Daniela Baroncini, “Pascoli e la vertigine del nulla”

Daniela Baroncini, Pascoli e la vertigine del nulla, Bologna, Pàtron, 2022, pp.168, € 20,00

di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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In un foglio manoscritto, conservato nell’Archivio di Castelvecchio, nel Cartone LXXIII, busta 1, a suo tempo descritto e catalogato da Giuseppe Nava nell’edizione critica di Myricae (1974) leggiamo due versi di Giovanni Pascoli assai significativi: «E tutto è morto e piango io solo avanti il nulla» e «È vano ch’io gridi, vano/ tutto. E questo è un deserto, di viventi vuoto». Facile rimandare a Leopardi; meno scontato il nome di Beckett a suo tempo pronunciato da Giuseppe Leonelli. In ogni caso, in questi due versi sono presenti due parole-tema che non è solito associare alla poesia pascoliana: «vano/ tutto»; «nulla»; «deserto» e «vuoto». Se pensiamo invece al Novecento sono infiniti i nomi da appellare per tale preciso bagaglio semantico: da Ungaretti a Caproni, da Montale a Sereni, poi giù sino a Cattafi, Viviani, e tanti altri. Si tratta, in sostanza, del macrotema del “nulla”, che non è sempre stato propriamente al centro dell’attenzione negli studi dedicati al Pascoli.

Non è facile individuare in poche righe di che “nulla” si sta parlando; e certamente all’interno della parabola poetica stessa del Pascoli sono differenti le modalità e le accezioni con cui ci si può avvicinare al concetto. Per anticipare alcuni dati, potremmo sintetizzare che ci si muove tra un nulla di matrice materialistica, uno spazio metafisico al quale tutte le cose aspirano, nientificandosi, e un nulla mistico, d’ascendenza anche biblica, in cui tutte le cose si annullano, totalizzandosi. Due esperienze conoscitive antitetiche, ma che si rincorrono con costanza per tutta la complessa e vertiginosa storia del nulla, tra poesia e filosofia (una storia, soprattutto filosofica, raccontata con efficacia da Sergio Givone in un volume laterziano del 1995). Un punto di passaggio fondamentale, naturalmente, resta Leopardi, secondo il quale, per dirla con Luigi Baldacci, «il nulla che circonda le cose (e fa si che siano cose) […] esiste: è il solido nulla di sempre, non è una lente colorata; o forse sì, è proprio una lente, una peculiarità della sua mente nientificante: ma per lui è una realtà oggettiva o […] biologica». Un dato di fondo è comune: il nulla diventa una prospettiva privilegiata per conoscere, parlare ed esperire le cose del mondo (sia le cose immanenti sia le cose-ultime).

Oggi esce, per le edizioni bolognesi di Pàtron, una monografia firmata da Daniela Baroncini, intitolata: Pascoli e la vertigine del nulla. Senza lesinare encomi, credo si tratti davvero di un nuovo passaggio fondamentale per gli studi del pascolismo, e soprattutto per la storia della fortuna del Pascoli nella modernità (e anche nella post-modernità). Dico “nuovo” perché, evidentemente, eravamo già al corrente del saccheggio, dal punto di vista soprattutto linguistico, a cui l’opera pascoliana è stata sottoposta. Non stiamo a ricordare i fondamentali sondaggi di Bonfiglioli, Beccaria, Mengaldo (per Montale, ma non solo) e gli studi accuratissimi di Nava (per Moretti, Rebora, e per molti altri). Si è parlato, come noto, di pluri-grammaticalità, di “rivoluzione inconsapevole”, e di tante altre facce del prisma pascoliano. Un prisma ricco e plurale che forse appare ancor più seducente e fascinoso proprio per questa, starei quasi per dire, ossimorica, o antinomica, pluralità stessa.

Baroncini perlustra il motivo del nulla. E ci dice chiaramente che l’idea di indagare a fondo la presenza di questo tema nella poesia del Pascoli è partita lavorando sull’opera poetica di Giorgio Caproni (a cui la studiosa ha dedicato la monografia: Caproni e la poesia del nulla, Pisa, Pacini, 2002). A cui poi si è affiancato con semplicità il nome di Ungaretti (non sto a ricordare i numerosi e preziosi interventi ungarettiani della studiosa). Dunque un Pascoli poeta della vertigine del nulla come lente per comprendere anche gli archetipi di un pensiero poetico che trova origine in una pluralità di direzioni.

E partiamo da queste direzioni. Anzitutto il confronto col mondo antico, in particolare con i Poemi conviviali (cfr. i capitoli Pascoli e l’inquietudine del classico e Ombre dal nulla nei Poemi conviviali). Si alternano, recuperando un sentire classico intimamente inquieto, un senso profondo di «labilità» e uno «spaesamento cosmico». Baroncini richiama il lessico della «srealizzazione» per mostrare un’ampia gamma semantica che va dai «silenzi opachi» alla rilkiana «ardua miniera delle anime». Evidentemente il nome di Rilke, più volte richiamato nel volume, serve a collocare Pascoli all’interno di un contesto europeo ove l’antico non è semplice superfetazione di un senso comune da maneggiare in esplicita chiarezza archeologica, bensì un territorio oscuro dal quale derivano smaniose velleità catabasiche e accumulazioni del senso dell’ignoto. Pensando, in particolare, all’Ultimo viaggio dei Poemi emerge con lucidità il fine di una «indagine conoscitiva votata al naufragio del senso». Penetrare l’antico consente dunque a Pascoli di sopraggiungere e reificare in qualche modo l’«inconoscibile», che è «silenzio», che è «ebbrezza del nulla». Un tutto che sembra inequivocabilmente condurre al naufragio, altra metafora centrale nei sondaggi di Baroncini, alla perdita di una totalità mai più esperibile. Lo specchio dell’antico è inoltre, in questo Pascoli, il «tramonto del mito» e con esso «dissoluzione dell’io». Si tratta di vedere un destino di annientamento e di oblio che l’esperienza del mito torna a vivificare attraverso la forma di una riscrittura sospesa fra rêverie dell’indicibile e agnizione del vuoto.

Di qui il confronto col motivo dell’innocenza, centrale nella poetica ungarettiana (cfr. Pascoli e Ungaretti: la poesia dell’innocenza). Perché se esiste un’innocenza di sguardo e di percezione non può che essere distante nel tempo (e forse anche dal tempo!), verso uno spazio del vivente privo di memoria, pre-ordinato in un oblio ancestrale da cui tutto scaturisce. È «l’idea dell’abisso della verità, da raggiungere attraverso il pensiero ingenuo», del Fanciullino pascoliano, ed è anche il «mito dell’origine» che si manifesta come «tensione al “paese innocente”» nel «motivo della memoria» del Sentimento del tempo di Ungaretti. La memoria quindi, tra Pascoli e Ungaretti, diventa anche un dispositivo di recupero, diremmo, ontologico. Serve ad attingere una verginità delle cose stando nella consapevolezza di una irrimediabile perdita. È questo un contrasto vertiginoso e annichilente (cfr. La vertigine del nulla nei Canti di Castelvecchio).

Il vuoto del mito antico, la fragilità dell’esistente, l’innocenza del tempo sono tutti motivi che dialogano, oltre che con la tradizione occidentale, anche con l’antico oriente (cfr. Pascoli, Poe e l’oltre e Pascoli e l’oriente). In particolare con alcuni testi della cultura sanscrita che sappiamo essere stati letti e studiati da Pascoli. Baroncini torna più volte su questo intreccio culturale, e insiste sul ruolo giocato dai temi del Nirvana e del Rishi, ossia «il saggio che cerca il silenzio assoluto, l’oblio e il nulla». Di mezzo ci sono le opere di Schuré (fondamentale anche per d’Annunzio e per tanta altra cultura europea di fine secolo), di De Gubernatis, di Ernst Haechel, etc. L’affacciarsi di tale ambiente culturale, certamente filtrato da Schopenhauer, fa riflettere con maggiore apertura sulle modalità con cui Pascoli affronta il motivo del nulla. Non si tratta quindi solamente di tentare una definizione ontologica del tutto, ma anche di verificare delle esperienze, soggettive, del tempo e della vita delle cose. Una verifica fatta sul microcosmo, ma anche rivolta agli aspetti dell’infinito dell’universo. E qui si apre un’ulteriore prospettiva centrale nel lavoro di Baroncini: il Pascoli poeta astrale e cosmico.

Altro motivo conduttore dell’intero libro, l’aspetto astronomico trova spazio di approfondimento in due capitoli: Pascoli, l’astronomia e il nulla cosmico e Figure della morte nella poesia cosmica di Pascoli. Lo sguardo del poeta verso il cielo notturno «attesta un’attrazione speciale per l’astronomia». Baroncini in più occasioni richiama i titoli di volumi presenti nella biblioteca di Castelvecchio, fondamentali per ricostruire la genesi culturale del poeta, soprattutto per questi settori disciplinari che evidentemente esulano dalla sua formazione universitaria. Tra i nomi più importanti e celebri: Alexander von Humboldt, Max Wilhelm Meyer, Camille Flammarion. Quest’ultimo, in particolare, grande divulgatore in terra di Francia, è anche autore di volumi sulla morte, sul mistero dell’oltre-vita, che certo possono aver agito su particolari interessi pascoliani (cfr. il motivo dei morti). Ma ai nomi degli scienziati sono poi da accostare quelli dell’onnipresente Leopardi, e quello di Edgar Allan Poe, in particolare per il suo poema cosmogonico Eureka (che Pascoli dichiara di aver letto nella versione di Baudelaire). Di quest’opera Baroncini cita anche un passo molto denso sulle «descrizioni dei “vuoti”», in relazione alla Galassia, che certo è rimasto nella memoria astrale pascoliana. Ed è significativo che l’approccio al cielo stellato sia principalmente orientato verso le percezioni dell’infinito, della vertigine e del vuoto, e quindi della catastrofe universale. Quella, per ricorrere a un esempio significativo, che Pascoli inscena nel secondo canto del Ciocco (variata poi nel Bolide). Tali immagini, ricorda la studiosa, a un certo punto diventano per il poeta una vera e propria ossessione, soprattutto a partire dai Nuovi poemetti, dove si susseguono continue «visioni di baratri, burroni, precipizi, abissi, nebbia e ombra». La contemplazione si allea con la vertigine; e il senso di vacuità delle cose del mondo e del destino trova presentificazioni costanti nel baratro verticale della caduta e dell’oblio delle certezze (ancora il motivo del naufragio). I motivi astronomici si legano così alla fantasia apocalittica e al tema della morte: «la contemplazione del cielo notturno diventa riflessione sul destino dell’uomo e dell’intero pianeta» (chissà che anche questo motivo non possa aver agito sul Montale dei primi versi di Personae separatae dalla Bufera e altro).

Assenza, evanescenza e vacuità sono dunque figure dell’esistenza che Pascoli ha via via intrecciato, confrontandosi col mito antico, con l’oriente, con atmosfere apocalittiche e con il cosmo. Il vuoto e il nulla si combinano come forme dell’annientamento, non solo ultimo, quello della morte, ma anche come presenze (ossimoriche) angosciose dello «smarrimento esistenziale» (così centrale poi nella poesia di Caproni; cfr. Pascoli e Caproni: la vertigine del nulla). Si alternano abisso, terrore e «disperazione calma, senza sgomento» (ancora Caproni), all’interno di un dialogo coi tempi del moderno per i quali Pascoli è stato «profeta» di inquietudini e di immagini di verità. In questo, il libro di Daniela Baroncini racconta in modo dettagliato una presenza fondamentale, da ripensare e rivisitare, specie laddove la poesia si è trovata alle soglie di un’esperienza-limite che ha contribuito in modo radicale ai terremoti della soggettività e del senso profondo della presenza dell’umano nel mondo.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.