Tra vita e morte. Su “Passaggio sul Rodano” di Michele Toniolo.

Michele Toniolo, Passaggio sul Rodano, Galaad editore, 2021, 128 p., € 13,00


di Luigi Preziosi

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Passaggio sul Rodano di Michele Toniolo (Galaad editore, 2021, edizione integrata da una postfazione ricchissima di suggestioni firmata da Arnaldo Colasanti) è un raccolta di racconti la cui unitarietà si percepisce più per l’evidenza delle contiguità tematiche, che per la possibilità di rintracciare elementi per una trama comune. Si tratta di otto testi scritti durante un lungo arco temporale. Li accomuna l’intenzione di scandagliare le profondità più remote della dicotomia vita – morte, prolungando le risonanze che ne derivano sino all’estremo dell’udibile, grazie ad una scrittura impressionistica ed avvolgente, capace di colmare i silenzi con l’intensità di un sussurro appena avvertibile. Perché è proprio questo che richiede il tema centrale del rapporto tra morte e vita, a cui consegue da un lato l’impegno a cogliere fin dove è possibile l’insinuarsi del senso della fine nell’attualità ancora vivente, e dall’altro la tensione all’esplorazione del limite, là dove l’esistere e il suo contrario si confondono, mescolandosi tanto da rendersi indistinguibili per le nostre modeste sensibilità, inadeguate come sono perfino ad interrogare il mistero.

Scrivere di Passaggio sul Rodano significa affrontare una straordinaria densità espressiva e concettuale, di non immediata decifrabilità, almeno secondo i canoni di ordinaria lettura di un testo narrativo, rinunciando ad un rendiconto puntuale di trame narrative, peraltro piuttosto evanescenti, per tentare piuttosto un controcanto minimo ai testi. Un libro così fortemente caratterizzato dispone naturaliter di diverse vie d’accesso possibili: al lettore avvertito l’onere di scegliere quella a lui più consentanea. Una che ne sintetizza con una certa evidenza diversi presupposti formali e contenutistici è declinata nella Premessa del quinto racconto, La narrazione originaria, in cui l’autore (o il narratore?) confida che “le parole ti cambiano mentre le scrivi: leggo con fatica un paesaggio che muta in continuazione, e che non posso fermare. Scrivere è il mio modo di capire, e il mio modo di perdermi”.

Già il primo racconto, Fuori dalla fresca profondità, introduce l’idea della mescolanza di opposti, trasfigurata nel paesaggio fluviale del Rodano, presso la Camargue, dove acqua e terra si contendono lo sguardo di chi scrive, e vento e pioggia contribuiscono all’inafferrabilità dei contorni. Ma la narrazione di Toniolo non conosce definizioni, è piuttosto il resoconto di segni discontinui, una tavolozza di impressioni più che un racconto. L’indistinguibilità di fondo vi si manifesta apertamente nelle più strette ed affettivamente coinvolgenti relazioni familiari, che vengono sulla scena a volte come epifanie oniriche: “Vedo mia figlia distesa tra il salice e i pini di mare, la conosco da adulta mentre abbandona a madre e confonde una vita nuova con radici nuove. Curva nell’asciugamano, la padrona di casa ascolta parole scandite affinché il dolore continui. Mia figlia esce dalla casa della madre come un lombrico sulla terra.”

La relazione genitore – figlio innerva buona parte dei racconti. Alcune parole per Alice testimonia l’intimità sconvolgente di amore e dolore concentrata nella contemplazione della morte di un figlio. E scegliere di restare accanto al figlio morente rappresenta l’apice etico e spirituale di quella relazione: “non c’è umanità più grande… non c’è coraggio paragonabile”. E’ l’unico paradigma cui è possibile attenersi, per la lucida disperazione di Alice, se “l’unico a restare è l’uomo inchiodato alla croce….”, e la forza della croce riesce a capovolgere “il nostro concetto di prossimo: non è il figlio malato, il prossimo suo, come Alice ha creduto quando si è legata a quel letto. Ma è lei il prossimo di suo figlio”. Diverse sono le parole che, come dal titolo del racconto, gravitano intorno alla tragedia di Alice: pudore, grazia, delitto, croce, fuoco, oltre ad una parola non detta, salvezza, che, peraltro, nella prospettiva del capovolgimento, tutte le può contenere. Tutte sono comunque attratte in un gorgo di pensieri che le amalgama, rendendole un insieme via via più indistinto. E così, subendo l’alterazione che l’autore individua come propria della scrittura letteraria, Alice in una sorta di delirio che mescola tempi ed affetti, “diventa madre del proprio padre. Inverte, contro natura, la propria vita….inutilmente, si dimentica del figlio e torna a chiamare padre il proprio padre. L’alterazione diventa colpa.”

Il fondale dei racconti di Toniolo è limbale, esprime lo stesso senso di sospensione che raggela lo sfondo dell’Urlo di Munch: l’interiorità filtra lo sguardo sulle cose, l’esteriore atarassia dei personaggi si stempera in paesaggi grigi o in visioni di acque, tra fiume, pioggia e nebulosità sospese su pianure solitarie. Il mondo vi è percepito per apparizioni, lampeggiamenti in cui persone e sensazioni contemporaneamente sono presenti, o meglio semplicemente sono, senza alcuna consecutio temporale a sostegno. Anche la stessa narrazione di un fatto può allora attestarsi come “incompatibile con il fatto che l’ha originata, scrivere è allontanarsi”, e ciò che si racconta è solo la “creazione” di un mondo che “nulla ha a che fare con il fatto originario, ma solo con chi ha scritto quelle parole”. Questo è lo snodo argomentativo attorno al quale si sviluppa La narrazione originaria, che esplora una condizione opposta a quella precedente, la conservazione della parola ultima del figlio morente da parte del padre. Ritorna la contemplazione degli opposti: se non la conciliazione (concetto che forse spiacerebbe a Toniolo), una sorta di loro “contaminazione”: “non respiravo più, ero respirato”, “le parole di mio figlio hanno divorato le mie come un’invasione di locuste. Non sono più suo padre, ma è lui mio padre ed io sono suo figlio”. O ancora, riflettendo sulle conseguenze trasformanti delle parole del figlio: “La parola originaria, che nessuno conosce, è in ogni narrazione, in ogni parola. Ogni parola … finisce di essere se stessa generandone un’altra: solo così conosce la propria vita e la propria origine, come l’uomo che solo morendo conosce Dio. E come un figlio con un padre. O un padre con un figlio”.

Come evidenziano anche la visionarietà descrittiva e la fantasmatica indeterminatezza delle figure che agiscono nelle diverse storie, non ci sono confini certi soprattutto tra la cognizione della vita e la cognizione della morte: “Solo chi muore conosce la vita, perché la vita gli si svela nella morte. E solo chi muore conosce la morte, ma nel momento in cui muore – e a questa morte non può dare espressione.” Singolari, per inciso, le consonanze con il Canto delle crisalidi, dove l’alternativa suprema è rappresentata in termini analoghi da Michelstaedter come coesistenza inestricabile: “Vita, morte, / la vita nella morte. / Morte, vita, / la morte nella vita / …/ Ma se vita sarà / la nostra morte, / nella vita / viviam solo la morte… / Morte, vita, / la morte nella vita. / Vita, morte, la vita / nella morte.”

Toniolo aduna apporti vetero testamentari, nonché lacerti tratti da Bonhoeffer, Blanchot, Benjamin, e squaderna squarci argomentativi sulla consistenza della parola letteraria nella ricerca ostinata di senso, nella sua potenzialità di invenzione (in senso etimologico) di senso, in una prospettiva evidentemente teologica. Questa prospettiva è resa esplicita specialmente nel significato attribuito alla scrittura letteraria, valorizzata come ricognizione circa il “significato intimo e profondo di questa parola, inesauribile perché pronunciata da Dio e può accogliere, fianco a fianco, spiegazioni completamente diverse tra loro; ricerca del non detto da Dio, del suo velamento del suo volto esposto nel nascondimento della parola: la scrittura che l’uomo fa di Dio.”

Percorre quasi tutti i testi del libro una sorta di fascinazione nei confronti del senso del limite, del sostare sulla soglia che divide ed insieme unisce l’umano e il sovra umano: “Le parole che [chi muore] pronuncia prima di morire, un attimo prima di morire, stanno nella soglia tra la vita e la morte, tra la verità di una cosa e la cosa stessa: la soglia in cui abita la letteratura.” Toniolo colloca l’esperienza letteraria al culmine del desiderio di conoscenza, essendo chiamata ad esprimere le esigenze di ulteriorità dell’uomo. Ne deriva l’essenzialità di parole che introducano l’immagine della soglia, intesa come limite, e quindi parlino della tensione verso un “altrove” rispetto ad una condizione esistenziale presente, temporanea e mutevole.

Si delineano così nelle sue pagine prospettive suscettibili di una lettura coerente con alcuni percorsi interpretativi propri della teologia letteraria elaborati in particolare da Jean Pierre Jossua, secondo il quale (La letteratura l’inquietudine dell’assoluto, Diabasis, 2005, p.67) “le immagini liminari …non fanno altro che evocare la direzione a cui tendono, e contengono dunque in se stesse il gioco intero del sapere e dell’ignoranza, senza richiedere alcuna correzione negativa”. La conclusione generale che ne trae il critico e teologo francese, secondo il quale “queste immagini si incontrano continuamente nella letteratura degli ultimi due secoli, in tante modalità di impiego quante sono le diverse finalità nel “trascendere”, è efficacemente applicabile anche ai racconti di Toniolo, dove le raffigurazioni del limite, della soglia, nelle varie forme con cui vi sono espresse, costituiscono elementi di una personale grammatica della trascendenza.

Toniolo è scrittore esigente. Pretende molto dai suoi lettori. La rarefatta eleganza formale dei suoi racconti racchiude tratti di lettura non agevole. Ma le sue pagine, proprio per la loro stessa impervia scorrevolezza, lasciano intuire tracce di significati diversi da quelli propri della immediata rappresentazione narrativa, il che trattiene l’attenzione del lettore. Così, l’immedesimazione come risultato dell’atto del leggere raggiunge qui vertici altissimi. L’impegno che ci viene richiesto è comunque ampiamente compensato dall’intensità delle meditazioni a cui induce circa il nostro consistere nel mondo, soprattutto se, come auspica l’autore sulle orme di Kafka, possiamo distinguere dalla parola non giusta, che seduce, quella giusta, che conduce.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.