Zibaldone dell’entropia. Velio Carratoni, “All’impazzata”

Velio Carratoni, All’impazzata, Roma, Fermenti, 2023, pp. 255, € 18,00


di Stefano Lanuzza

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Hanno un’esemplare sintonia le illustrazioni-palinsesto (immagini ‘da raschiare’ per scoprirne altre) di Giovanni Fontana, artista multimediale, con le pagine quanto mai eterogenee di All’impazzata (Roma, Fermenti, 2023, pp. 255, € 18,00) di Velio Carratoni: sbrigliati soliloqui o flussi di coscienza di un Io che si disloca nei gangli di un reale sincronico al caos e declinato nell’ilare disincanto, poi nell’opposizione, nell’invettiva e nel delirio quasi à la manière d’un Céline.

Il testo, che avrebbe quale ambientazione referenziale Roma, tra i “troppi ombelichi del mondo” e fatalmente scempiata dalla propria stessa Storia, si esclude da canoni letterari pregressi apparendo multiplo, interdisciplinare, disomogeneo e senza successioni coese di nessi o pensieri, aperto alle variabili indotte da una calcolata farragine: con trasposizioni di lemmi, frasi lapidarie, incastri di paragrafi che in reciproca tensione si succedono e si rimandano vicendevolmente (“La vita è un passaggio a incastro”).

Dati, informazioni, eventi e commenti sono evocati e trattenuti in una statica contemporaneità (“Il presente talmente onnipresente ha ucciso il futuro”), iperrealisticamente disposti su uno sfondo dove “tutto diventa nero” riapparendo “variopinto” con “imbrattamenti”: a voler metaforizzare il disordine, le “false aspettative”, ovvero i sogni, consolatoria e vacua “maledizione degli illusi”.

In uno scenario metropolitano decostruito, metafora d’un assetto culturale in dissolvenza, sono ‘maestri’ che in fondo non hanno troppo convinto i pittori Emilio Greco, Schifano, Guttuso, Vespignani, Vacchi o Ennio Calabria con le sue “nebbie decifrate”. Ricorrendo a un instabile minimalismo descrittivo, Carratoni li mette in fila coi critici, i musicisti e perfino con personaggi televisivi e canzonettisti tutti in cerca di significati e identità che non trovano.

Retrospezioni e icone decadute appaiono taluni politici storici richiamati alla mente: Giolitti “scettico e cinico, adatto all’Italia”, Mussolini disgrazia dell’Italia “lasciata in braghe di tela”, l’irriducibile Churchill, Tito che “odiava gli italiani”, De Gasperi “grande statista” perché “poco italiano”, Togliatti mero “fiduciario di Stalin” e il malinconico Berlinguer cosciente del fallimento dell’ideale comunista (“La sinistra si è voluta estinguere”)… Fino al malvissuto Putin, sanguinario e disperato emulo di Stalin e Hitler, provvisto d’“un arsenale bellico a disposizione, compresa l’atomica” (“Guerra. Sembrava un termine vetusto, superato dalla ragione. […] Invece è diventata attualissima”. Poi, “la scusa è sempre quella della difesa”)… Fu profetico [ndr] Italo Svevo che, in La coscienza di Zeno (1923), narra come possa giungere un giorno in cui qualcuno malato di follia farà scoppiare un ordigno di enorme potenza riducendo la Terra a una nebulosa che “errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.

Accumulate reminiscenze di un tempo circolare che torna su sé stesso divengono i Tomasi di Lampedusa che dalla Sicilia addita nel suo Gattopardo (1958) il fallimento dell’Unità d’Italia dapprima delineato da De Roberto (I Viceré, 1894) e dal fenomenologo del “marasma identitario” Pirandello (I vecchi e i giovani, 1913)… Il Risorgimento “fu fatto male” chiosava Indro Montanelli.

Si smagnetizzano il narciso Malaparte, il calabrese cosmopolita Corrado Alvaro, il tormentato Cesare Pavese, Montale “da ultimo un poeta inacidito”, il fanciullesco Zavattini, il “sornione” Attilio Bertolucci, la “matta” Amelia Rosselli, Pasolini tragico e “senza pace”, propenso al masochismo e la cui “dolcezza […] era il frutto di una trasfigurazione di tutto ciò che fosse reale”. Né il “Centenario pasoliniano […] risulti rifugio di quanti hanno sfruttato il suo nome” – e comunque “Addio Pier Paolo, […] l’hanno fatto fuori”.

Nell’entropico zibaldone (archivio e memorial) di Carratoni diventano, tra altri, effimeri passanti di un corteo d’ombre, Moravia con la sua pieghevole prosa, Elsa Morante col “capolavoro” L’isola di Arturo (1957), Calvino e Volponi, lo “snob” Arbasino di Voghera, il fasciocomunista Antonio Pennacchi, il talentoso “postumo” Daniele Del Giudice, il “disarmato” Dario Bellezza, precario “uno, nessuno e centomila”, prossimo a Pasolini o al candido Sandro Penna; e infine “arreso alla violenza della vita” al pari d’un deluso, sfiduciato, sacrificale Morselli respinto in vita dall’italico apparato editoriale… Dove la narrativa, infine adibita a intrattenimento e alienato passatempo, “ha perso il suo mordente più della poesia o della saggistica o la storia” – mentre per un filosofo come Cioran “non c’è fatto più ridicolo come essere uno scrittore”.

È un contesto, quello fenomenologizzato da Carratoni, senza più vera necessità e dove “tutto avviene per caso” come nelle postmoderne scritture di un David Foster Wallace. Allucinatoria congerie di abiure, frantumi di racconti, subbuglio di riprovazioni, accumulo di temi eventi drammi, l’autodafé carratoniano, scevro da apparecchiature ideologiche, si sottrae a precise classificazioni e include in un’aperta polemica reiterati sociologismi, sentimenti e risentimenti, indizi oscuri di malversazioni, ricordi compressi entro moduli espositivi affrancati da obblighi logico-sintattici.

Ne consegue una sorta di complessivo straniamento delle cose rappresentate, un rigetto delle loro pregresse codificazioni e menzogne convenzionali, insieme all’assidua trasvalutazione o al rigetto della loro avvilita ordinarietà.

Dispersivo, pulviscolare, informalmente catalografico, l’apparato linguistico di questo libro dominato da una paratassi che trascende la frase lunga a favore della concisione di stile, sostiene un discorso ora diretto e ora indiretto sviluppato per secche sequenze, lapidari lemmi, martellanti locuzioni dal vago ritmo poematico: atrabiliare ritmo che coniuga spazio e tempo, quotidianità e straniata autobiografia, dolenti bilanci esistenziali e labili accenti di rivolta lanciati con brusche, sbizzarrite, salvifiche ‘parole in libertà’ (“Le parole in libertà restano l’unica salvezza…”).

Ben presente al centro del suo spazio retorico, l’autore, materialista dialettico quando non nostalgicamente metafisico (“Ogni materialista aspira a un’anima”), un po’ argomenta, un po’ smania (spiegando che “sparoleggia”) dibattendosi nell’entropia da cui si sente insidiato respirandone i miasmi e adunando a difesa esorcistici spunti polemici e lacerti di precarie moralità. Con fuggevoli prove di critica letteraria, musicale e d’arte, riscontri speculativi e meditazioni parafilosofiche: ciò, nel flusso di procedure autoanalitiche esplanate “all’impazzata”, volatili o disconnesse a favore di un’esaltazione compulsiva e febbrile di argomenti presi in un discorso innestato da intertestuali sequenze aforistiche: “Tutto è preparato. Anche quello che capita all’improvviso”; “Nulla è gratuito o concesso per gratitudine”; “Ogni strada ci allontana dalla meta”; “Chi si nasconde si proclama”; “Siamo inutili ma vogliamo apparire necessari”; “Non si vive per essere ascoltati”; “Siamo diventati disumani al punto di vantarcene”; “Gli incubi almeno ci risvegliano”; “La vita è un altrove immaginario”… Come confluenze d’ingenua saggezza, magari ad uso di coloro che “prima imbarbariscono. Poi diventano predicatori”.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.