LEGACCETTI (Recensioni come ricordi): Ernesto Ferrero, “Napoleone in venti parole”

Ernesto Ferrero, Napoleone in venti parole, Torino, Einaudi («ET Saggi»), (marzo) 2021, 270 pp., 13,50 euro.

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di Luciano Curreri* (ULIEGE, Belgique)

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Dopo vent’anni pieni dal successo di N. (2000), Ernesto Ferrero risponde presente al duecentesimo anniversario della morte di Napoleone (il famoso cinque maggio del 1821) con un saggio fresco, sempre per Einaudi, Napoleone in venti parole (2021). Certo, il Nostro era già tornato a più riprese a confrontarsi con Bonaparte e dintorni e il bel volumetto di Lezioni napoleoniche sulla natura degli uomini, le tecniche del buon governo e l’arte di gestire le sconfitte, uscito per Mondadori nel 2002 e nel 2014, offre una base soprattutto alla prima parte del saggio recente, per una decina dei venti capitoli di cui si compone, cioè quelli relativi, citiamoli, a L’uomo, Famiglia, Donne, Sistema operativo, Politica, Strategia, Economia, Comunicazione, Arte, Libri. Non che non ci siano richiami altrove, specie in un paio di capitoli finali, Errori e Mito, ma nella seconda e più consistente parte del nuovo libro la Storia segue – in seno a piglio e ritmo ‘narrativo’ – le tappe note dell’avventura napoleonica via modalità mene cursorie e più cronologiche.

Detto questo, il background di N. c’è sempre, a partire dai Comprimari, a dire bene e quanto basta l’interesse di Ferrero per uomini e donne eccezionali, nel bene come nel male, che provano a rendere plurale e variegato un mondo che per un ventennio circa, tra fine Settecento e primi due decenni dell’Ottocento, sembra appartenere solo a Napoleone I, anche quando è recluso, oppure sostanzialmente a nessuno: Italia, Egitto, Incoronazione, Russia, Elba, Waterloo, Sant’Elena.

Insomma, i temi-chiave della prima parte del libro costituiscono una propedeutica introduzione alla grande avventura raccontata nella seconda, grazie anche al montaggio aggiornato e vivace nutrito da letture e scritture post-N., di altri e dello stesso Ernesto Ferrero: da Elisa (2002), monologo teatrale edito nella collana «La memoria» di Sellerio, a Napoleone e i libri (2015) per Henry Beyle, passando per un libro per bambini, Il giovane Napoleone (2006 e 2020), pubblicato da Gallucci e la breve ma densa introduzione alle Memorie della campagna d’Italia (2012), a cura di Thierry Lentz, tradotte e proposte in un elegante volume da Donzelli.

Questi rinvii sono più o meno facilmente estrapolabili dalla Nota di bibliografia ragionata che chiude il volume: più o meno facilmente perché Ferrero non li mette in fila, né fare loro occupare le devant de la scène, anzi li dissemina e quasi, direi, tende a nasconderli, per pudore, citando di preferenza, pure nel corpo del testo, i lavori di Alessandro Barbero, Luigi Mascilli Migliorini… e gli amatissimi Mémoires d’outre-tombe di Chateaubriand.

Quello che la Nota non scrive è quanto sia stata improntata al suo N. financo la narrativa più distante di Ferrero. In effetti, anche se la vita ha insegnato ben prima, al Nostro, l’apprezzamento di quell’«antagonista» di cui tutti «abbiamo bisogno», nella persona dell’«Imperatore» Giulio Einaudi, «servito con gioia», di cui diceva non a caso l’epigrafe di N., il ‘principio principe’ dell’antagonista pare funzionare un po’ in tutte le epoche della civiltà e a tutte le età dell’uomo e accompagnarsi al disvelamento della natura umana che spesso si dà o è data in finzioni, recinti, teatri, che Ferrero persegue, mette in scena e poi smonta.

In tal senso funziona pure, per esempio, la Storia di Quirina, di una talpa e di un orto di montagna (2014, illustrata da Paola Mastrocola per «L’Arcipelago» di Einaudi), un apologo leggero sul nemico che ci aiuta paradossalmente a essere e a fare, a identificare noi stessi e a comportarci più o meno conseguentemente (e non proprio in seno al desiderio mimetico di cui parlava René Girard).

In N. si accetta finanche di far perdere le proprie tracce, di ‘sparire’, come fa quel Martino Acquabona che, privato dell’antagonista Napoleone, lascia l’Elba, alla fine del romanzo del 2000; in Storia di Quirina… si dice di sì a un’altra e più anziana decostruzione del sé, al disordine introdotto in un orto e in una vita ordinati, figli di una disciplina, di un’arte che hanno bisogno del loro contrario, di un naturale genio sotterraneo e ‘sregolato’ che spinga la sfida sempre al di là del consueto, ovvero la talpa, per l’appunto.

Ecco allora l’Elba come un orto di montagna: due ‘teatrini’ che vanno accettati e messi in questione, per una storia dell’umanità che non si ferma ai piani alti, unisce macrocosmo e microcosmo, e indica poi una strada più serena di quella violenta e volgare percorsa sovente dalla Storia. Non si uccide né Napoleone, né la talpa. Lo si sogna, ci si prova quasi ma Napoleone e la talpa non devono morire.

Si vuole sempre più capire, non giudicare; si tenta di comprendere, non di violare. Certo, l’ironia, le citazioni, le virgolette aiutano a dire, con l’eleganza e la naturale verve di Ferrero, «un’amara verità: la gloria e il potere consistono principalmente in un assedio di postulanti e di cacciatori d’impieghi» (p. 146). La denuncia di questo «assedio» è la vera, insistita e spontanea polemica – la vera battaglia – nei confronti di un mondo rappresentato da questuanti e da attori. Questo mondo tende ad annegare miti e talpe, uomini e animali, in una sorta di diluvio voluto dall’uomo per l’uomo, quasi intuito in una dissolvenza di quel ‘ritorno’ che pare non darsi e dirsi più dopo cotanto, inarrestabile e inenarrabile «assedio».

È un mondo in cui la critica tutta agonizza, insieme al buon senso, anche per la moda, la tendenza – sempre meno apprezzabile, meno elegante, e sempre più intollerante e totalitaria, più violenta e volgare – del culturalmente, eticamente, politicamente, sessualmente, socialmente ‘corretto’.

Di Napoleone non bisognerebbe parlare, dice questo mondo, né scrivere. È morto duecento anni fa, lasciatelo riposare, che ne avrà ben donde, anche se magari sarà stato in grado di portare all’inferno un po’ di quella Sua imperiale iperattività e ora starà forse brigando, come in passato, per tornare altrimenti, specie in seno a quella Repubblica che ha sempre saputo tanto d’Impero, in Francia (e altrove), pure quando ne parlava chi a ben altro esperimento – socialmente, sessualmente, politicamente, eticamente, culturalmente ‘non perbene’ ma per il bene collettivo – plaudiva, cioè quella Commune de Paris sepolta in un bagno di sangue 150 anni fa, dal 21 al 28 maggio 1871.


*Luciano Curreri (Torino 1966), ordinario di Lingua e letteratura italiana all’Université de Liège dal 2008, fa parte della redazione di «Retroguardia 3.0» ed è attivo soprattutto come saggista e narratore. Recentissimi due esperimenti sostanzialmente impuri ed ibridi: Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai «Sei pensieri grati e gratis», InSchibboleth («Margini», 6), Roma 2021, e Tutto quello che non avreste mai voluto leggere – o rileggere – sul fotoromanzo. Una passeggiata, con Michel Delville e Giuseppe Palumbo, Comma 22, Bologna 2021. In seno al 150° anniversario della Commune de Paris, da ricordare infine e almeno il birichino e fortunato La Comune di Parigi e l’Europa della Comunità? Briciole di immagini e di idee per un ritorno della Commune de Paris (1871), Quodlibet («Elements», 20), Macerata 2019.

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Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.