Appunti sulla «funzione-Pirandello»: percorsi nel romanzo. Gli sconfinamenti della verità

Appunti sulla «funzione-Pirandello»: percorsi nel romanzo

Gli sconfinamenti della verità


di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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Esiste, innegabilmente, nella narrativa italiana del Novecento una «funzione Pirandello»1. Scorrendo le pagine di uno dei libri di critica letteraria più importanti del secolo scorso, Novecento passato remoto di Luigi Baldacci2, è facile imbattersi in appunti, definizioni, concettualizzazioni che fanno carico al sistema pirandelliano, il quale non è solo un punto di partenza, una sorgente di temi o motivi a cui abbeverarsi, ma è anzitutto un modello ermeneutico utile a discernere i perimetri di dicibilità e di veridicità del reale e, ancor più nel dettaglio, è una fondamentale bussola per orientarsi nell’intricato rapporto dell’individuo con le cose del mondo. Ed è proprio questo l’addendo nevralgico che giustifica il senso per cui Pirandello ha provocato circuiti paradossali di conoscenza validi per discriminare luci e ombre che il soggetto intravede nell’orizzonte del reale, soprattutto nell’epoca moderna3. Luci e ombre che, indistintamente, appartengono tanto alla realtà esterna quanto a quella dell’ipertrofico e disgregato soggetto4.

Pirandello, tra pagina narrativa e teatrale, immagina, concretizza, dà la parola a uomini carichi di un «istinto dubitativo» che si trasforma in avventura, in eroismo del dubbio e della contraddizione dell’identità. L’aporia appare nel continuo farsi e disfarsi degli abiti soggettivi: i segni distintivi dei personaggi sono prima di tutto l’incerta tenuta del principio di non contraddizione e, in secondo luogo, la possibilità di includere, parossisticamente, nel modo di essere il principio del terzo incluso (qualcosa che, ben amalgamato, fa pensare alla lucidità del folle su cui tornerò).

Vedremo in questo modo anche che fine hanno fatto il destino e l’eroismo individualistico (d’ascendenza romantica). I dati di partenza sono notissimi. Il romanzo novecentesco, di cui quello pirandelliano è appunto modello, funzione determinante, si caratterizza per tre fattori essenziali: 1) la rottura del nesso di causalità tra i fatti oggetto di narrazione, quindi la perdita di fiducia nelle certezze conoscitive su ciò che accade nel mondo; 2) di conseguenza la natura iper-frammentata del nuovo individuo problematico, inaccessibile, inquieto; e, infine, 3) la negazione di un tempo oggettivo esterno (l’antico tempo del mito e dell’epopea) in cambio di una temporalità privata, interiore, che diventa spazio maggiore ed elastico di occasione esistenziale5. La vita contraddice le leggi della logica tradizionale, e Pirandello lo dimostra a partire dai territori destabilizzati della soggettività. Ha scritto Alain Robbe-Grillet che «un romanzo non è più l’avventura vissuta da uno o da diversi personaggi, è l’avventura stessa del romanzo nel suo farsi». Per Pirandello va solo aggiunto, o modificato, che un romanzo è l’insieme delle avventure, spesso contraddittorie, vissute da un unico uomo: il romanzo è l’insieme stesso delle avventure nel costituirsi e nel destituirsi delle certezze del personaggio, nonché l’«esasperazione del contrasto»6.

Detto questo si può anzitutto affermare la sussistenza di un esistenzialismo pirandelliano che ricava la sua più felice realizzazione nell’esperimento della «gettatezza» continua e nella trazione del dubbio. Un esempio lampante di tale disposizione lo si ritrova nel testo, edito postumo, Informazioni sul mio involontario soggiorno sulla terra, in cui lo scrittore specifica la necessità della forma che ci appartiene e ci dice, commenta Remo Bodei, che «non possiamo ovviamente evitare di essere quel che siamo, nascendo e crescendo in una determinata epoca, in un determinato paese, frutto di determinate cause e circostanze»7.

L’esperienza, in Pirandello, non fa l’uomo, e neppure l’uomo fa l’esperienza. È così che scatta la fuoriuscita dalla prosa del mondo. L’esperienza, invece, fa se stessa, e l’uomo la osserva sul piano di infiniti specchi deformanti. È una deformazione espressionistica? In buona parte. I mostri che abitano il buio della coscienza non sciorinano i tagli della superficie per aggredire il reale, bensì trovano convergenze anfibologiche fra lacerazioni esterne, metaforiche, e interiori, mentali e psichiche. Questi mostri mutano in possibilità annichilenti dell’esistenza stessa, tutte fiorenti all’unisono, vuote all’appello decisivo, e debitrici di un’ossessiva e assordante continuità del quotidiano. C’è qualcosa di kafkiano in questo pirandellismo di marca, e anche qualcosa di beckettiano. C’è il necessario e tragico risvegliarsi altro da sé, così come l’irrompere dell’altro nella coscienza. E c’è il messaggio dell’attesa; anche se nel caso pirandelliano al posto del Lucky di Beckett (ma penso anche a Pim) irrompe l’ombra del sé; l’ombra che è il vero non-esistente delle storie del nostro autore. E, infine, c’è l’assurdo, ossia la negazione di ogni rapporto stabile tra uomo e mondo, ossia il cuore di una specifica Erlebnis confacente alle filosofie della crisi d’inizio secolo8.

Per dare un minimo di credito testimoniale all’eredità novecentesca di questa «funzione-Pirandello», senza perdersi tra arcipelaghi infiniti, può bastare un campione, anche minimo, che prelevo ancora dai sondaggi di Baldacci. Si tratta della conclusione del racconto I colori e le forme di Moravia, dalla raccolta Una cosa è una cosa: «Ma, dunque, allora, basta rivolgere la propria attenzione alle cose perché queste diventino immediatamente assurde?». Ma ci si potrebbe dirigere anche verso Alvaro, Brancati, Bontempelli, naturalmente, e persino verso Gadda. Mi limito però a questa nota soltanto.

Un ultimo appunto ancora generale. Guido Guglielmi, discutendo della notevolissima novella C’è qualcuno che ride, ha scritto che questa «del resto non è il racconto di qualcosa, ma della rimozione di qualcosa»9. Userei tale specifica e precisa definizione per etichettare in modo universale qualsivoglia forma di pirandellismo in nuce, in atto e in progress.

Osserviamo ora più da vicino la macchina narrativa pirandelliana. Procederò planando un po’ qua e là, facendomi soccorrere, dove necessario, dalla critica che su Pirandello ha prodotto risultati davvero magistrali. Lascerò, come già indicato, l’ultimo romanzo sullo sfondo, senza addentrarmici in questa sede. Ribadendo però, con fermezza, che Uno, nessuno e centomila è il romanzo-saggio che incapsula la quasi totalità dei problemi estetici, letterari e conoscitivi dell’universo pirandelliano (forse la sua opera-mondo?). Viaggiare fra gli altri testi è prima di tutto un modo per capire meglio, a posteriori, l’unicità di questo testo la cui stesura ha occupato l’autore almeno dal 1909/10 sino al 1925/26.

L’esordio romanzesco avviene, come noto, nei pressi dell’aura naturalistica di Luigi Capuana. Si tratta dell’opera dapprima intitolata Marta Ajala, edita in volume nel 1893, e poi a puntate, da giugno ad agosto 1901 sulla «Tribuna» col titolo definitivo L’esclusa10. Come segnalato dalla critica, sin da questo primo lavoro è in atto un processo di demistificazione dell’orizzonte individuale. A cui corrisponde l’idea che la realtà altro non sia che un circuito di «contraddizioni» (così Pirandello stesso)11 al quale è necessaria una nuova logicità dell’esistenza «varia e complessa», irriducibile a unica istanza. Lo scontro delle forme soppianta la dicotomia delle sostanze, il destino dell’eroe retrocede dinanzi al potere caotico di dettagli e incongruenze del quotidiano12, e così i confini della verità si amplificano senza possibilità di controllo.

Pensiamo, in anticipo nel percorso, alla realizzazione, fittizia, della verità che il protagonista del Fu Mattia Pascal compie nei riguardi di Adriano Meis, finalizzata alla costituzione di una nuova ipotetica «gettatezza» esistenziale. Il soggetto vivo ipoteca il soggetto morto attraverso l’appropriazione di un nome13. Al soggetto morto spetta un nome che è identità del soggetto vivo14. Nel mezzo sorgono infinite vie e tensioni che sanno, in alternanza, tanto di tragedia quanto di commedia (o farsa). Così l’obiettivo passa dal reale allo sguardo sul reale, dalla verità allo scambio con la verità. In termini minimi: dall’esterno all’interiorità (che non è dir poco). Nel rimpiazzo esistenziale (sia esso il cambio di identità di Mattia Pascal sia, come vedremo, l’alienazione di altri personaggi, etc.) cosa resta della forma anteriore? L’incapacità di un’esistenza autentica che quindi altro non diviene che un’ostinazione spettrale.

Ecco così le leggi di una logica distorta del mondo trasformarsi in campioni psicologici che di quelle leggi sono anzitutto modello conoscitivo ed esperienziale. È già evidente dal primo romanzo, L’esclusa, che fra individuo e realtà s’inframmezza una serie di barriere, ognuna delle quali ha una propria forma e possiede, addirittura, sue proprie leggi temporali. Il soggetto che sta di qua dalle barriere ha poco da offrire per eventuali riscritture o manipolazioni delle superfici del reale che obnubilano qualsiasi ipotetico destino di autenticità. Infatti, il soggetto è costitutivo: è sommatoria di movimenti psicologici e di vibrazioni, direi, ancora, esistenziali. Pirandello ha individuato quest’ordine di problematiche assai precocemente. Da subito, non c’è scontro, neo-romantico, tra individuo e mondo. Nonostante ciò un’opposizione permane (e permarrà in tutta la sua letteratura), e gioca la sua battaglia presso due distinti campi: quello della soggettività che si trova a fare i conti con la disinvolta molteplicità del tutto, e quello dell’oggettività (esterna) che ha fenomeni di esistenza da vendere.

Gli anni di edizione dell’Esclusa vedono poi Pirandello impegnato nella stesura del suo secondo romanzo, Il turno (edito nel 1902, ma già terminato nel 1895). Anche qui le forme del reale indugiano consistenza, così da far vacillare in profondità ogni ipotesi intersoggettiva. Il paradigma della teatralità, che è altra cosa dal contenuto più stretto della produzione teatrale medesima, non solo definisce il punto di vista dell’autore sulle faccende della vita e del mondo, ma diventa metafora, direi verità metaforizzata, dei fatti stessi. Sempre nel 1902 esce il secondo volume di novelle, non a caso, intitolato Beffe della morte e della vita: la vita intesa come «beffa» è un modo efficace di ridurre a forma quello che a monte è un radicale sentire pessimistico (d’ascendenza leopardiana e verghiana) e nichilistico che rinforza e nega allo stesso tempo, intrecciandole fra loro, risultanti comiche e tragiche. È l’inizio di una costante contrapposizione, tra affermazione e negazione, tra positivo e negativo, tra continuo e discontinuo.

Un ruolo determinante è ricoperto dal romanzo successivo, Il fu Mattia Pascal, edito sulla «Nuova Antologia» dal 16 aprile al 16 giugno 1904. Per quanto la struttura del testo possa dirsi in parte ancorata a formule ancora ottocentesche, permane una frattura, una scomposizione, che lo trascina con forza verso le inquiete metamorfosi della modernità15. Tale frattura, ripercorrendo il sentiero con Baldacci, a livello tematico, consiste nella paradossale e parossistica convinzione, come per gli antichi stiliti, da parte del protagonista di poter vivere fuori della realtà: la ricerca di un’alterità compiuta da Mattia è attiva in prima istanza mediante l’edificazione di una nuova esperienza temporale del sé, ossia grazie al costituirsi di una nuova memoria (il famoso romanzo nel romanzo). Sconfinamento e sconfitta subentrano nel momento in cui il personaggio si rende conto che le leggi della realtà, comprese – e soprattutto – quelle del tempo (il vivere sociale, l’auto-riconoscimento collettivo, l’identità, etc.)16, non possono essere infrante, e sono esse stesse garanzia della pretesa di potersi isolare da ciò che si è: la temporalità è la vera e propria gabbia (lo sa bene l’Anselmo Paleari del Fu Mattia Pascal che cerca nello spiritismo la cura per offendere la propria transitorietà esistenziale).

Quello sino a qui zoomato sul piano dei contenuti è un cortocircuito che va ricondotto anzitutto a Leopardi (e penso, in particolare, al Leopardi delle Operette morali, ad esempio del Dialogo di Timandro e di Eleandro)17. Pirandello accompagna i suoi protagonisti nei pressi di talune zone-limite, sino allo sfiorare la morte, l’annullamento del sé, del tempo presente e dell’automatismo, a contatto con l’alienazione della coscienza: eppure un oltrepassamento vero e proprio non accade. Né può accadere, perché il limite risolve se stesso, e non altro. Il romanzo «fittizio», ha scritto Guglielmi, «è […] destinato a diventare romanzo vissuto (a naturalizzarsi)», a inscenare una temporalità diversa da quell’altra che il protagonista ha tentato di estinguere. Ciò che Mattia Pascal esperisce è un crogiuolo di paradossi che all’unisono innescano una narrativa dell’ombra, del doppio e del molteplice. È un giocoso, iperbolico, auto-nullificante intreccio di paradossi che divengono, nell’insieme, ancora con Baldacci, coscienza della «fuga in prigione»18, che è fuga nel nome, poiché è il nome stesso che imprigiona l’identità19. La realtà rimane quella che è (il celebre noumeno) e l’ipotesi conoscitiva appare fallace. La coscienza si prende così le sue doverose batoste, e si ritrova in mano schegge di se stessa20. Per non parlare della memoria, massacrata dall’interno, che riemerge con debolezza in abito post-mortem (il “fu” del romanzo).

Il tempo passato è cosa-morta, è, in sé, un niente. Solo così può essere utilizzato per giocare con nuove identità. Il tempo passato è composto da infiniti simulacri del nulla, tutti in attesa di riacquistare un nome. Il sistema figurato è però rischioso, ed è soprattutto di un nichilismo estremo: la realtà potrebbe risultare l’apparente vivificazione di fantasmi inabissati; e così allo svuotarsi del tempo si svuoterebbero l’io e il mondo. Questi, in fin dei conti, sono anche alcuni dei temi più rilevanti della cultura europea novecentesca coeva, e non solo letteraria: la dicotomia tra essere ed esistere; il paradigma dell’inautenticità; la solitudine assoluta e il problema della fine21. In particolare, la correlazione tra autentico e inautentico non ha cittadinanza, secondo Pirandello, nella relazione tra soggetto e realtà, perché non sussiste autentico patto tra parole e cose (molte argomentazioni di Uno, nessuno e centomila reggono proprio su questo punto), e così non è possibile distinguere limpidamente ciò che è autentico da ciò che non lo è. Se, anzi, facessimo un tentativo in questa direzione rischieremmo di scovare solo figure dell’inautentico, anche (e soprattutto) dalla parte della realtà stessa.

Col Fu Mattia Pascal e con il saggio sull’Umorismo dunque Pirandello chiarifica molti problemi soprattutto dal punto di vista metanarrativo22. E una data, il 1908, l’anno in cui pubblica il saggio teorico, è basilare per cogliere gli sviluppi successivi in ambito narrativo (e non solo). Alcuni critici anticipano infatti al 1909 la prima ideazione di Uno, nessuno e centomila. Sono dati molto noti e che quindi sintetizzo rapidamente: la concettualizzazione del sentimento del contrario; la ripresa della tradizione umoristica settecentesca (il cosiddetto «Effetto Sterne»)23. E, soprattutto, l’intuizione di dover ampliare la dimensione metanarrativa, la riflessione, il dettaglio cognitivo e quindi, direi, il sentimento della fuga dal limite, la fuoriuscita da un pensiero illusorio, al fine di carpire le cose di là della superficie (per non dire maschera), verso la vita nuda (l’autentico?). Il motivo dell’umorismo va poi di pari passo con quello del gioco e della logica combinatoria. Temi, questi ultimi due, che cooperano a riconoscere lo statuto del reale. Se l’umorismo crea così infinite parentesi, ognuna delle quali diventa monade sul mondo, il gioco, ha chiarito Guglielmi, dissolve la durata in finzione, «cioè trasforma tutti i significati in simulazioni. Di modo che storia ed esperienza possono sì essere riammesse, ma dopo essere state sottomesse a un processo di teatralizzazione, dopo aver ricevuto lo statuto dell’apparenza»24.

È dunque evidente che il rarefarsi delle idee sul mondo abbia effetti importanti sugli istituti narrativi tradizionali (coinvolti: struttura, tempo e personaggi). Restando sempre al Fu Mattia Pascal basti pensare alla narrazione di tipo circolare, svolta in modo irregolare, che coinvolge soliloqui, riflessioni interiori, soggettive (che ritroviamo tutte in Uno, nessuno e centomila)25; al «controllo metanarrativo» si assomma il «commento metalinguistico»26. Per non parlare poi delle storture del tempo e della temporalità, su cui tornerò.

Un altro carattere, tutto moderno, centrale nello svolgersi della letteratura pirandelliana, è quello del non-finito, e in particolare del lavoro in-fieri, che innerva le prove di romanzo successive al Fu Mattia Pascal, soggette a riscritture significative: I vecchi e i giovani (dell’8 in rivista e in volume nel ’13); Suo marito dell’11, ma ripreso anni dopo col titolo Giustino Roncella nato Boggiòlo e Si gira edito in rivista nel ’15 e ripubblicato dieci anni dopo col titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. Non entro nel merito dei singoli campioni, anche per evitare di ripetere che il non-finito applicato iuxta propria principia tenderebbe o a liquidarsi da solo o a essere talmente frammentario da risultare incomprensibile. Mi limito pertanto a dire che esso, in Pirandello, sino alla prova di Uno, nessuno e centomila inclusa, incarna una pluralità di forme davvero cospicua. E non solo perché diverse opere sono in effetti non compiute, interrotte, ma anche perché l’anima del testo vive e sopravvive di là da se stessa. Mi spiego, in sintesi. Il gioco della riscrittura non è esclusivamente un dispositivo di modifica, di smussamento, di assemblaggio nell’eventualità, è anche ordine del contenuto della pagina, rappresenta una contaminazione dei generi27.

Alla luce di questa panoramica, limitata alle prove romanzesche, credo sia possibile intendere la «funzione-Pirandello», da cui ho preso le mosse, un fenomeno, ancor prima che culturale, anzitutto istintivo, conoscitivo, epistemologico, allo stesso tempo. Uno dei caratteri più felici della scrittura pirandelliana è proprio quello di aver saputo creare un cortocircuito tra l’istinto e la combinazione (che è altra cosa dall’istinto della combinazione, ad esempio di Gadda). E di averne così tratto formule, maschere, ombre, specchi sempre pronti a descrivere uno scetticismo ontologico fondante.

È in quest’ordine di problemi che Pirandello, si torna a ripetere, trattiene qualcosa di Leopardi e qualcosa di Verga28; e anche di De Roberto. Quando lo scrittore si accinge alla prova dei Vecchi e i giovani, ad esempio, tende in modo evidentissimo alla direzione del negativo. Guarda la società per quella che è, con le sue regole, le sue norme valorizzatrici, per palesare che ciò che accade equivale esattamente a un niente. Pirandello ha preso un oggetto, ormai pressoché d’antiquariato, il romanzo storico, e lo ha completamente svuotato rispetto alle sue vitalità ottocentesche. Dove va a finire il destino del singolo in mezzo al movimento abissale della storia, e quindi dell’accadere, nessuno lo può sapere, né tantomeno immaginare. Il senso teleologico è perduto. Ha scritto Pierluigi Pellini, persuasivamente, che: «l’esperienza non insegna niente. Gli avvenimenti storici non cambiano niente. Le rivoluzioni altro non sono che travestimenti carnevaleschi, altro non fanno che coprire il gioco degli egoismo e l’eterno amore della roba»29. Il critico parla di Verga. Ma come non rimuginare allo stesso modo guardando verso la pagina di Pirandello. S’aggiunga inoltre un quesito: gli elementi richiamati da Pellini non sono in fondo le medesime angherie concepite dai dissidi tra soggetto e realtà che anticipano lo sconfinamento della verità? Le stesse angherie che sentiva e pensava Leopardi? E non sono, in fin dei conti, quelle che sentiranno tanti benefattori in prosa della gloriosa post-borghesia novecentesca? (vedi Moravia in primis).

Il romanzo I vecchi e i giovani liquida qualcosa. Offre un senso di attrito e allo stesso tempo di malinconia. Sembra un atto dovuto nei riguardi di un Ottocento pur consapevole della ruvidità del reale e che ha saputo affermare questa verità con la fermezza e l’anti-gloria dell’uomo rimasto senza Dio (il Mastro-don Gesualdo raggiunge tensioni nichilistiche difficilmente pensabili altrove). Ora, a quell’uomo, si sostituisce quello rimasto senza “io”: ed ecco i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, il romanzo più leopardiano e nichilistico di Pirandello, in cui la coscienza del vuoto si eleva a potenza, a causa della nuova forma di alienazione imposta dalla riproducibilità tecnica. Il vero nucleo drammatico del romanzo consiste nel fatto che la macchina, il demone moderno, ha inficiato anzitutto il gesto creativo, ancor più che il gesto umano: tutto è dunque mistificato (non a caso i Quaderni sono definiti da Guglielmi il «romanzo del destino dell’arte (della decadenza dell’aura) nell’epoca moderna»30). Se per la realtà le speranze erano pressoché già perdute a partire dall’Esclusa figurarsi ora che viene destituita di ogni responsabilità conoscitiva persino l’arte stessa. La realtà è spinta verso l’evoluzione di gesti divenuti simboli di una progressiva alienazione che, ricordo ancora, lascia in stato spettrale il coagulo delle occasioni esistenziali soppresse, nascoste, dimenticate e negate31.

Dalla scrittura-memoria di Mattia Pascal al gesto-meccanico dell’operatore Gubbio: da un personaggio che tutto sommato ancora cercava una parvenza esistenziale a uno che ha perduto qualsiasi idea di progetto. A poco a poco, la de-personalizzazione colpisce tutti i territori dell’arcipelago interiore. Nei Quaderni, così come in molte altre situazioni pirandelliane, sopraggiunge infine il silenzio32. Il «buco nel cielo di carta» del teatrino di marionette del Fu Mattia Pascal si trasforma in afasia post-traumatica, nel tragico «silenzio di cosa»: la verità ferita, è stato detto, non è di natura psicologica, bensì ontologica. Ogni proposito conoscitivo totalizzante fallisce al cambiamento vissuto dalle forme della vita moderna. La macchina sembra il perfetto sostituto artificiale del famoso macinino metaforico del caffettiere filosofo di Giuseppe Gioacchino Belli, un destino univoco, un mattatoio delle forme, tutte prese nel loro costituirsi per opposti: reale contro apparenza; soggetto contro realtà e, soprattutto, verità contro dissimulazione. La presenza di Leopardi si sente sin dalle primissime pagine del romanzo in cui Serafino si adagia a riflettere sulle differenze «naturali» tra uomini e bruti, rivendicando per questi ultimi una certa dose di inconsapevole felicità, dettata dal dominio dell’istinto (che, nel loro caso, non si può sovrapporre ad alcuna combinazione), rispetto alla ragione auto-riflettente, tipica degli uomini, esseri tutti destinati, chi più chi meno consciamente, a un’impotenza refrattaria.

Realtà e finzione si accumulano così nel più ruvido dinamismo della casualità, come nel finale dei Quaderni. Il mondo si disarticola al meccanismo della razionalizzazione. E l’afasia, anche apocalittica se si vuole, molto vicina a quella del capitolo finale della Coscienza di Zeno di Svevo, a cui l’uomo è destinato, coincide con l’esperienza panica descritta nel finale di Uno, nessuno e centomila. Se l’obiettivo tradizionale del romanzo era quello di dare forma a situazioni esistenziali, la via pirandelliana porta all’idea di una de-formazione totalizzante, caricatasi a poco a poco di codici espressionistici significativi, nonché di una profonda nullificazione (oltre i confini della verità), che sono tutti nell’insieme l’unico modo, di memoria post-ulissiaca, per accertare l’universo magmatico che persiste sotto i nomi fittizi delle cose del mondo.


NOTE

1 Questo discorso sul romanzo pirandelliano nasce da un lavoro di commento a Uno, nessuno e centomila in corso di pubblicazione presso l’editore fiorentino Edimedia. Per questo motivo, il discorso verte sulla produzione pirandelliana che precede la pubblicazione (si badi: non la stesura) dell’ultimo romanzo. Per una lettura più dettagliata di quest’ultimo testo rimando all’introduzione e alle note di commento dell’edizione a mia cusa, Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Firenze, Edimedia, 2022. Specifico inoltre che il sottotitolo degli appunti qui presentati sul romanzo pirandelliano rimanda a un volume fondamentale di Remo Bodei, Sconfinamenti della verità, Roma, Laterza, 2015.

2 Cfr. Luigi Baldacci, Novecento passato remoto. Pagine di critica militante, Milano, Rizzoli, 2000.

3 Faccio anzitutto appello al fondamentale volume di Giancarlo Mazzacurati, Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1987. Sul concetto evocato di «funzione Pirandello» o pirandellismo cfr. il capitolo Una modernità permanente di Nino Borsellino, Il dio di Pirandello. Creazione e sperimentazione, Palermo, Sellerio, 2004, pp. 13-39.

4 Poche volte come nel periodo a cavallo tra i due secoli letterati e scienziati si sono stretti la mano per determinare qualcosa in più sull’essere umano. Il risultato è la rappresentazione di infiniti destini personali, per riprendere il titolo di quello che ancora oggi è forse lo studio più importante su questi temi: Remo Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, 2009. Non entro nel merito delle conoscenze specifiche di Pirandello né sulle letture della sua opera svolte in chiave psicoanalitica. Mi limito solo a ricordare la sua diretta conoscenza del volume di Alfred Binet, Les altération de la personnalité (1892), nonché dell’Essai sur le génie dans l’art di Gabriel Séailles (1883). Per un quadro generale cfr. almeno: Gian Paolo Biasin, Malattie letterarie, Milano, Bompiani, 1976; Laura Nay, Fantasmi del corpo fantasmi della mente. La malattia fra analisi e racconto (1870-1900), Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1999 e Edwige Comoy Fusaro, Le nevrosi tra medicina e letteratura. Approccio epistemologico alle malattie nervose nella letteratura italiana (1865-1922), Firenze, Polistampa, 2008.

5 Nei tre i punti elencati si esplicita una frattura che è dispersione delle forme di conoscenza. Ha spiegato in modo inequivocabile Adorno che «davanti a ogni enunciato contenutisticamente ideologico è ideologia già la pretesa del narratore che il corso del mondo sia essenzialmente tale da permettere l’individuazione, come se l’individuo, coi suoi sentimenti e con i moti del suo animo, fosse ancora capace di accostarsi al fato, come se l’interno del singolo ancora fosse capace immediatamente di quale cosa» (corsivo mio); e qualche pagina dopo aggiunge, facendo i nomi di Proust, Gide, Mann e Musil, che nel nuovo romanzo «la riflessione spezza la pura immanenza formale»; Theodor W. Adorno, Il narratore nel romanzo contemporaneo, in Id., Note per la letteratura [1974], introduzione di Sergio Givone, Torino, Einaudi, 2012, pp. 27-33, cit., pp. 28-31.

6 Traggo l’espressione dal saggio di Alfonso Berardinelli, Il personaggio nella narrativa del Novecento, in Id., Non incoraggiate il romanzo. Sulla narrativa italiana, Venezia, Marsilio, 2011, pp.15-26, cit. p. 23.

7 R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, cit., p. 140.

8 A partire dalla «crisi del soggetto», dal «disgregarsi dell’identità individuale salda e unitaria» sino alla «condanna a un vuoto spaventoso» ha compiuto la sua lettura di tutti i romanzi pirandelliani Guido Baldi, Pirandello e il romanzo. Scomposizione umoristica e «distrazione», Napoli, Liguori, 2006. Il volume è fondamentale anche per comprendere le scelte narratologiche operate di volta in volta da Pirandello.

9 Guido Guglielmi, Nota sull’ultimo Pirandello, in Id., La prosa italiana del Novecento. Umorismo Metafisica Grottesco, Torino, Einaudi, 1986, p. 146.

10 Cfr. nel dettaglio l’introduzione di Giuseppe Nicoletti a Luigi Pirandello, L’esclusa, Firenze, Giuni, 1994.

11 Ha scritto Baldi che «la vista più acuta, in quanto svela le finzioni e induce a disgregare la rete delle consuetudini, porta con sé necessariamente uno spirito di contraddizione, un’impossibilità di adeguarsi alle convenzioni sociali, l’impulso a ribellarvisi, a scardinarle»: i prodotti principali sono la «mancanza di senso» e «l’inconsistenza del reale»; G. Baldi, Pirandello e il romanzo, cit., pp. 72-73.

12 Fu, già nel 1922, Adriano Tilgher a insistere sul fatto che la letteratura pirandelliana sia in sostanza un’«antitesi» tra «Vita» e «Forma». Ma, come giustamente commenta Angelo Raffaele Pupino, quella di Tilgher è una «interpretazione totalizzante, che già di per sé mette il lettore in guardia dal sottoscriverla. Ma non che sia perciò ricusabile»; A. R. Pupino, Il principio di non-contraddizione. Eclissi, in Id., Pirandello. Poetiche e pratiche di umorismo, Roma, Salerno, 2013, p. 233. Cfr., sull’antitesi di riferimento, anche le riflessioni di Giorgio Bárberi Squarotti, Essere «nessuno» come ventura delle ventura, in Id., La forma e la vita: il romanzo del Novecento, Milano, Mursia, 1987, pp. 54-74.

13 Per quanto riguarda l’identità dei personaggi pirandelliani, Mazzacurati ha indicato due estremi entro i quali il magma vitale dei disordini psichici inscenati qua e là sollazza: Amleto e Tristram Shandy. Aggiungerei anche il nome di Pinocchio. Il burattino di Collodi è un fratellastro dei vari Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda, etc., non solo per buffe catastrofi interiori a partire dal naso, ma anche per il niente travestito a carnevale che adombra ogni via, ogni piazza, ogni spazio di esistenza, ogni, ha scritto Dieter Richter, «non plausibilità della vita»; cfr. D. Richter, Pinocchio o il romanzo d’infanzia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2002, p. 139.

14 Ha specificato Bodei che «quando ci accoglie nel suo seno, la società ci identifica attraverso un nome che ha già una storia e che ci deve stabilizzare in un ruolo, trasformare in individui. Ma il nome – e l’io permanente che esso dovrebbe aiutare a costruire – si adattano solo alle cose morte», e poco oltre aggiunge che «il nome non è altro che uno dei molteplici meccanismi di produzione e mantenimento dell’identità e della personalità, costruzione sorta dai materiali che ciascuno trova»; R. Bodei, Destini personali. L’età della colonizzazione delle coscienze, cit., pp. 141-142.

15 Potremmo anche richiamare la celebre distinzione tra epica della realtà, per l’Ottocento, ed epica dell’esistenza, per il Novecento, operata dal Giacomo Debenedetti analista del romanzo contemporaneo (Il romanzo del Novecento, presentazione di Eugenio Montale, Milano, Garzanti, 1971). La distinzione principale che ne consegue, e che ha un posto centrale nel nostro sintetico percorso, è quella tra tempo della realtà e tempo dell’esistenza. Per una discussione sul rapporto tra Pirandello e la modernità che tiene conto di questi problemi cfr. Riccardo Castellana, Finzione e memoria. Pirandello modernista, Napoli, Liguori, 2018.

16 Marziano Guglielminetti ha scritto che «Pirandello non esclude la possibilità della perdita di valore del tempo stesso come dimensione di ordine nello svolgersi dei fatti», pensando ai rapporti con la narrativa naturalistica. Quello che ne consegue è primariamente una perdita di controllo sulla totale dicibilità del reale; cfr. M. Guglielminetti, Il soliloquio di Pirandello, in Id., Il romanzo del Novecento italiano. Strutture e sintassi, Roma, Editori Riuniti, 1986, pp. 55-97, cit. p. 71. La lunga fedeltà di Guglielminetti all’autore siciliano confluisce nell’importante monografia Pirandello, Roma, Salerno, 2006.

17 L’argomento è assai complesso, e più volte è stato ripreso dalla critica sotto molteplici aspetti. Cfr. almeno Beatrice Stasi, Apologie della letteratura. Leopardi tra De Roberto e Pirandello, Bologna, Il Mulino, 1995 e A. R. Pupino, Pirandello e Leopardi, in Id., La maschera e il nome. Interventi su Pirandello, Napoli, Liguori, 2001, pp. 129-145.

18 G. Guglielmi, Poetiche di romanzo in Pirandello, in Id., La prosa italiana del Novecento, cit., pp. 85-113, cit., p. 90.

19 Mazzacurati parla di «stato di astratta detenzione» e di «costrizione istituzionale» come di elementi costitutivi dei personaggi pirandelliani; G. Mazzacurati, Antropologia del personaggio novecentesco, in Id., Pirandello nel romanzo europeo, cit., p. 121.

20 L’immagine della coscienza scheggiata e infranta rimanda al tema dello specchio deformante e disgregatore. Maria Antonietta Grignani, ragionando dell’espressionismo della «visione» in Pirandello, ha associato l’immagine alla commedia di Franz Werfel, Spiegelmensch (L’uomo-specchio), del 1920, in cui «un colpo di pistola manda in frantumi la superficie riflettente e libera così i frammenti della scissione, avvenuta fra uomo e società e all’interno dell’uomo»; cfr. M. A. Grignani, Retoriche pirandelliane, Napoli, Liguori, 1993, p. 127 ss.

21 Un discorso aperto su questi temi, a partire dal romanzo contemporaneo, si legge in Enrico Testa, Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Torino, Einaudi, 2009. Cfr. inoltre la ricca discussione di Vittorio Coletti, Dietro la parola. Miti e ossessioni del Novecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2000.

22 Per un’analisi approfondita del saggio sull’Umorismo cfr. il già citato studio di A. R. Pupino, Pirandello. Poetiche e pratiche di umorismo, cit.

23 Cfr. Effetto Sterne. La narrazione umoristica in Italia da Foscolo a Pirandello, a cura di G. Mazzacurati, Pisa, Nistri-Lischi, 1990.

24 G. Guglielmi, Poetiche di romanzo in Pirandello, in Id., La prosa italiana del Novecento, cit., p. 89.

25 Analisi puntuale, tanto del sistema narrativo quanto di quello linguistico del romanzo in questione, è quella di Maurizio Dardano, Il fu Mattia Pascal, in Id., Leggere i romanzi. Lingua e strutture testuali da Verga a Veronesi, Roma, Carocci, 2011, pp. 83-122.

26 Ivi, p. 85.

27 Sulle dinamiche del non-finito nella letteratura moderna cfr. Non finito. Opera interrotta e modernità, a cura di Anna Dolfi, Firenze FUP, 2015.

28 Cfr. Nicola Merola, La linea siciliana della narrativa moderna. Verga, Pirandello & C., Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007.

29 Pierluigi Pellini, Il senso del découpage. Sulla genesi di «Mastro-don Gesualdo», in Id., Naturalismo e modernismo. Zola, Verga e la poetica dell’insignificante, Roma, Artemide, 2016, pp. 157-181, cit., p. 181.

30 G. Guglielmi, Poetiche di romanzo in Pirandello, in Id., La prosa italiana del Novecento, cit., p. 99.

31 Un orizzonte di senso richiamato in modo radicale anche dal Walter Benjamin dell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica.

32 Ha scritto M. A. Grignani che «sempre nei narratori autodiegetici dei romanzi pirandelliani l’approdo al silenzio segue la negazione dell’esperienza e la scoperta di una temporalità come baratro della coscienza e della memoria. Serafino Gubbio alla fine dei Quaderni tace, non tanto a causa del truce dramma che ha dovuto filmare, quanto per aver perduto il passato o tempo interiorizzato»; M. A. Grignani, Il farsi e il disfarsi del linguaggio: retorica del discorso e del silenzio, in Ead., Retoriche pirandelliane, cit., pp. 83-106, cit., p. 98, n. 20. Sul romanzo cfr. anche Luca Stefanelli, La tigre e il ragno. Percorsi intertestuali tra i Quaderni di Serafino Gubbio operatore di Pirandello e Al di là del bene e del male di Friedrich Nietzsche, in «Strumenti critici», 148, 2018, pp. 497-515. A Stefanelli si vede l’edizione critica L. Pirandello, Si gira… (1916)/ Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Milano, Mondadori, 2020, reperibile on-line al link: [https://www.pirandellonazionale.it/3d-flip-book/si-gira-_edizione-critica/].

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.