Tra esistenzialismo e antropologia. Moravia e il romanzo italiano del Novecento: il caso della Noia

Tra esistenzialismo e antropologia

Moravia e il romanzo italiano del Novecento: il caso della Noia


di Manuele Marinoni (Università degli studi di Firenze)

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Ha scritto Jean Bloch-Michel che l’Alberto Moravia della Noia è uno scrittore che «in una forma perfettamente tradizionale, e ignorando completamente gli sforzi e i tentativi del nouveau roman, con maggior vigore, con superiori qualità estetiche e con un più grande potere di evocazione, ha espresso precisamente tutto ciò che il nouveau roman cerca di dire barricandosi entro regole, divieti e rifiuti»1. Partirei da questa considerazione per circoscrivere il problema del rapporto tra narratore e realtà, tra soggetto e realtà nel romanzo moraviano.

Prima di tutto qualche precisazione cronologica. Il romanzo di Moravia è del 19602, e segue di tre anni il successo della Ciociara. I saggi teorici di Alain Robbe-Grillet richiamati da Bloch-Michel sono raccolti nel 1963, Pour un Nouveau Roman, ma variamente anticipati in rivista negli anni precedenti. Editi, infatti, in Italia, parzialmente, nel 1961 a cura di Renato Barilli (Una via per il romanzo futuro) e integralmente nel ’65 (Il nouveau roman) a cura di Luciano De Maria e di Marcello Militello. Uno dei punti centrali della proposta di Robbe-Grillet, dichiarato in Natura, umanesimo, tragedia del 1958, prevede il fatto, di per sé tautologico, per cui «le cose sono le cose, e l’uomo non è che l’uomo». Con ciò il critico avviava il suo personale progetto di superamento del codice tragico, innescando un motivo di difesa contro tutto ciò che solo in apparenza sembra una necessità; una «purificazione» dell’essere umano in quanto uomo. Un modo per realizzare tale scopo sarebbe quello di ridurre le “cose” a “cose stesse”, ossia di distanziarle, dal punto di vista dell’uomo (in un’ottica fenomenologica). Robbe-Grillet ambiva a togliere di mezzo quello specimen tipico di ogni umanesimo tale per cui tra l’uomo e il mondo si stabilizza un rapporto conoscitivo ed etico di alleanza. Da ciò deriverebbe un’infezione tragica dovuta principalmente dal continuo e insopportabile tentativo di appropriazione di un senso in sé, delle cose di là dalla coscienza, dell’uomo; questi, invece, ne è (ontologicamente) estraneo e, in quanto tale, è veicolato dalle forme conoscitive in possesso che gli restano come fossero degli assoluti: tutto si traduce quindi in una conoscenza incompleta e inadeguata. La passione dell’uomo, prosegue il critico, deve limitarsi alla «superficie» delle cose, «senza voler penetrarle poiché non c’è niente all’interno, senza fingere il più piccolo richiamo, perché esse non risponderebbero». Secondo Robbe-Grillet la tragedia è «insidiosa» e impresa necessaria è il «ricercare i mezzi tecnici per non soccombervi». Il nuovo romanzo deve dunque proporsi come narrazione puramente visiva, nella quale ogni cosa è solamente ciò che è, nulla di più. Non deve sussistere alcuna frattura gnoseologica, e quindi nessuna forma tragica. Viene in tal modo postulato un romanzo che nella sua obiettività finirebbe con l’esaurire ogni struttura possibile dell’esistente. Basterebbe però prendere in mano il saggio Romanzo nuovo, uomo nuovo per trovare, dalla parte stessa del critico, una serie copiosa di contraddizioni interne al sistema proposto. Con dovizia di risultati questa ricerca di nodi mal fatti la fece a suo tempo Luigi Baldacci3. Limitiamoci qui a segnalare che il punto nevralgico torna a essere l’insuperabilità della tragedia stessa come condizione intrinseca in negativo dell’esistenza4 e, a maggior ragione, dell’esistenza contemporanea, fatta, sì, rispetto al mondo antico, di un nuovo rapporto tra l’uomo e le cose, ma non per questo meno deformante e abissale.

Stando agli elementi richiamati dal progetto di Robbe-Grillet sino a qui riassunti è ragionevole concordare con quanto affermato da Bloch-Michel a proposito del romanzo di Moravia. La Noia, come vedremo più da vicino selezionando alcuni passaggi del testo, è un romanzo antropologico ed esistenziale (tornerò su entrambe le definizioni), non privo di numerose e notevoli parentesi saggistiche, al cui centro sta il problema della distanza tra l’uomo e le cose (il reale)5: anticipo da subito che il romanzo non ambisce a definire alcuna forma di realtà, ma si configura come un’analisi, direi in buona parte antropologica, della relazione tra il soggetto e la realtà, a partire da una buona consapevolezza esistenziale.

Aggiungo inoltre che l’umanesimo di cui abbiamo fatto cenno è messo da parte nel nostro romanzo perché viene assorbito dal contesto culturale e sociale da cui Dino, il protagonista, proviene; contesto che, in fin dei conti, a sua volta, determina la scala di valori di ogni atto interpretativo, che il soggetto ne sia consapevole o meno. Allo stesso modo, l’ipotetica ragionevole obiettività delle cose si perde nell’atto in cui l’individuo tenta con esse una qualsivoglia forma di relazione (possesso, vicinanza, distanza). Moravia dichiara apertamente, nella quarta Risposta a 9 domande sul romanzo, discutendo dell’école du regard, che «la proposta del visivismo ossia della riduzione della realtà a quello che percepisce la vista, può avere soltanto un valore polemico e di sintomo. Del resto anche la vista sceglie ossia esprime un giudizio»6.

Prima di vedere più da vicino testo e trama occorrono alcune precisazioni riguardanti i due aggettivi adoperati per definire il romanzo moraviano. Anzitutto il fenomeno esistenziale. Sappiamo bene che lo scrittore amava collocarsi nella cosiddetta linea esistenzialista del romanzo moderno che ha origine in Dostoevskij (nell’intervento Note sul romanzo raccolto nell’Uomo come fine, Moravia preferisce parlare di «romanzo ideologico»)7. Un tratto esistenziale di fondo permane, soprattutto laddove i personaggi devono affrontare problemi che trascendono la singola condizione immanente (ricordo, senza entrare nel merito, che Moravia guarda soprattutto verso il Dostoevskij di Delitto e castigo e dei Demoni). Non c’è alcuna forma di astrattismo o di teoresi precostituita nelle opere di Moravia. Il contesto culturale e sociale è l’inevitabile palcoscenico su cui viene posizionata ogni singola e singolare forma di esistenza, di qui una contingenza di valore che dà senso all’atteggiamento antropologico della ricerca.

Come ha dimostrato da molto tempo la critica più attenta (Baldacci, Garboli, Onofri) se il binomio di sesso e denaro funge da perno attorno a cui ruota quasi ogni vicenda narrativa dell’autore è perché la società così come si è costituita fa la sua parte; essa non ha un ruolo secondario, anche e soprattutto nella ricerca esistenziale8. E ogni tentativo di fuoriuscita è un rimbalzo all’interno del circuito. In queste dinamiche sopravvive appieno il senso tragico, negativo del reale. Oltre a tutto questo, restando sul versante esistenziale, s’aggiunga però che non parlerei affatto per l’intera galleria dei personaggi moraviana, in tutto e per tutto, di “uomini del sottosuolo”, né di veri e propri ossessi del male. Esiste una parità di merito nella condizione della gettatezza nel mondo da cui scaturisce ogni forma auto-riflessiva; la differenza sta però nell’indice di perlustrazione della materia interiore. La “funzione Dostoevskij” agisce in Moravia soprattutto nel cortocircuito tra emotività e realismo; la componente riflessiva manca però di certa lucida disperazione esistenziale tipica del narratore russo. In ciò credo sia più opportuno ribadire il pirandellismo di fondo che permea le possibilità del narrativo moraviano, sospingendo verso esiti negativi i suoi personaggi, il più delle volte, disperati con garbo. Pirandello aveva annunciato la dissoluzione individuale e, di conseguenza, l’alienazione a partire dall’interno della società medesima9. Moravia, in tal senso, ha sicuramente alle spalle il ruvido e metafisico Uno, nessuno e centomila piuttosto che il post-naturalistico e grottesco Fu Mattia Pascal: l’uomo «dopo essere sembrato granitico e imponente» ha iniziato col «cascare a pezzi» rivelandosi «un fantoccio composto di parti eteroclite»; di qui il bisogno, colto da Moravia, di «riscoprire l’uomo o meglio il punto ineffabile e inalterabile a partire dal quale esso comincia a esistere»10.

L’altra componente mobilitata è quella antropologica. Basterebbe aprire di nuovo il libro di saggi di Moravia, L’uomo come fine, per intendersi rapidamente sul concetto. Se l’approccio con la dimensione antropologica non è tale esclusivamente per uso dei mezzi, fermandoci nell’ambito del romanzo, lo è certamente nei fini. Così come era sguardo antropologico quello che Macchiavelli adoperava per perlustrare i casi della scienza politica, tale è lo sguardo moraviano usato per narrare situazioni ordinarie prelevate dalla società contemporanea. Questo perché vige assai precocemente in Moravia la convinzione che l’essere umano in quanto tale sia l’esito di tante componenti (e qui anzitutto gli insegnamenti di Freud e di Dostoevskij), mescidate, talvolta in cortocircuito fra loro, e, di volta in volta, funzionali all’identificazione del fine dell’agire. Moravia sostiene che «gli uomini non sono fatti di sola ragione, anzi a dire il vero, scrutando la loro vita, e i loro costumi, la loro religione, i loro affetti, le loro passioni, mi accorgo che la ragione non ha tra di loro che un posto modesto»11. Da queste premesse ecco la persuasione e la necessità da parte dello scrittore di applicare il cosiddetto sguardo antropologico sull’uomo, nell’insieme delle possibilità che lo costituiscono, alla ricerca, con parole di Debenedetti dedicate a Saba, «le impurità del loro “liquor” psicologico».

Il contesto della realtà in esame dev’essere osservabile in presa diretta, anche nell’invenzione, che altro non è che la messa in atto (aggiungiamo, teatralizzata) di singoli campioni umani resisi disponibili nel loro accadere contingente. Direi, con atto un po’ provocatorio, che in questo senso Moravia sembra rispondere alle prescrizioni di Armando Plebe per il quale «l’unica soluzione ragionevole di fronte all’intasamento odierno» – Plebe scriveva nel 1965 – «della comunicabilità, non è quella di scrivere incomprensibilmente intorno a fatti banali, bensì quella di scrivere comprensibilmente (all’occorrenza anche banalmente) sull’incomprensibilità della realtà sociale»12.

Per non perdere di vista il discorso centrale, si potrebbe esemplificare questo tipo di approccio con l’attenzione che Moravia riserva alla simbolizzazione che i vari personaggi fanno degli oggetti circostanti (cose e uomini)13. Egli era convinto che l’unica dimensione religiosa possibile dell’umano consistesse in tale processo di trasformazione di significati, mediante la costituzione di simboli, piuttosto che in una vera e propria fede nella trascendenza. Quello di Moravia è difatti uno sguardo antropologico molto concreto, direi plastico, puntato su fatti materiali e sui valori ad essi applicati. Ciò che gli interessa, ossia il principio teleologico, è di capire come si producono questi simboli; quali sono le ragioni, interiori e sociali, che spingono a trasformare il significato d’uso delle cose. Ho utilizzato più volte questo termine semanticamente assai ampio: cose. Lo si intende qui in due modi essenziali. Da un lato le cose intese nella loro configurazione oggettuale (tanto le cose-feticcio di Benjamin quanto gli «oggetti desueti» di Francesco Orlando); dall’altro la riduzione a cosa di tutto quello che rientra nell’orbita esperienziale e conoscitiva dell’individuo (quindi anche il proprio corpo e la propria dimensione psichica). Il raggruppamento appare assai ampio, ma si giustifica nell’interesse antropologico di fondo: la riduzione a cosa permette l’analisi relazionale (pensiamo anche, su amplissima scala, alla relazione uomo-natura che contrappone il soggetto dei paesi del nord del mondo da quello dei paesi del sud, su cui Moravia ha insistito moltissimo negli scritti di viaggio e nei reportage giornalistici). Non è una questione di stile, a cui lo scrittore è disinteressato. È una questione di forma e di relazione tra le forme. Il linguaggio trova poi la sua centralità nell’atto comunicativo e, paradossalmente, ma inevitabilmente, l’uomo crolla di continuo nell’incomunicabilità, di sé, del sé e del negativo.

L’antropologia moraviana si limita dunque a una descrizione del comportamento umano, senza grande fiducia nella sua natura. Persiste un atteggiamento basilare che colpisce tanto il livello morale quanto quello sociale. E quando si tratta di puntare i riflettori sui territori della coscienza ecco affiorare simboli e archetipi che assieme rappresentano la sola possibilità di vita dell’individuo: ogni contesto sociale li riattiva e, in parte, li rivitalizza. Anche per questo motivo è pienamente condivisibile l’idea di Baldacci che ogni libro di Moravia «corrisponde a un problema umano, è la dimostrazione di un assioma morale» e, aggiungiamo, corrisponde a un campione del catalogo degli strati archetipici vicendevolmente ripristinati, allo scopo di giustificare le cose del mondo e il relativo rapporto con esse. Poi resta il problema di ciò che sta all’esterno e che ruolo esso abbia nei confronti della narrazione. Sovviene in risposta un appunto di Moravia, datato 20 agosto 1986, dal Diario europeo: «in un romanzo l’essenziale e il reale sono sinonimi; il realismo non può occuparsi che dell’essenziale. Il mare in Boemia non inficerà la verosimiglianza di una vicenda; semmai ne confermerà la credibilità, posto che ne abbia»14.

Per sintetizzare, e per richiamare a questo punto la forma-romanzo: Moravia preleva di volta in volta un manipolo di personaggi. Ne individua uno, due o poco più come prototipi d’analisi, all’interno di circuiti sociali ben precisi e definiti (in primis la famiglia)15. Li colloca in modo analitico nel loro contesto, sia pubblico sia privato, e culturale, ne evidenzia gli spunti relazionali e le convergenze riflessive, e li osserva, con attenzione. Osserva la natura e le forme della crisi in cui si trovano. Individuato un punto d’attrito, il punto nevralgico col reale, egli applica una griglia di analisi (antropologica ed esistenziale), e di qui lo scatto saggistico, spesso introiettato nella prassi del soliloquio, e assai di rado del monologo interiore. La tesi costante, ha scritto Baldacci, consiste nell’analisi dell’affannosa «ricerca di un contatto con le cose»16; ma è molto importante anche il dire qualcosa in opposizione all’esperienza della morte. Aggiungo inoltre un dato di genere. Si è talora parlato, per alcuni libri di Moravia, di romanzo di formazione o di romanzo familiare. Non c’è qui la pretesa di riassorbire entrambe le forme all’interno del romanzo antropologico, ma sicuramente l’esempio di Moravia, per entrambi i casi, supera le singole problematicità, al fine di evidenziare i singoli campioni come l’espressione di un’analisi, di una situazione che viene narrativizzata, piuttosto che di una narrativa che cresce sui principi della Bildung o di qualsiasi altra sfera di condizionamento socio-culturale (ricordiamolo: il potenziale narrativo in Moravia è un fatto biologico). Anche Debenedetti, scrivendo dei protagonisti della Noia e dell’Attenzione, e distanziandoli dai personaggi dei romanzi precedenti, ha insistito sul «momento della crisi»: Dino, nella Noia, vive molte sofferenze, «fuorché quella di annoiarsi»17. Di qui la convinzione che la noia sia un carattere endemico e costitutivo del soggetto moderno, borghese, che attraversa una crisi esistenziale senza via d’uscita. Ecco il bisogno essenziale di farne anche oggetto di indagine antropologica.

Spostandoci, infine, sul piano tematico e archetipico, ricordo che i filtri mediante i quali Moravia osserva la società borghese contemporanea sono da un parte il binomio sesso-denaro (principio di determinazione); dall’altra l’insieme degli istituti di interesse della psicologia, anzitutto freudiana: quindi il contesto familiare, le relazioni intersoggettive, i vari complessi, i sogni e gli atti mancati. Si tratta di uno sguardo antropologico18 nutrito essenzialmente di marxismo e di post-freudismo. Ma queste sono faccende ben note, a cui Moravia stesso ha dedicato numerose pagine, anche auto-critiche.

Un solo appunto aggiuntivo, a proposito del mito: Lukács ci ha insegnato che «il romanzo era l’epopea del mondo abbandonato dagli dei, la psicologia dell’eroe di romanzo apparteneva al demonico»19. Tutto vero. Se non per un dettaglio che andrebbe, nel caso di Moravia, modificato. Il romanzo di cui parla il filosofo è quello che ha chiuso i conti con una certa interpretazione del mito e dello spirito «demonico». Ma non per questo significa che non ci siano nei decenni successivi, nei vari sviluppi del genere, una nuova forma di mitizzazione. Un nuovo mito che non investe certamente il piano razionale, ma che istituisce nuovi conflitti sanciti da nuove necessità. In questo senso, il binomio di sesso e denaro, entro le modificazioni che la società novecentesca vi conferisce, si sostituisce a ogni forma di razionalizzazione dell’autenticità dell’azione, e in questo riprende, tali e quali, talune ermeneutiche mitizzanti. Moravia era pienamente consapevole di questa trasformazione. Ma veniamo al nostro campione in esame.

Partiamo da un dato preliminare fissato con cura da Marco Antonio Bazzocchi: «La Noia è un romanzo soliloquio, un romanzo ossessione: tutto è filtrato attraverso la prospettiva di Dino, il mondo che viene rappresentato è il mondo di Dino. La sessualità è lo strumento con cui Dino pensa di poter ritrovare un rapporto con la realtà»20. L’unico elemento che andrei smussando è quello relativo alla sessualità come strumento di cui Dino sarebbe pienamente consapevole. A questa consapevolezza, sempre che di questo realmente si tratti, il protagonista arriva in un secondo momento, alla prova di alcuni fatti. Dino sembra sperimentare questo suo riconosciuto disagio di distanza dalle cose, e trova nel personaggio femminile, Cecilia, e nella relazione con lei, il banco di prova, quasi il laboratorio, presso il quale dimostrare (o confutare) certi assiomi di partenza.

La vicenda del romanzo, distribuita in nove capitoli, più un prologo e un epilogo, si può racchiudere in poche formule. Dino è un giovane, romano, figlio di una donna ricca, appartenente alla società borghese della capitale. I due vivono assieme in una villa in via Appia. Non è difficile, da subito, identificare nella figura materna il crogiuolo dei valori borghesi da cui Dino si sente (apparentemente) distante, inautentico. La reazione immediata, interiore, a tale distanza è un profondo sentimento di noia. Nulla a che vedere con le fenomenologie di questo stato emotivo così come sono state elaborate prima dalla teoresi romantica e poi dal simbolismo europeo. La noia di Dino è, in tutto e per tutto, un prodotto borghese21. Essa non produce alcun innalzamento interiore, non segnala distanze emotive od esistenziali da eventuali paradisi perduti, non inficia in alcun modo lo stato psichico di partenza del soggetto. La noia, lo abbiamo già detto, è una delle grandi categorie psichiche indagate da Moravia, accanto all’indifferenza, al disprezzo, al diniego; e quindi ai moti interiori dell’ambizione, della gelosia, del desiderio. Il catalogo è facilmente ampliabile. E si riduce, in sostanza, al patrimonio psichico della società borghese italiana nel suo farsi e nel suo biologico disfarsi. L’elemento che varia è la modalità di approccio dei personaggi alla realtà. Guido Guglielmi ha indugiato sulle differenze che intercorrono tra i primi personaggi moraviani, a partire dal Michele degli Indifferenti, sino al protagonista del nostro romanzo, specificando che la distanza principale tra questi e il primo consiste anzitutto nell’«incapacità di vivere la lontananza delle cose, che in Michele era anche rivelazione di un’inquietante libertà», mentre qui «diventa […] un’incapacità biografica del personaggio che finisce per essere risucchiato dal mondo convenzionale»22.

Proseguiamo con la trama: Dino, conscio di tale noia, decide di affrontarla da un punto di vista esperienziale e conoscitivo. Mettendo in parentesi il sistema borghese, abbandona la casa della madre e affitta uno studio in via Margutta dove poter proseguire l’attività artistica. Dino si diletta a dipingere. La pittura, che in un primo momento sembra il tentativo di trovare un rapporto con le cose (egli crede «di poter ristabilire una volta per tutte il rapporto con la realtà»), oltre che di distrazione, risulta fallimentare. Essa non produce alcun esito. Si accenna fra le righe del romanzo che Dino sia un pittore astratto23. Quello che sembrava essere un abbandono, una fuga dal tedio borghese, si maschera di sana ipocrisia. Dino affitta lo studio, ma ha bisogno dei soldi della madre per potersi mantenere. Quindi torna periodicamente alla villa, intrattenendo col genitore un legame evidentemente basato sulla «forma», espressione massima dell’inautenticità. Più volte ricorre questa espressione, anche nei discorsi stessi della madre. La «forma» è il principio di identità della società borghese nel suo dinamismo intersoggettivo. All’espressione emotivo-sentimentale, a qualsiasi eventuale inclinazione empatica, è sostituito un formalismo relazionale, direi quasi, deterministico24. Dino è ostile a questo mondo, ma di necessità ne fa parte. Lo sguardo antropologico, che s’è detto del Moravia narratore, mira ad analizzare il caso di un soggetto che appartiene e tenta (pacificamente) una disappartenenza.

In via Margutta vive e opera un altro pittore, più anziano di lui, tale Mauro Balestrieri. Sappiamo più dettagli di quest’uomo dopo la sua morte che prima. E soprattutto veniamo a conoscenza del fatto che questi, sposato, aveva come amante una giovanissima donna, Cecilia, che inizialmente gli faceva da modella per poi diventare la sua amante. Dopo la scomparsa di Balestrieri, Dino e Cecilia si conoscono. E quello che sembrava essere il legame sessuale-affettivo tra lei e l’anziano pittore (morto dopo un amplesso con la giovane ragazza) si trasfigura tra Dino e Cecilia. I due iniziano una relazione. Su due elementi Moravia punta l’attenzione: il legame sessuale, fisico, corporeo, che sembra essere la sostanza del rapporto, e la gelosia.

Dino vive la relazione tanto dall’interno quanto dall’esterno. Si convince di poter valutare i passaggi del rapporto come fossero processi fenomenologici del possesso dell’oggetto desiderato. Si pone delle domande. Si chiede, in fondo, quali siano gli elementi che producono le varie spinte di vita, e quali invece fanno ripiombare l’identità nello stato di noia. E costantemente sperimenta. A consentire questa ininterrotta interrogazione, espressa dal soliloquio del protagonista, stanno anche numerose scene e situazioni di chiaro valore simbolico. Il gioco, in tal senso, è sempre dettagliato dalla relazione tra l’io e le cose. La gelosia entra in scena nella seconda metà del romanzo a scatenare le incertezze del possesso e della propria volontà di potenza (che leggerei semplicemente come volontà di auto-identificazione); il sentimento è presentato mediante un’analisi dettagliata, quasi scientifica, oltre che dal punto di vista della narrazione stessa anche in parecchie parentesi di natura saggistica, nelle quali Moravia procede in modo abbastanza sistematico, definendo per prima cosa il concetto in esame e poi adducendo varie esemplificazioni, in parallelo o in contrapposizione (da farsi un confronto con la fenomenologia della gelosia descritta da Proust):

«Le cose che sto per raccontare potranno forse dar l’idea di una crisi di assai comune gelosia; […] il geloso soffre di un senso eccessivo di proprietà, sospetta continuamente che altri voglia impadronirsi della sua donna, l’ossessione di questo sospetto gli ispira immaginazioni stravaganti e può anche spingerlo fino al delitto. Io invece soffrivo di amare (poiché d’amore, ormai, si trattava) Cecilia; e miravo, spiandola, ad accertarmi che mi tradisse, non già per punirla e comunque per impedirle di portare avanti il tradimento, ma per liberarmi del mio amore e di lei. Il geloso, insomma, tende, sia pure suo malgrado, a ribadire la propria servitù; io volevo invece disfarmi di questa stessa servitù e non vedevo altro mezzo, per raggiungere questo scopo, che distruggere l’autonomia e il mistero di Cecilia, riducendola, attraverso una conoscenza più esatta del suo tradimento, a qualche cosa di noto, di comune, di insignificante»25.

Fissiamo per un istante l’attenzione su Cecilia. Sempre Bazzocchi la incornicia tra le figure della sfinge e dell’arpia. Il critico parla anche di un «processo di animalizzazione della ragazza». Cecilia appartiene a un livello sociale differente da quello di Dino26. Ciò che dunque è «artificioso e assurdo» non è solo il rapporto tra i due, ma anche il principio costante che fa dell’inautenticità la regole esistenziale. Se volessimo ridurre il tutto a uno schema astratto avremmo un soggetto che tenta di esperire l’inautenticità della propria condizione esistenziale confrontandosi, unendo e facendo reagire la propria esperienza con quella di un soggetto (ridotto a oggetto) appartenente a un’altra condizione esistenziale, anch’essa di per sé inautentica. Un guazzabuglio relazionale che porta alla conferma degli stati emotivi d’origine, senza alcuna via d’uscita che sia davvero autentica. Guazzabuglio che, però, non si trasferisce mai, in Moravia, sul piano dello stile.

Dino vorrebbe, nel bene o nel male, riconoscere alcuni punti fermi nel temperamento di Cecilia, identificarla come autentica, dal suo punto di vista. Ma ciò non è possibile e non si realizza. Lei rimane creatura distante, indifferente e soprattutto enigmatica. La noia non trova la giusta sinergia con un proprio opposto per esaurirsi in qualcosa di più elevato, o quantomeno lucido. Nelle riflessioni che Dino dedica ai rapporti sessuali con Cecilia si giocano i momenti più intensi, starei per dire metafisici (quasi da metafisica dell’amore sessuale), del problema relazionale con le cose:

«Si levò, andò di corsa all’uscio del bagno e scomparve. Rimasto solo, caddi in una specie di vuota riflessione. Riflettevo proprio nel senso che si dà letteralmente alla parola, ossia contemplavo nello specchio oscuro della mia coscienza me stesso disteso nudo e inerte sul divano, il cavalletto con la tela bianca presso il finestrone, lo studio e tutte le cose che conteneva. Poi un pensiero preciso si insinuò in questo mondo oggettivo e morto; ed era che, dopo il secondo amplesso, Cecilia era restata più che mai sfuggente e dunque reale; così che, se per un miracolo della natura, io fossi stato capace di prenderla non già due volte di seguito, ma duecento, alla fine mi sarei trovato altrettanto insoddisfatto che la prima volta. Insomma, io la possedevo tanto meno quanto più la prendevo»27.

Il «mondo oggettivo e morto» non svolge alcun ruolo, diciamo, salvifico. È solo il lucidissimo contesto che rende possibile la coscienza della distanza tra l’io e le cose, nella fattispecie tra Dino e Cecilia. Il sesso non delibera in questo caso alcuna forma di conoscenza, né di reale possesso. In chiave antropologica verrebbe da chiedersi a questo punto quale sia il ruolo simbolico dell’atto sessuale, dato per scontato che non possa esservi alcun fine riproduttivo. L’atto simbolico consiste nell’aggredire l’oggetto individuato con un livello di libidine non destinato all’oggetto stesso, ma al riconoscimento del proprio identitario rapporto con quell’oggetto. Il corpo è ridotto a cosa, a superfetazione, a feticcio, nella sua interezza. Non sussiste un passaggio dal particolare all’universale con lo scopo centrale di alterare il proprio io con l’unione; si tratta di prendere l’universale-corpo e di ridurlo a simbolo-cosa, nel vano tentativo di riconoscervi così una qualche relazione. Di qui l’imbattuta persistenza della noia che, come non smette mai di ripetere il protagonista, è «la mancanza di rapporto tra me e le cose». Non è il caso di sfruttare alcuna categoria fenomenologico, anche se resta una minima tentazione di pensare che questa mancanza sia in parte dovuta anche all’assenza, da un punto di vista intenzionale, dell’oggetto-corpo di diventare elemento concreto di possesso:

«Cecilia mi aveva dato il suo corpo con la stessa indifferenza barbara e ingenua con la quale un selvaggio regala ad un rapace esploratore l’amuleto di pietre preziose che porta al collo»28.

Anche il contesto sociale, le regole e, ancora una volta, la «forma», non permettono di smuovere la barriera che neppure il sesso riesce a frantumare. Il sistema dà le regole e ciò che sta all’interno non può pretendere di identificarvi la propria autenticità all’esterno. Sarebbe una richiesta contraddittoria e aporetica.

A regolare questo sistema Moravia pone, accanto alla sfera sessuale29, come già ricordato, il denaro. Dino a un certo punto inizia a pagare Cecilia dopo i rapporti sessuali. I due sistemi però non reagiscono. Dino non riesce a comprendere l’atteggiamento di Cecilia nei confronti del denaro. Ogni volta, lei intasca la cifra offerta, ma non chiede spiegazioni quando nessuna cifra viene presentata. Inizialmente Dino agisce così per tentare di liberarsi dell’amante, cadendo nella trappola della dialettica insanabile tra possesso e non-possesso. Un ulteriore tentativo di risposta sopraggiunge dalla richiesta di matrimonio. In tal modo sembra che Dino, per riuscire a liberarsi di Cecilia, voglia farla rientrare appieno in uno di quei tipici circuiti della sensibilità borghese. Le idee di Moravia (soprattutto del Moravia lettore di Totem e tabù di Freud) sul matrimonio sono ben note. E nel romanzo è evidente quanto l’istituzione in questione altro non sia che il proposito di far fede a dei dubbi esistenziali che altrimenti non avrebbero molte altre possibilità di evasione e di senso. Sesso e denaro non hanno permesso a Dino un vero riconoscimento relazionale con le cose, dunque egli si affida alle leggi sociali, per l’ennesima volta al dominio della «forma». Il progetto fallisce. E fallirà anche il tentato suicidio finale.

Come già menzionato, il romanzo è ricchissimo di paragrafi di natura saggistica. La maggior parte di questi riflette una medesima struttura. Moravia declina nel testo, attraverso il soliloquio critico di Dino, un concetto; lo definisce; ne delimita i contorni di esperienza e di possibilità; argomenta a suo favore o a suo sfavore; ne deduce talune conseguenze sul piano gnoseologico e antropologico. Tali concetti e tale processualità servono a definire il respiro della narrazione che risulta come un esperimento continuo di messa in opera di singoli paradigmi dell’agire umano, all’interno di un preciso e individuato contesto culturale e sociale. La noia medesima, perlustrata a fondo nel romanzo, è un sentimento che risulta dalla particolare situazione creata dalla società borghese entro cui la storia è iscritta. I mezzi conoscitivi a disposizione di Dino sono quelli prodotti dal contesto di partenza. Dunque, se in Moravia persiste un dato critico, polemico, esso presuppone ogni volta, passaggio per passaggio, un’analisi approfondita anche delle regole di vita e di esistenza dell’ambiente circostante. Per quanto riguarda il caso particolare di Dino, il continuo rapporto disilluso con la realtà genera lo stato emotivo ed esistenziale della noia. C’è un passo nel capitolo settimo, di natura metaletteraria, in cui la maggior parte dei motivi sino a qui enucleati si intrecciano sul piano riflessivo:

«Pensavo che la tela era vuota perché non riuscivo a prendere possesso di una realtà qualsiasi, allo stesso modo che era vuota la mia mente nei confronti di Cecilia che mi sfuggiva e non riuscivo a possedere. E il rapporto fisico con cui m’illudevo sovente di possedere Cecilia, equivaleva alla pittura pornografica di Balestrieri, cioè non era possesso, come quella non era pittura. E allo stesso modo che, con Cecilia, oscillavo tra la noia e la mania sessuale, così nell’arte oscillavo tra la cattiva pittura e la nessuna pittura»30.

Concludo con un’osservazione di Bazzocchi relativa al passaggio appena letto. Ha scritto il critico che l’importanza dello stesso consiste nella duplice valenza del verbo «possedere»31: da un lato il possesso della realtà, dall’altro il possesso di Cecilia, che non è però reale possesso. La seconda funzione implica delle conseguenze sulla prima. Il mancato reale possesso di Cecilia è determinato dal fatto che lei non appartiene all’orizzonte del reale di Dino. Questi sembra ignorare in superficie che le regole di realtà sono definite anche e soprattutto dall’ambiente; e non può fare a meno, di continuo, di ricadere nel problema della «forma». Tale apertura concettuale gli manca, non emerge dal suo soliloquio. L’esperimento si conclude solo nel momento in cui Cecilia nega il matrimonio, e quindi nega di poter appartenere all’orizzonte di senso di Dino. I livello di inconsapevolezza di questa dinamica sono decisivi al fine di lasciare libero spazio allo svolgimento narrativo: «realtà e Cecilia erano le due parole che sempre più fiocamente mi echeggiavano nella testa; evocando due operazioni diverse che, però, sentivo collegate da un nesso indubitabile». Anche i numerosi interrogatori a cui Cecilia è sottoposta significano domande sulla realtà e sulla relazione con essa. Comprendere i nessi abituali della vita della creatura enigmatica, secondo il protagonista, vale quanto conoscere i dati del reale. Ma tanto Cecilia quanto la realtà restano escluse dal dominio di possesso. E perché Cecilia è fuori dell’ordine sociale e culturale di Dino, da cui quindi l’idea di realtà dipende, e perché la realtà stessa si confà, di volta in volta, a un progetto assai più ampio e congruo alla dimensione esistenzialistica in sé in-autentica. In altri termini ha scritto Sanguineti che «la zona più profonda dell’analisi sperimentale nella Noia consiste […] nella rivelazione del carattere contraddittorio dell’esperienza di Dino, e cioè nel fatto che il suo rapporto con la realtà, non potendo configurarsi e concepirsi che secondo la categoria tipicamente borghese del possesso, e cioè nel caso concretamente, come aspirazione al possesso, non soltanto è destinato a fallire, ma è destinato a esprimersi in modi di patente incoerenza»32.

La scelta di Dino, come ha recensito tempestivamente Baldacci, di avere il ruolo «di un uomo solo ed astratto da qualsiasi implicazione sociale»33 è possibile solo nel riconoscimento della negatività della condizione esistenziale di partenza. Estraneità e alienazione sorgono dallo spezzarsi di un equilibrio tra soggetto e mondo a cui la coscienza non sa rispondere se non mediante un livello sempre più acuto di percezione della distanza. Moravia, ancora con Baldacci, «testimonia sull’uomo assurdo del nostro tempo; ma la sua testimonianza è piuttosto una confessione, vale a dire un atto di partecipazione nei confronti di quell’interpretazione della vita e dell’uomo moderno che già altri autori hanno fornito in sede filosofica e saggistica»34.


NOTE

1 Cfr. Jean Bloch-Michel, L’indicativo presente [1963], Milano, Bompiani, 1965.

2 Per le citazioni del testo farò riferimento all’edizione Alberto Moravia, La noia, introduzione di Michel David, Milano, Bompiani, 2008.

3 Luigi Baldacci, Robbe-Grillet e il «nouveau roman», in Id., Le idee correnti, Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 40-51.

4 Sulle possibilità del tragico nella scrittura di Moravia (tra romanzo, racconti e teatro) ha insistito Giorgio Bárberi Squarotti nel volume Le sorti del «tragico». Il Novecento italiano: romanzo e teatro, Ravenna, Longo Editore, 1978 e Id., Fuori dagli stereotipi, in Alberto Moravia. L’attenzione inesauribile, a cura di Clotilde Bertoni e Chiara Lombardi, Milano, Mimesis, 2018, pp. 37-48.

5 La noia, ha scritto Sergio Antonielli, «volle essere precisamente la diagnosi di un male morale – della società italiana e non soltanto italiana – degli anni sessanta. Una società individuata a livello di borghesia intellettuale; un saggio con forme narrative»; S. Antonielli, Alberto Moravia, in Id., Viaggio nella letteratura italiana del Novecento, a cura di Edoardo Esposito, Napoli, La Scuola di Pitagora, 2017, p. 241.

6 Leggo da A. Moravia, L’uomo come fine, a cura di Simone Casini, Milano, Bompiani, 2019, p. 342.

7 Molte utili riflessioni in proposito sul genere si leggono nel volume Il racconto e il romanzo filosofico nella modernità, a cura di Anna Dolfi, Firenze, FUP, 2013. Cfr. anche i due volumi: Il modernismo italiano, a cura di Massimiliano Tortora, Roma, Carocci, 2018 e Il romanzo modernista europeo. Autori, forme, questioni, a cura di M. Tortora e Annalisa Volpa, ivi, 2019.

8 Accanto al binomio sesso-denaro si sviluppa nella narrativa moraviana un vero e proprio universo tematico, ben catalogato nei due volumi di Nicola D’Antuono: L’universo immaginario di Alberto Moravia: un paradigma, Lanciano, Carabba, 2017 e L’universo immaginario di Alberto Moravia: secondo paradigma, Ivi, 2019. Su Moravia è sempre utile la monografia di Raffaele Manica, Moravia, Torino, Einaudi, 2004.

9 Ha scritto Sanguineti che «di questa tematica dell’alienazione vitale la Noia è oggi l’estremo documento che lo scrittore ci ha offerto»; cfr. Edoardo Sanguineti, Alberto Moravia, Milano, Mursia, 1977, p. 121.

10 A. Moravia, L’uomo come fine, cit. p. 128.

11 Ivi, p. 258.

12 Armando Plebe, Discorso semiserio sul romanzo, Roma-Bari, Laterza, 1965, pp. 103-104.

13 Garboli parlava di «forza mitica e simbolica» dei personaggi di Moravia, sovente collocati nell’«eterna, marcia Roma moraviana dai cieli carnosi e sciroccosi, dai temporali improvvisi, lavata da calde, africane piogge impetuose»; Cesare Garboli, Moravia come Gentile, in La stanza separata [1969], Milano, Scheiwiller, 2008, p. 147.

14 A. Moravia, Diario Europeo. Pensieri, persone, fatti, libri. 1984-1990, pref. di Enzo Siciliano, Milano, Bompiani, 2007, p. 77.

15 Moravia, come molti altri scrittori del Novecento, è stato attento analista della situazione familiare (già con Gli Indifferenti), anche a partire da Freud. Il secolo presenta una ricca gamma di campioni in proposito, da Brancati, Soldati, Morante, Piovene, Ginzburg, etc. S’aggiunga inoltre che il romanzo familiare rientra nella più complessa forma del romanzo di formazione (a cui, nel Novecento, dobbiamo affiancare il romanzo di de-formazione). Su questo problema cfr. Clelia Martignoni, Per il romanzo di formazione nel Novecento italiano. Linee, orientamenti e sviluppi, in Il romanzo di formazione nell’Ottocento e nel Novecento, a cura di Maria Carla Papini, Daniele Fioretti, Teresa Spignoli, Pisa, ETS, 2007, pp. 57-92. Tra i modelli europei hanno un ruolo importante, in proposito, sia Thomas Mann sia Marcel Proust; su quest’ultimo mi permetto di rimandare al mio Proust e la narrativa italiana del primo Novecento (infanzia, memoria e strutture narrative), in «Otto/Novecento», 3, 2016, pp. 21-50 (con riferimenti al Moravia delle Ambizioni sbagliate e di Agostino). Per una panoramica sintetica, ma efficace, del romanzo italiano attorno agli anni ’60 cfr. Gino Tellini, Al crocevia della modernità, in Id., Storia del romanzo italiano, Firenze, Le Monnier, 2017, pp. 370-397.

16 L. Baldacci, Novecento passato remoto. Pagine di critica militante, Milano, Rizzoli, 2000, p. 306.

17 Giacomo Debenedetti, Il personaggio uomo. L’uomo di fronte alle forme del destino nei grandi romanzi del Novecento, Milano, Garzanti, 1998, pp. 46-47.

18 Sullo sguardo antropologico tipico del Moravia viaggiatore mi sia consentito il rimando ad alcune sintetiche osservazioni al mio Per una sintassi dell’altrove. Gli scritti di viaggio in Africa di Alberto Moravia, in Geografie della modernità, a cura di Siriana Sgavicchia e Massimiliano Tortora, Pisa, ETS, 2017, pp. 273-279.

19 György Lukács, Teoria del romanzo [1916-20], Milano, Il Saggiatore, 1965, p. 150.

20 Marco Antonio Bazzocchi, Il codice del corpo. Genere e sessualità nella letteratura italiana del Novecento, Bologna, Pendragon, 2016, p. 159.

21 Sul motivo della noia in chiave psicologica (con molti punti di contatto con le riflessioni moraviane) cfr. Wilhelm Josef Revers, La psicologia della noia [1949], Roma, Edizioni Paoline, 1956.

22 Guido Guglielmi, L’indifferenza di Moravia, in Id., La prosa italiana del Novecento II. Tra romanzo e racconto, Torino, Einaudi, 1998, p. 32.

23 Il fatto che il protagonista del romanzo svolga l’attività di pittore si può giustificare in vari modi. Di primo acchito verrebbe da dire che il bisogno di trovare un contatto con la realtà, concreto e tangibile, trova nella figura del pittore un esemplare autentico della relazione plastica col mondo. Il paradosso, non privo di una certa ironia, sta poi nel fatto che l’artista in questione si sia dedicato a una pittura di tipo astratto. In generale occorre anche ricordare il forte interesse di Moravia per la pittura, testimoniato dalla costante frequentazione di artisti (già la sorella maggiore dello scrittore, Adriana Pincherle, era una pittrice, legata anche a Gadda) nonché dalla ricca messe di scritti dedicati a mostre, collezioni, etc. Testi che si leggono in A. Moravia, Non so perché non ho fatto il pittore. Scritti sull’arte (1934-1990), a cura di Alessandra Grandelis, Milano, Bompiani, 2017. Cfr. inoltre le pagine dedicate alla Noia da Alessandra Sarchi, La felicità delle immagini. Il peso delle parole. Cinque esercizi di lettura di Moravia, Volponi, Pasolini, Calvino, Celati, Milano, Bompiani, 2019 e di Filippo Milani, Il pittore come personaggio. Itinerari nella narrativa italiana contemporanea, Roma, Carocci, 2020, pp. 36-41 (e relativa bibliografia). Ricordo infine, senza approfondire il dato, che nel 1957 Albert Camus aveva dato alle stampe la raccolta L’Exil et le royaume, che conteneva il racconto Jonas, ou l’artiste au travail, dedicato alla figura di un pittore.

24 Non credo sia del tutto inutile pensare in parallelo al problema del segni nella Recherche proustiana indagato da Deleuze; cfr. Gilles Deleuze, Marcel Proust e i segni [1966], Torino, Einaudi, 2001.

25 A. Moravia, La noia, cit., p. 207.

26 Sul rapporto tra l’intellettuale borghese e la ragazza del popolo si è soffermato Guido Baldi, La noia: possesso borgese e donna cosificata, in Id., Eroi intellettuali e classi popolari nella letteratura italiana del Novecento, Napoli, Liguori, 2005, pp. 221-230.

27 A. Moravia, La noia, cit., p. 171.

28 Ivi, p. 144.

29 Ha scritto Onofri che «il problema del sesso, in Moravia, è, in quanto tale, il problema del mistero della realtà. Interrogata nel suo enigma la carne non risponde: impenetrabile sempre, nella sua opera, è il silenzio dei corpo dopo l’amore»; Massimo Onofri, Tre scrittori borghesi. Soldati, Moravia, Piovene, Roma, Gaffi, 2007, p. 80.

30 A. Moravia, La noia, cit., p. 239.

31 Cfr. M. A. Bazzocchi, Corpi che parlano. Il nudo nella letteratura italiana del Novecento, Milano, Mondadori, 2005, pp. 42-43.

32 E. Sanguineti, Alberto Moravia, cit., p. 125.

33 L. Baldacci, Letteratura e verità. Saggi e cronache sull’Otto e sul Novecento italiani, Milano, Ricciardi, 1963, p. 305.

34 Ibidem.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.