LETTI QUASI PER CASO, SCRIBACCHIATI PER UNA QUALCHE NECESSITÀ: Claudio Giunta, “Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca”

LETTI QUASI PER CASO, SCRIBACCHIATI PER UNA QUALCHE NECESSITÀ…

Rubrica senza cadenza e scadenza ovvero Fustino letterario di Lucio Lontano*.

L’idea di questa rubrica birichina sta nel titolo e sottotitolo della stessa, che non necessitano di ulteriori spiegazioni, a nostro avviso. L’unica cosa che val forse la pena precisare è che si è pensato di far leggere lo scarabocchio – prima ancora che venga pubblicato – all’autore, dando a quest’ultimo la possibilità di aggiungere, in coda, anche solo qualche riga, una parola, un’ipotesi di dialogo.

A partire da: Claudio Giunta, Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca, Bologna, il Mulino, «Saggi» (899), 2020, 252 pp., 23 euro.

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di Lucio Lontano*

Il 24 agosto dovrei compiere 54 anni, ma mi sento un po’ come il Tristano di Tabucchi e forse alla fine di agosto non ci arriverò. Il che non vuol dire necessariamente che trapasserò (mi sto toccando). Forse assomiglierà a una resa, della serie: «ci ho provato, ci ho anche creduto, ma adesso andate tutti a quel paese».

E tuttavia, prima di andare a pescare col mio cane nel fiume sotto casa, volevo, come dire, concedermi il lusso di farmi un’idea di un’altra vita, quella di Tommaso Labranca, finita presto, a 54 anni, nell’estate del 2016.

Perché? Perché è vita simile per molti versi alla mia (specie nel meno recente passato, l’altrieri) e insieme completamente diversa (oggi, direi, forse domani): una vita che come la mia ha amato le periferie di una grande città del Nord Italia, le tangenziali, il freddo invernale di quegli spazi urbani ed extraurbani, gli attraversamenti degli stessi, vuoti notturni a piedi, in bici, poi con un mezzo pubblico scassato, infine con una macchina ancora più scassata; una vita che si è nutrita naturalmente della cultura pop in tutte le sue forme (arte e musica contemporanea, canzoni, cinema, commedia all’italiana, pubblicità, televisione, jingle, ma anche fumetto, fotoromanzo, fotografia), per liberarsi dalla cultura ufficiale, universitaria (p. 75), o anche solo per capire che la cultura è esplosione, è fuori, è vita; una vita che ha odiato le vacanze, che non sapeva neanche dove stava di casa il famoso otium e che tuttavia aveva «il senso della frase» (Andrea G. Pinketts, 1961-2018) e a cui bastava «conoscere il ritmo» (Mauro Mao Gurlino, 1971); una vita in cui passano gli anni ma non passano gli affanni e ti sembra sempre di averla sprecata; ma anche una vita riuscita (più che rassegnata a sé stessa), una vita quasi presa al lazzo da una testualità saggistico-narrativa complessa che andrebbe ristampata per capire meglio la trasformazione della società e della cultura in Italia in quel quarto di secolo che va all’incirca dall’inizio degli anni Novanta alla metà degli anni Dieci: Nubigenia. Scoperta e repentina scomparsa di un continente supernubilare (1991), Andy Warhol era un coatto. Vivere e capire il trash (1994), Estasi del pecoreccio. Perché non possiamo non dirci brianzoli (1995), Chaltron Hescon. Fenomenologia del cialtronismo contemporaneo (1998), Neoproletariato. La sconfitta del Popolo e il trionfo dell’Eleghanzia (2002), Il Piccolo Isolazionista. Prolegomeni a una metafisica della periferia (2006), Da zero a Zero (2009), Haiducii. Romanzo d’appendice rumeno-mediatico (2010), Progetto Elvira. Dissezionando «Il vedovo» (2014), Vraghinaroda. Viaggio allucinante fra creatori, mediatori e fruitori dell’arte (2016), Agosto oscuro (2017).

L’idea è di sognare quell’alternativa che pare non esista, non sia data, concretamente, ai più. Se volete, è un po’ come il discorso dei treni che passano una sola volta, in certe vite, come in certe zone; mentre in altre vite e in altre zone puoi davvero prendere quello dopo e non sentirti nemmeno un po’ in «ritardo». Il tempo non è uguale per tutti, non passa, per tutti, nello stesso modo, neanche in seno a quell’alienante accelerazione totalitaria e violenta del medesimo di cui parla Hartmut Rosa.

L’occasione mi è offerta da Claudio Giunta, Le alternative non esistono. La vita e le opere di Tommaso Labranca (2020). Quest’ultimo, nato nel 1962, in una famiglia meridionale trasferitasi nella periferia metropolitana di Milano, un tempo capitale morale del Belpaese, già in un diario d’un centinaio di pagine dattiloscritte steso tra il dicembre del 1991 e il giugno del 1993, cioè intorno ai trent’anni, fa affiorare «il desiderio e la fatica di recuperare» il «ritardo» (p. 225) in cui sembra immersa la sua vita.

Ha una «formazione culturale anomala» che passa per «lo studio delle lingue» – non universitario – e un lavoro disteso e disperso in media vecchi e nuovi – traduce per la De Agostini, e altri editori, roba tosta, tecnica, enciclopedicamente vasta, non il solito romanzetto per cui son buoni tutti, come dice un Suo amico – che è accompagnato da una «familiarità» intima «con la radio e la TV» (p. 43): sa tutto, diranno non a caso in molti, nell’ambiente radio-televiso, di cui, per qualche anno, farà parte, anche attraverso trasmissioni di successo come Anima mia (1997), con Fabio Fazio e Claudio Baglioni, e la già stimata e futura amica Orietta Berti, insieme alla quale scriverà e pubblicherà La vita secondo Orietta (1997).

Sapere tutto, all’epoca, era più difficile di oggi: aggiornamenti e sbattimenti andavano di pari passo, anche e proprio in quei settori in cui le tecnologie cominciavano a imporre strumenti nuovi. E Labranca non voleva certo restare al palo, pur non avendo tutti i mezzi e i contatti per non restarci: ecco perché nel diario citato – e poi in altri luoghi e momenti della sua vita – «invidia chi ha i soldi, o i genitori coi soldi, con quel vittimismo compiaciuto che è tipico dei fuoricasta» (p. 224), misurando inoltre «con la sensibilità di un sismografo gli affronti, le umiliazioni (10.3.1993: “Guglielmi mi diede la mano senza neanche guardami in faccia”)» (p. 225). Ma se questo Labranca resta rappresentativo – e quindi in un certo senso ‘prigioniero’ – del tarlo del «ritardo» di chi parte da lontano, c’è un altro Labranca che – pur in una maniera non più simpatica di quella di Guglielmi – comincia a registrare la crescita di ciò che chiama «la mia leggenda», via quel lavoro artigianale e materiale che gli è congeniale e che consiste nel «fare fanzine», «fare riviste» (p. 31; pp. 31-44). Fare fanzine, riviste e distribuirle per davvero, all’epoca (ma anche dopo, seppur in modo diverso, più ‘patinato’; pp. 21-30), significa per Lui «lavorare» dentro la «realtà», sfruttando un’«occasione di movimento» vera: occasione, suggerirei, nata più pacificamente e musicalmente già durante la seconda metà degli anni Ottanta (dopo l’onda lunga di quei Settanta che ciclostilavano e fotocopiavano altrimenti), ovvero quando il Nostro – con pseudonimi come Santi Bailor (ricordate?) e audaci progetti multimediali come «La Misère Provoque le Génie» – autoproduce nastri e pubblica musicassette dei Liberticide e di Tito Turbina Tastierista Futurista.

In effetti, Labranca, più di altri suoi coscritti, si rende conto che si trova di fronte a «un’occasione di movimento, di riscatto di una stasi secolare» (p. 43). Perché per lui non è solo un gioco, un divertimento underground da figli di papà, anche perché Tommaso non è un figlio di papà: «Mette insieme la fanzine “TrashWare”, che stampa, imbusta, affranca a sue spese e manda a un centinaio di persone in giro per l’Italia sperando di farsi notare, di ricevere la Chiamata: “Spero di essere sommerso di lettere di risposta. Non mi importa cosa dicono, voglio solo ricevere posta (14.4.1993)”; “Io senza posta, telefonate e incontri non riesco a vivere, ho bisogno di essere in comunicazione continua con gli altri (11.5.1993)”» (p. 225).

Chiunque abbia cercato di darsi un po’ da fare in tal senso, in quegli anni o un po’ prima o un po’ dopo, partendo da lontano, magari senza sgomitare e conservando un minimo di eleganza, sa di cosa stiamo parlando. Per un attimo un nuovo e più largo umanesimo sembrava possibile e forse novelli Valla lo si era un po’ tutti, magari senza sapere chi era Valla. Lo ricordo con un Lotman ‘recente’: «Valla non si limitò a mettere al primo posto il confronto con gli interlocutori viventi […] Non aveva né tempo libero né ricchezze né un posto dove stare e, a quanto pare, all’inizio neppure una biblioteca. Ma aveva la prima cosa, che era anche la più importante secondo lui: la possibilità di frequentare direttamente gli umanisti» (cfr. Jurij Michajlovič Lotman, Conversazioni sulla cultura russa, a cura di Silvia Burini, traduzione di Valentina Parisi, Milano, Bompiani, «Studi», 2017, p. 251).

D’accordo, i nuovi umanisti non saranno stati più quelli dell’epoca di Valla, ma le plurali chiamate e le tante lettere e gli incontri diretti che Labranca brama vanno – cinque secoli e mezzo dopo – in una non così dissimile direzione, pur senza l’ufficialità istituzionale dell’Umanesimo d’antan, et pour cause. E poco gli – e ci – importa che gli intellettuali (magari sulla scia di un Pasolini rinnegato perché frocio ma sempre utile come cantore della fine di una civiltà) non facciano che reagire apocalitticamente, pure grazie a un’astuzia che in prospettiva li rivelerà sempre più degli scansafatiche inveterati o degli sterili e infelici simulatori; e poco importa che un’altra variante dello stesso mondo mantenga la distanza critica dello studioso universitario, magari credendo di fare (a partire probabilmente da Umberto Eco) grandi cose nel mescolare un po’ le carte delle culture alta e bassa (e qui Giunta fa suo più volte l’approdo di Labranca e si ripete poco problematicamente, non avendo forse sottomano tutti i dati sul grande lavoro fatto in tal senso, con autoironico sprezzo del pericolo, anche da più recenti generazioni di storici della cultura e della letteratura italiane, paradossalmente più esposte di quelle di ieri, a causa del ritorno di un conservatorismo antimodernista mediocre e meschino che disdegna l’amore e il rispetto filologico per tante testualità pop restate fuoricanone).

A questo proposito, e anche se è al corrente che il Labranca che ha «bisogno di essere in comunicazione continua con gli altri» è lo stesso Labranca che degli altri – di tutti gli altri, a parte qualche selezionato e comunque non sempre durevole amico – farebbe volentieri a meno (e non solo quando è già più in là con l’età; cfr. p. 218 e tanti altri luoghi del libro), Claudio Giunta ricorda quegli anni – la prima metà dei Novanta sostanzialmente – con una partecipazione che convince (pp. 225-227), benevola e cordiale al punto da farci ‘ricordare/dimenticare’ il collega che non così tanto tempo fa, sulla «Domenica» del «Sole-24 ore», evocava la scelta della professione accademica in seno all’amore per una solitudine che suonava ‘aristocratica’ – frequentata anche come tale da Labranca – e per la selezione parca e morigerata del Maestro con la emme maiuscola in rapporto ai potenziali allievi.

Fino a non così tanto tempo fa, quest’atteggiamento, devo confessarlo, mi dava proprio fastidio, perché in cuor mio lo leggevo come la fine prima della fine, e, linee caratteriali a parte, lo percepivo quasi come una causa diretta del fallimento di chi cerca davvero d’inventarsela, una vita, una quête, insieme agli altri e con e per gli altri. Sinceramente, oggi, non so più come dar torto a Giunta, che in questo libro, peraltro, anche quando si mette in scena, mi pare sia più nutrito di pietas che d’ironia. E poi, diciamocelo, quante persone crediamo di poter ‘formare/sformare’ in una vita che sia degna e dignitosa senza diventare manager più che maestri, ovvero complici ‘cacciatori di (belle) teste’ in seno a quell’azienda che ogni alma mater sta sempre più diventando?

In Italia, non a caso, la vocazione dell’headhunter si diffonde – professionalmente e non – a partire dagli anni Novanta e l’alternativa di una vita alternativa cercata da molti è fatta di chiusure, di compartimenti stagni che un decennio fa mi capitava di polarizzare tra i circuiti dei centri sociali e le promozioni rare di uno show business televisivo e radiofonico e di un mondo editoriale che si stavano allargando in maniera più o meno significativa. Da un lato, iniziava davvero a riprofilarsi la lotta, anche violenta, che è contrapposizione dura, esclusione; dall’altro, emergeva il mito pragmatico degli anni Novanta, quello che mirava a costruirsi una vita alternativa ma decisamente integrata, anche a spese degli altri, cioè del gruppo, più o meno esteso, di cui tu stesso avevi fatto parte fino all’anno o al mese o al giorno prima.

Ecco, nel bene e nel male, per me, la vita e le opere di Tommaso Labranca procedono insieme a nutrire – parecchio al di là di quel trash in cui è stato conficatto, inchiodato come a una croce, quasi fosse il re di un’intelligenza fine a sé stessa e solo dedicata alla spazzatura – uno dei tentativi più genuini di catturare con piglio saggistico-narrativo e qualche ‘intuizione-invenzione’ lirica ciò che di falso stava scivolando nella vita birichina e maldestra di molti di noi, nati tra l’inizio degli anni Sessanta e quello dei Settanta.

Detto questo, al di là dei risentimenti, più o meno comprensibili, verso chi (amico o non) ce l’aveva fatta per davvero, riuscendo a entrare – e soprattutto a restare – nello show business televisivo e radiofonico e nel mondo editoriale che si stavano un po’ allargando, il tentativo di Labranca non mette in discussione il sistema ma chi lo ha abitato a tal punto da renderlo sempre più ripetitivo e sterile.

Possiamo non essere d’accordo con la sua terminologia, possiamo non apprezzare un certo cinismo, ma non possiamo non tenere nel giusto conto la vita e l’opera di un ‘post-ragazzo’ che aveva «bisogno di essere in comunicazione continua con gli altri» ma che della deriva più gettonata dei famosi altri aveva colto l’inconsapevole e oltremodo pericolosa coazione a ripetersi, via un modulo ad excludendum di cui non ci siamo ancora liberati e di cui – a onor del vero – lo stesso Labranca faticava a disfarsi.

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«Grazie! La sua lettura è molto intelligente, e centra un pezzo importante del libro: io posso solo dire che sottoscrivo questa parte, ma il libro vorrebbe essere anche il ritratto (e la valorizzazione) di uno scrittore che in sé merita di essere letto e studiato, anche al di là del suo ruolo emblematico per la cultura degli ultimi decenni» (Claudio Giunta).

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* Al secolo Luciano Curreri (1966-?), che ha sempre recensito poco e quasi sempre altrove, tanto da essere disperso e perso in vari siti oltre che in: «Ariel», «Chichibìo», «C4», «ConTEXTES», «domani.arcoiris.tv», «Ermeneutica letteraria», «Filologia e critica», «Franco-Italica», «ilcorsaronero», «Il giornale storico della letteratura italiana», «Incontri», «L’indice», «mentelocale», «Mixed Zone – Chronique de littérature internationale – Site Culture ULIEGE», «Rassegna dannunziana», «Rassegna europea di letteratura italiana», «Rendiconti», «Reti di Dedalus», «Retroguardia 2.0», «Revue d’histoire littéraire de la France», «Stilos», «Studi buzzatiani», «tellusfolio.it», «Textyles», «TODOMODO», «vibrisse»…

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.