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di Antonino Contiliano
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L’editrice Stampa Alternativa, nella nuova collana “Fiabesca BenedettiMaledetti, curata dallo scrittore e critico Stefano Lanuzza, pubblica il suo primo volume (Français, encore un effort si vous voulez être républicains, Roma 2012, pp. 149, € 13,00). Di questo primo libro, dedicato al pensiero politico di Donatien Alphonse François de Sade – la penna della più “sfrenata immaginazione erotica” (p. 21); lo scrittore accusato (solo a causa dei suoi libri) di “empietà, oscenità e perversione” (p. 25) e proposto dallo zio abate per l’internamento in manicomio” (p. 20) perché segnalato come pazzo –, l’autore è anche lo stesso Lanuzza.
L’opera Français, encore un effort si vous voulez être républicains, curata dal nostro curatore – scrittore e critico già provato per il suo interesse verso le figure eretiche e le scritture demistificanti (ricordiamo Louis-Ferdinand Céline, l’altro grande maledetto del Novecento ripescato e pubblicato sempre con Stampa Alternativa) –, immette il lettore nella trama del “Quinto dialogo” del pensiero filosofico-politico del Marchese de Sade (il testo si trova raccolto nella Philosophie dans le boudoir) e lo obbliga a “misurarsi” con le sue argomentazioni prospettiche.
I ragionamenti (pensati dialogicamente, ci pare) di Sade – che si “proclama repubblicano e sembra professare un sorta di comunismo estremo” (p. 23) – si aggirano infatti sul rinnovamento etico e civile francese sulla base di poche leggi (semplici ed essenziali) e una regolamentazione pratico-giuridica corrispondente. In ciò si nota la tensione del Marchese e il desiderio di contemperare la prassi socio-politico-giuridica della nuova società borghese (nata dalla rivoluzione francese e da lui agognata) con i vizi, le virtù della filosofia senso-naturalistica e la felicità materiale immanente che egli riconosce come propellente intellettuale-immaginativo proprio.
De Sade, dalla prigione-manicomio, infatti scriveva alla moglie: “ Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto quanto può concepirsi in tale ambito, ma certamente non ho fatto tutto quello che ho immaginato e di certo non lo farò mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino” (p. 5).
Calunnia, furto, libertinaggio, prostituzione e pratica mercenaria sono gli altri luoghi di invito alla riflessione sui “costumi” che, insieme alla vita e alle altre opere (indicate) del libertino, il lettore, spulciando i titoli e l’indice analitico del libro, troverà “Nel Boudoir del Gran Maledetto”.
Per le pratiche dell’ingaggio (si direbbe oggi) di truppe mercenarie, dell’adulazione cortigiana e pretaiola di laici e religiosi e degli abusi di potere (sembra essere in una società berlusconiana ante litteram), nel libro, il lettore si trova a leggere pure la “Lettera – scritta da Sade – di un cittadino di Parigi al re dei Francesi”.
È la lettera in cui si accusa il re di aver rotto il “Patto federativo” (p. 124) con il popolo, il solo sovrano. Nel testo della lettera, accusato di tradimento, è anche invitato a ravvedersi e a lottare contro i pregiudizi e gli abusi senza indugi. Una presa di posizione netta e decisa in nome di quella libertà ed eguaglianza conquistata dal popolo e degna di tutti i cittadini. I protagonisti e gli attori diretti che hanno fatto la grandezza della Nazione francese, e dato esempio perché gli altri popoli, oppressi dal dispotismo e dalla tirannide, ne seguissero la via e il fine.
“Quale differenza, Sire! Che la vostra sensibilità la percepisca. Preferite perciò questo modo di regnare a quello dovuto soltanto al caso; preferite i preziosi sentimenti di questa nazione, che apprezzandovi dovrà amarvi, ai consigli meschini e politici dei cortigiani corrotti che vi circondano e dei preti fanatici che vi seducono”(p. 130).
La religione e i preti. Un altro versante che Donatien de Sade demistifica e svuota di valore con l’ironia del sarcasmo. La sua regola preferita rispetto alla morte o alla pena di altre violenze gratuite quanto inefficaci.
Di fronte all’“incoerenza” e alla necessità di modifica dei comportamenti, tuttavia, continua il “grande maledetto”, “io non propongo massacri né deportazioni: tutti questi orrori sono lontani dalla mia anima perché io possa osare di concepirli per un minuto. […] queste atrocità vanno bene per i re e per gli scellerati che li imitano”(p. 54).
Come si vede, la praxis che de Sade mette in moto è la freddezza dell’ironia dura, tagliente ed efficace quanto può essere quella che invece assume le vesti del sarcasmo e del ridicolo per le incisive e profonde lacerazioni che provoca nel tessuto ideo-comportamentale dei “costumi” reificati delle masse e dei suoi mediatori e/o apparati confessionali ideologici.
Così Donatien Alphonse François de Sade ci si presenta con la ghigliottina della risata disarmante e combattiva. La risata salutare che ogni “repubblicano”, storicamente laico, non dovrebbe mai abbandonare come arma critica e autocritica di fronte alle acrobazie dell’immaginazione e del potere noetico. Anzi dovrebbe privilegiarla e metterla in pratica esecuzione, permanentemente. Donatien, infatti, scrive: condanniamo “ad essere deriso, ridicolizzato, coperto di fango in tutte le piazze […] il primo di questi benedetti ciarlatani che verrà ancora a parlare di Dio e della religione” (p. 55). Non massacri né deportazione dunque, pensa/immagina e scrive de Sade, ma la satira feroce e demistificatrice: “Usiamo la forza solo contro gli idoli. Non occorre che il ridicolo per chi li serve: i sarcasmi di Giuliano nocquero alla religione cristiana più di tutti i supplizi di Nerone” (p. 54).
Provocatorio e stimolante per la riflessione adrenalinica altresì è il suo discorso sul diritto che deve regolare la “proprietà” di ciascuno alla sessualità felice e al godimento disinibito e libertino nella società della “gaia scienza” razionale; la società per cui il popolo della rivoluzione ha dedicato mente e corpi onde ciascuno non fosse più condannato per le sue libere e convinte scelte di vita individuale e collettiva. Quelle scelte immaginativo-intellettuali che prima di tutto mettono in subbuglio le strutture archetipiche dell’immaginario antropologico coltivato ad hoc.
Il “BenedettoMaledetto” Marchese, infatti, così scrive: “qui si tratta solo del godimento e non della proprietà. Non ho nessun diritto alla proprietà di una fontana che incontro sul mio cammino, ma ho dei sicuri diritti al suo godimento: ho diritto di profittare dell’acqua limpida offerta alla mia sete” (pp. 80-81).
Secondo il “divino”, infatti, la costruzione sociale (quale “necessaria” connessione con la filosofia naturalistica delle pulsioni) nelle sue declinazioni politico-artificiali e innovativo-de-formanti, nonché contrastanti con l’immaginario etico-religioso e politico ossificato del vecchio e nuovo ordine, non può e non deve più giocare a nascondino, o dietro il paravento dei pregiudizi e delle violenze del potere che ossifica la propria egemonia di classe-di-diritto o di legittimo potere come comando e abuso nato da un asimmetrico rapporto di forze tra dominati e dominanti.
Del resto non bisogna dimenticare che per un Pascal il “diritto” è stato il primo atto di violenza che di fatto si è imposto come “ragione” che ha sopraffatto la ragione contraria, e che la scomoda assunzione della “crudeltà” libertina del divino Marchese non è esorcizzabile con i moralismi del comodino ideologico e moralizzatore egemone.
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