di Antonino Contiliano
Il rapporto dell’artista col tempo in cui si manifesta è
sempre contraddittorio. È contro le norme vigenti, norme
politiche per esempio, o persino schemi di pensiero,
è sempre controcorrente che l’arte cerca di operare
il suo miracolo.
J. Lacan (L’etica della psicoanalisi)
Arte e poesia possono ancora oggi contrastare l’ordine della realtà o lo stato di cose presente organizzatoci dal biopotere attorno ai suoi significati di comodo e di comando?
È la domanda, direi anche l’atto, che alimenta il discorso e l’analisi che fanno il nucleo di fuoco centrale del libro L’arte della sovversione – a cura di Marco Baravalle, manifestolibri/uninomade, Roma, 2009 – e del libro di Massimo Recalcati, Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica – Ed. Bruno Mondatori, Milano, 2007.
Le due opere, pur con un oggetto tematico diverso, a nostro modo di vedere, percorrono lo stesso binario. È quello della soggettività e della singolarizzazione come conflitto e rottura. Una conflittualizzazione che si basa, direbbe il Lacan di Massimo Recalcati, e per questo in sintonia con l’esodo del lavoro vivo dalla cattura del Capitale del libro curato da Marco Baravelle. L’impossibilità da parte del discorso del Significante Padrone, dell’Università e del Capitalismo cognitivo di chiudere il cerchio nell’identità del Medesimo o dell’Altro. Una chiusura impossibile e contraddittoria sia che l’Altro si presenti sotto la legge della misura astratta della sussunzione al “valore” di scambio del capitale o della “rendita” per sottomettere la potenza creativa del lavoro delle singolarità, sia che, nel campo dell’arte e della poesia, si presenti come riduzione simbolica del linguaggio o delle immagini delle stesse soggettività implicate nei processi dell’enunciazione e dell’enunciato per farle corrispondere biunivocamente o ridurre il significato al puro significante. In quanto una presunta “parola piena”, garantita da un’altra ipostasi semantica, e presunta pre-esistente, farebbe da garante per certificare la comunicazione intersoggettiva senza interferenza alcuna.
Ma se così fosse, nessun futuro di ricerca e di alternativa sarebbe ipotizzabile. Nessuna trasformazione, nonostante tempo e storia attestino un divenire permanente, sarebbe concepibile e impensabile sarebbe il metterla a lavoro. Ma tempo e storia e lotte sociali, politiche e culturali, nolenti o volenti, investono con i loro dinamismi i vari processi con antagonismo destabilizzanti contingenti quanto necessari.
Nell’introduzione al libro L’arte della sovversione, Marco Baravalle scrive degli interrogativi che già, di per sé, sono una fuga dall’ordine del Padrone e di ribaltamento erosivo della sua vecchia logica di espropriazione.
Che rapporto intercorre tra componente cognitiva del lavoro e arte contemporanea? Esiste un potere sovversivo della creatività? Chi detiene la potenza del creare? Quali sono i dispositivi capitalistici della cattura della produzione culturale? Quali modalità mettere in atto per ribaltare questa cattura? Quali movimenti hanno saputo individuare e mettere in crisi i meccanismi istituzionali della sussunzione? Come si coniugano, nel mercato artistico, libertà espressiva e cristallizzazione all’interno di logiche finanziarie? Come funziona la messa a valore della metropoli nei processi dell’economia culturale? Cosa significa parlare di arte contemporanea come governance? Che rapporto si costituisce tra politica e creatività? Come si fa inchiesta nella fabbrica della cultura? (p. 11)
Nel libro di Marco Baravalle, questo campo di esercitazione e di attacco, di erosione e di ribaltamento fa tutt’uno con quello dell’azione e dell’atto volti alla “sovversione”. La sovversione, come azione possibile, è messa in luce dalle analisi e dalle proposte dei diversi autori che hanno scandagliato il campo nemico. Il libro è diviso in tre parti.
Parte I – ARTE, SOGGETTIVITÀ E ATTIVISMO:
Brian Holmes (Ricatturare la sovversione. Rovesciare le regole del lavoro culturale); Judith Revel (La potenza creativa della politica, la potenza politica della creazione); Maurizio Lazzarato (Molare e molecolare: rapporti tra soggettività e cattura nell’arte); Claire Fontaine (Artisti ready-made e sciopero umano. Qualche precisazione); Giovanna Zapperi (La soggettività contro l’immagine. Arte e fennismo); Marco Scotini (IL dissenso: modi di esposizione. Il caso dell’archivio Disobedience); Vincent Meessen e Marko Stamenkoviç (Rendezvous); José Pérez de Lama aka Osfa (L’arte come macchina ecosofica. Guattari oltre Guattari); Hans Ulrich Obrist – intervistato da Marco Baravalle – (Oltre la mostra, oltre la metropoli):
Parte II – ARTE E MERCATO:
Andrea Fumagalli (Mercato dell’arte, bioeconomia e finanza); Matteo Pasquinelli (Oltre le rovine della città creativa. La fabbrica della cultura e il sabotaggio della rendita); Angela Vettese, Anna Daneri, Chiara Bersi Serlini (Tavola rotonda su arte e mercato).
Parte III- ARTE E MOLTITUDINE:
Antonio Negri (Gli intermittenti dello spettacolo o la figura dell’eccezione francese. Breve storia di un’inchiesta in zona precaria); Tommaso Cacciari (Venezia: l’investimento dell’arte contemporanea e il lavoro precario nella fabbrica della cultura); Alberto De Nicola e Gigi Roggero (La parte della moltitudine).
Alla cattura capitalistica nell’epoca dell’economia cognitivistica e immateriale, l’artista e la moltitudine delle singolarità invece può rispondere con la sovversione degli stessi dispositivi messi in atto dall’ordine del PADRONE, e lì dove, per esempio, un soggetto collettivo simula la falsa azione rassicurante del biopotere mostrandone il volto ipocrita e repressivo di sfruttamento mercantile e servile.
È caso dell’azione di un gruppo, documentato altrove (Tiziana Terranova, New economy, finanziarizzazione e produzione sociale nel Web 2.0, in Crisi dell’economia globale, Ombre Corte/UniNomade, Verona, 2009, pp.144-48), quali The yes Man e GWEI – “google che mangia se stesso” –, che operano nella guerra dell’assemblaggio dei network come “parassiti” critici.
Questi soggetti dal nome collettivo – The yes Man e GWEI – si inseriscono come agenti di grossi organismi trans-nazionali, come il Wto, Exxon, McDonald, ecc., e, come loro credibili attori, si fanno portavoce mass-mediale di presunti rimborsi o misure di contropartite gratificanti i danneggiati per i disastri che le stesse organizzazioni hanno provocato alla collettività mondiale e all’ambiente. E sono questi stessi soggetti che, nascenti fra gli attuali scenari dell’assemblaggio dei saperi, delle conoscenze, delle tecniche e dei linguaggi – e mossi all’opera dalle “scienze dell’incertezza” –, possono, altresì, essere già un sentiero per far trasmigrare – come esempio di lotta possibile – il tipo di azione indicato come sabotaggio e sovversione o sfondamento del fronte simbolico e politico ritenuto monolitico e luogo del biopotere in rete.
È la lacerazione del “pieno” allora che entra in gioco. È l’incertezza della chiusura biunivoca che scende in campo. E scende lì dove specie la parola e l’immagine della poesia e dell’arte delle soggettivazioni/singolarità “creative” impediscono al circuito dell’enunciato e dell’enunciazione di chiudersi autoreferenzialmente, o di cattura, nella significatizzazione delle idee della cultura dominante, il senso-sinthome (lo scarto non catturabile). Qui infatti è lo scarto o la pulsione che buca il linguaggio e l’immagine e, anzi, li presenta come costeggiamento dell’irrappresentabile. Il Vuoto/Cosa – Das Ding –, allora, fa la comparsa oltre le stesse operazioni lirico-retoriche freudiane della metafora (condensazione) e della metonimia (spostamento e sottrazione).
Ed è su questo, nell’opera Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, che Massimo Recalcati discute e argomenta ripresentando la trama come diveniente rottura conflittuale. È una lacerazione messa in campo nei confronti del “significato” dell’ordine immaginario-simbolico del Padre/Padrone/Altro. Il potere che, nella logica del controllo della coscienza, vorrebbe baipassarsi come dominio indiscusso attraverso una comunicazione intersoggettiva prospettata come oggettiva, e elidendo/escludendo la “sublimazione” orrifica del Vuoto o del “Reale” ribelle oltre il principio di piacere e di realtà freudiano. Un ribelle irriducibile alla rappresentazione, alla leggibilità e alla comunicazione oggettiva delle formule e dei protocolli.
Il libro Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, oltre ad essere accompagnato dall’introduzione dello stesso Recalcati, da una nota e i dovuti ringraziamenti, presenta lo spartito in due momenti. In appendice, una sosta illuminate sui rapporti tra la parola della poesia e quella della psicoanalisi.
Il primo spartito è: La forma e l’informe. Il suo insieme è fatto di sottoinsiemi con i rispettivi temi. Gli insiemi sottoinsiemi sono: La sublimazione artistica e la Cosa; Le tre estetiche di Lacan; L’ideologia dell’informe.
Il secondo spartito è: Poetiche del reale (Tàpies, Moranti, Burri, Polloch, Kline). E poi le sottodeterminazioni: Il nome come destino (La poetica del muro di Antoni Tàpies); L’immagine-segno (Giorgio Moranti e la poetica DEL VUOTO); “Un’irriducibile presenza” (La poetica della materia di Alberto Burri); “Sono ancora quadri?” (La poetica dell’atto di Jackson Pollock); Creazione e distruzione (La POETICA DEL SEGNO DI Franz Kline); Il Crocifisso di William Congdon; Atto e giudizio in Marco Fantini; Copiare i nomi del Padre.
L’appendice è: Il trauma della poesia. Qui la parola analitica della psicoanalisi e della poesia lascia aperto lo spazio alla frattura e al conflitto. Il discorso del dis-corso argomentativo e della de-cisione critica che affronta il rapporto tra la parola, l’immagine e l’inconscio, o tra il desiderio e la “ripetizione” irriducibile della pulsione erotica. L’eterogeneo che mette in crisi il progetto della “parola piena”, ovvero la coincidenza dell’enunciato e dell’enunciazione nel linguaggio della poesia, e nella stessa comunicazione asimmetrica tra la parola dell’analista e dell’analizzato.
Nelle due opere, insomma, secondo noi, c’è una straordinaria coincidenza di intenti lì dove, stante la “politicità della creatività” e la “creatività della politicità”, che caratterizza la soggettività e la singolarità dei soggetti nel loro divenire socio-politico e pubblico, il fronte comune è quello del non addomesticamento delle contraddizioni fondamentali. Contraddizioni che nel capitalismo cognitivo, dedito alla cattura del capitale simbolico collettivo della cultura entro le maglie della rendita e del suo plusvalore, ancora una volta si presentano nel tentativo di dominare e appiattire il lavoro vivo (la potenza) sul “lavoro morto” e misurabile, o nella parola analitica e poetica dove si vuole imprigionare il “senso-sinthome” nel circuito del significato del significante-Padre o del Padrone.
Una coincidenza semantica (già bucata) tra significante e significato sia che riguardi il capitale simbolico collettivo che la singola parola poetica, specie lì dove la “lettera”, dice Lacan, è invece “lituraterra”: scarto e irriducibilità; il distanziamento dell’allegorizzazione immanente quanto storica determinata, ma non chiusa, che taglia il discorso d’ordine sia del padrone che del lirismo dell’interiorità, che disconosce l’esteriorità o l’eterogeneo come suo “estimo” – “estimeté”: punctum perturbante, l’unheimlich –, ovvero quell’intimo-esteriore che è sempre in agguato per un sabotaggio.
Sì che la corporeità materiale e determinata, anche storicamente, può sfuggire alla dialettica servo-padrone e inaugurare una nuova rivoluzione, comunque, risemantizzante il simbolico-immaginario. Perché, comunque, nessuna nuova forma, dall’informale all’asemantico, può rifuggire dal conflitto con il simbolico e dalle sue tensioni di rottura, così come nessun bene collettivo – il capitale culturale dell’immateriale – può essere ridotto alla forma della misura del valore vecchio tipo (lavoro e salario) o nuovo tipo (valorizzazione atipica o non proprietaria) della cultura e rendita).
“Una delle caratteristiche cruciali del capitalismo cognitivo e dell’economia dell’attenzione è rappresentata dal fatto che quando il capitale simbolico viene accumulato, è ben difficile de-accumularlo.
“Queste proposte mancano di una comprensione di base dei modelli economici del capitalismo cognitivo: non è possibile avanzare un progetto politico per la fabbrica della cultura senza agire, in fin dei conti, sull’accumulazione di plus-valore. La rendita terriera collegata alla produzione culturale e artistica, per esempio, deve essere affrontata con una diversa strategia. Recentemente, Toni Negri ha criticato le forme di soft activism nella metropoli, ovvero chi crede che la ‘diagonale politica’ possa evadere il ‘diagramma biopolitico’ e che cioè si possano costruire zone temporaneamente autonome come si intendeva alcuni decenni fa. In altri termini, Negri sottolinea come l’azione politica debba intaccare la produzione economica in generale e le forme di sfruttamento, diventando altrimenti solo un gesto effimero e particolare. Nel caso della gentrificazione urbana e culturale una delle ipotesi che rimane sul campo è, logicamente, il sabotaggio diretto della rendita — ovvero, un rovesciamento del valore che si è accumulato alle spalle della produzione comune di capitale culturale e simbolico” (L’arte della sovversione, pp. 155-56).
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