Del passato nulla si sa. Irene Sabetta, “Nella cenere dei giochi”

Irene Sabetta, Nella cenere dei giochi, La Vita Felice, 2022, pp.68 € 10,00


di Francisco Soriano

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Cadaveri scultorei / o statue di carne / nelle vasche di pietra del giardino in attesa della sepoltura //: sono alcuni versi della silloge poetica di Irene Sabetta che, a mio avviso, ornano come un esergo irremovibile un filo rosso che sembra attraversare la sua raffinata idea di poesia. In fondo, che cosa siamo, se non monadi in uno spazio vorticoso appena reso, paradossalmente, concreto e reale in un sospiro di morte. Nonostante tutto, il verso compie il miracolo, quello che si manifesta nell’appena palpabile gesto di una esistenza tutta estatica: Si dice che era bella / e pazza. // Si dice che qualcuno / l’ha vista camminare sull’acqua / annodando fili di fiori / e ghirlande di fumo. Splendore di una magnifica, ricercata e dicotomica apparizione/rappresentazione: fili di fiori/ghirlande di fumo.

Sabetta concepisce la narrazione attraverso sovrapposizioni: gli affetti, le delusioni, l’incompiuto, si scambiano più volte spazi e ruoli in un vortice che ci consente, tuttavia, di interpretare la sofferenza e le episodiche gioie. Il passato è un fardello che si compie a nostra insaputa, questa volta lo spazio inclinato si manifesta in uno scambio: ieri potrebbe essere la fine di un giorno che non è ancora arrivato e, in questo dilemma, che sembra essere una mera provocazione si nasconde una geniale intuizione: nessuno conosce il passato che lo aspetta.

La narrazione sembra procedere con lentezza ma senza interferenze nel ritmo, poi una breve sezione in forma prosodica spezza l’andamento fonetico costruito in frammenti facilmente interscambiabili, tra forme retoriche e brillanti intuizioni che sanciscono, senza ombra di dubbio, la qualità del verso. La poetessa sembra avvolgerci in fiamme vorticose e ombre appena adombrate sull’uscio degli affetti più vicini.

Nel ventre di pietra riluce / il declino rosato del mondo: sono versi di rara e preziosa bellezza. Il mondo – sembra dirci la poetessa – definisce la sua fine, appunto il suo declino, in un colore delicato, soave, che si definisce solo grazie a un bagliore, incuneatosi nel ventre di una pietra: riluce in un afflato quasi nostalgico, declina senza speranza il volgere a un tramonto, forse tragica commedia di questa insana umanità. Potere della poesia, cantare il verso e le parole che in un accorto silenzio inneggiano al mondo: Se camminassi sulle parole / la tua poesia reggerebbe il peso. / Potrei usarla / per raschiare il fondo d’acciaio / o per piantare / chiodi alle pareti. / Potrei costruire città / o giardini accoglienti / impastando i tuoi versi / a calce viva. / Finalmente parole utili. / Se costruissi una scala d’avverbi / potrei salire fino all’ultimo gradino / e seguire la curva di luce. / Vedrei lontano / gli alberi cadere nella foresta / e saprei cosa fare. / Domani sarebbe adesso.

E proprio il domani potrebbe essere l’adesso, il luogo e lo spazio delle lunghe passeggiate, della fine di ogni dissidio, il grande ritorno, il petalo di cristallo, il tempo indecifrabile, che rischiara i propri sentieri con l’unica verità appagante e taciuta da Irene Sabetta: l’amore.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.