delle cose’ e la ragione aritmetico-geometrica del monoteista Pitagora che, pure non estraneo all’orfismo e al sovrannaturale come al politeismo e all’antropomorfismo religioso, identifica l’archè con l’esclusivo Numero;

la religiosa inconoscibilità d’ogni cosa e l’ingenerato ‘Dio Uno e Tutto’, tutt’altro dai mortali, del poeta-filosofo Senofane stigmatizzatore scettico del favolismo omerico, del politeismo idolatrico e delle divinità antropomorfiche. La ragione, non l’immaginazione, può pervenire all’essenza;

la lineare immutabilità del Tutto (‘l’essere è, il non essere non è’ ed è perciò ‘impensabile’; ‘Questo bisogna dire e pensare: ciò che è, è’) teorizzata da Parmenide, devoto alla ctonia Persefone e filosofo dell’essere unitario immutabile immobile contrapposto all’eracliteo, illusivo ‘divenire’. Col suo stile poetico mai aulico, egli non fissa un’origine dell’essere, s’attiene all’immutabilità del reale ‘pensabile’, evoca le apparenze (ciò che non è) divenute ‘reali’ solo per il loro apparire, pone Eros ‘primo fra tutti gli dei’ e, a favore della verità, indica il criterio di non contraddizione: allorché ‘pensare è lo stesso che essere’. Così – incalza Givone – “essere non è se non pensare”. [Né c’è] “forma che non abbia l’impronta del pensiero”;

il dialettico aporetico-logicizzante Zenone che, non discosto dal razionalista Parmenide, è presofistico quando teorizza la ‘freccia’ contemporaneamente ferma e in movimento;

il panta rei metamorfico archè per Eraclito, contemporaneo di Parmenide. L’armonica-anarmonica, trascorrente coesistenza dei contrari o discordi – dei ‘mortali immortali’, dell’incontro del giorno con la notte, dell’inverno con l’estate, della guerra con la pace, dell’essere col non-essere – e del fuoco dissolvente le cose a loro volta soggette al destino che le muta nel loro opposto… Se, per Parmenide, niente può cambiare, per Eraclito ogni essenza cambia-‘scorre’ (‘Nulla è permanente tranne il cambiamento’). Per lui, identificatore del divino nel lógos, ‘il tempo è un fanciullo che gioca a dadi’, l’imperituro cosmo ‘non è opera né degli dei né degli uomini’ che nemmeno conoscono ciò che apprendono; e ‘la guerra è ovunque, la giustizia è diverbio e tutto accade conflittualmente e necessariamente’. Infine, ‘ad attendere gli uomini dopo la morte’ sentenzia quell’Oscuro armonista dei contrari ‘ci sono cose che essi non sono in grado di sperare e neppure di immaginare’;

il postulato di Anassagora (‘niente nasce né perisce’… Se il nascere è stare col Tutto, il morire non è che separarsene), fisico pluralista precursore degli epicurei scevri da crucci timori affarismi e sempre disposti alla rinuncia, temperanti giammai schiavi delle bramosie. Non gli Dei, che non esistono, ma il noûs intelletto è la forza che anima lo stato di cose;

la dissoluzione dell’Uno nel suo ‘essere sempiterno’ per il quale non esiste un l’unitarietà, le indistinzioni e le cicliche corrispondenze cosmologiche del siceliota filosofo e verseggiatore veggente Empedocle (‘Già fui ragazzo e ragazza, albero, uccello e pesce silenzioso guizzante dalle onde del mare’). Ai quattro elementi materiali, fuoco acqua aria terra, egli aggiunge i perenni amore e odio trapassanti nell’amicizia e nel contrasto;

l’immutabile pienezza plurale o l’atomismo di Democrito (se, in accordo con Eraclito, è vero che ‘tutto scorre’, così non è per gli immutabili ‘atomi’). Filosofo fisico secondo cui anche ‘l’anima è materiale’, egli non è forse, in qualche misura, un viatico per il filosofo russo otto-novecentesco Pavel A. Florenskij teorico d’una ‘metafisica concreta’ votata alla conoscenza integrale?;

il linguaggio persuasivo e manipolatore, il nulla in cui si nasconde o si dissolve il vero, il fatalismo sofistico di Gorgia sull’umanità dominata dal destino e – detto con l’ineludibile Parmenide, che Gorgia tenterebbe di trasvalutare pur tenendone conto – dalle passioni di uomini ‘dalla testa doppia’, ossia dai pazzi;

il relativismo umanistico dell’abile concionatore e artista della controversia (eristica, da erizein rivaleggiare) Protagora (‘Di tutte le cose misura è l’uomo’) con la sua idea della ‘verità soggettiva’, la venerazione per i poeti e il suo delinearsi quale caposcuola dei sofisti (seconda metà V sec. a.C.).

Con Protagora s’avvia il tragitto dei presocratici versus i sofisti, mosso da un’ermeneutica dialettica del mito visitato da un lógos non finalistico, ma che al mito si richiamerà coesistendovi perlappunto sofisticamente.

Il lavoro sul mito […] demitizza e rimitizza il mondo”…: adoperando senza paralogismi una sua peculiare dialettica dei contrari, Givone s’attesta sull’archè quale persistente, ineluttabile pensiero anche della ‘fine’; con la ragione che si separa dal mito pur continuando ad appartenervi… L’identità suggerisce la differenza, l’essere addita il nulla e la realtà che è, potrebbe, insieme, non essere.

Peraltro, gli ‘illuminati’ sofisti (phos luce) “hanno in comune coi presocratici se non tutto, quasi tutto” (Givone), compreso l’argomento della verità che non è possibile possedere, ma bisogna ricercare. Commentando: “Mentre il saggio abita la luce come dimorando quietamente in uno spazio tutto illuminato, il sofista è invece inquieto, versa nel buio, e cerca di far luce intorno a sé […;] questo aiuta a capire perché i sofisti non fossero considerati sophoi, saggi, ma semmai philosophoi, amanti della saggezza e cercatori di saggezza” conoscenza consapevolezza; e, tornando a Parmenide, fedeli a una verità avulsa dalle sensazioni e non separabile dalla ragione.

Comunque sperimentando – medita Givone – che “la verità non è mai qualcosa di oggettivo […,] un quid. […] La si scopre in assenza. Se ne patisce la mancanza”… La cercherai nel mondo delle idee fra le anime risvegliate, in quel posto ‘sopra il cielo e il cosmo’ che Platone chiama ‘iperuranio’ (ὑπερουράνιος).

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.