Inquietum est cor nostrum: Luigi Maria Epicoco, “La scelta di Enea. Per una fenomenologia del presente”

Luigi Maria Epicoco, La scelta di Enea. Per una fenomenologia del presente, Rizzoli, 2022, pp.192, € 16,00


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di Luigi Preziosi

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E’ in libreria da qualche mese La scelta di Enea, edito da Rizzoli, che offre al lettore un’ampia e articolata raccolta di riflessioni sul presente, confuso ed incerto, che ci è dato di vivere. E’ l’ultima opera di Luigi Maria Epicoco, filosofo e teologo che alla profondità di pensiero affianca una ragguardevole capacità di scrittura. Già nella seconda metà del secolo scorso il teologo francese Jossua insisteva sulla necessità di un riavvicinamento tra teologia e letteratura, ed in La scelta di Enea questo risultato, sotto le specie, per quanto attiene al cotè di saggistica letteraria, pare pienamente raggiunto.

Epicoco, infatti, sviluppa il suo personale contributo all’analisi della “fenomenologia del presente”, come recita il sottotitolo, ricorrendo alle suggestioni evocate dal mito di Enea, ed utilizzando alcuni elementi fondanti della narrazione virgiliana come strumenti di interpretazione del nostro presente. Virgilio, dunque, assume nuovamente il ruolo di guida, pur in un contesto opportunamente attualizzato, da un lato, e dall’altro riletto, come avverte l’autore nell’introduzione, avendo “come punto di riferimento l’esperienza cristiana”, “nella convinzione che il messaggio del Vangelo e soprattutto la persona di Gesù siano lo sguardo più realistico e al tempo stesso più positivo che si possa avere sul mondo e sulla vita”. Ed ancora: Virgilio come anticipatore (se non profeta, ma per via diversa da quella leggendaria della Quarta ecloga), o almeno come descrittore di condizioni esistenziali evidentemente comuni all’uomo del suo tempo e a quello contemporaneo, che, peraltro, rispetto al primo, ha dalla sua l’immenso lascito della Rivelazione cristiana.

Epicoco, nell’epopea raccontata da Virgilio, ravvisa alcuni passaggi particolarmente “congeniali ad illuminare il tempo attuale”, e struttura così il suo testo collocando ad inizio di ogni capitolo altrettante personali riscritture degli episodi trascelti. Sottolineando gli ambiti più psicologicamente rilevanti della narrazione virgiliana, propone poi collegamenti con le situazioni dei nostri tempi che, da un lato, li rispecchiano in modo singolarmente significativo, e, dall’altro, urgono maggiormente alla nostra coscienza. Si tratta di un’operazione di inculturazione in due tempi, con la quale, tramite la attualizzazione dei topoi dell’epopea di Enea, il teologo parla la lingua dei nostri giorni, proponendo il suo sapere nelle forme più consentanee alla sensibilità contemporanea.

Vengono così in considerazione “la fine di Troia”, che offre spunti per una riflessione sulla nozione di trauma, “il viaggio”, trasfigurato come itinerario di speranza, “Anchise, il padre sulle spalle” che apre a visioni di inclusione della vecchiaia, “Ascanio: il figlio per mano”, ovvero il rapporto con le nuove generazioni, “Le tempeste”, e “La fondazione della nuova patria” che introducono alla fenomenologia delle crisi personali e collettive e alla possibilità (o a volte necessità) di sortirne sia individualmente che operando per rifondare una società generativa.

Nel corso dell’esistenza di ognuno è possibile incrociare (o, meglio, è difficile non farlo) qualcosa che abbia il segno di una personale caduta di Troia. L’accidentato percorso di recupero di un trauma esistenziale si avvia non tanto da un irrigidimento interiore, spesso inevitabile ma il più delle volte controproducente, ma dalla consapevolezza interiorizzata, con tutte le difficoltà che ciò comporta, e che Epicoco certo non minimizza, che esso “è l’esperienza in cui ci accorgiamo di non bastare a noi stessi, di non esistere da soli al mondo, che la nostra sofferenza non è l’unica sofferenza al mondo, e i nostri desideri non sono gli unici desideri al mondo”. D’altro lato, “la solitudine è la grande cassa di risonanza … dove le esperienze possono diventare dei terribili gironi dell’inferno invalicabili”. Epicoco auspica quindi una forma di solidarietà spirituale che induca a scoprire che “se da una parte ogni dolore e sofferenza sono unici perché noi siamo unici, c’è una similitudine che crea una sottesa solidarietà tra le persone”. In tale solidarietà è destinato ad annegare quel senso di autosufficienza, che spesso tendiamo a ritenere parte fondante del nostro sentirci adulti. Al contrario, ogni svolta esistenziale dovrebbe essere sostenuta dalla considerazione generale secondo cui “la più grande consapevolezza della vita adulta è non dimenticare mai che, per quanto possiamo crescere in autosufficienza, la nostra vita continua a rimanere nelle mani di qualcun altro”. Ciò vale per i rapporti con gli anziani e con i giovani, di cui si dirà più avanti, ed anche per lo sviluppo di una accettabile vita spirituale, che si nutre della nostra esperienza di relazione. Al riguardo, teologicamente rilevante è la distinzione, non sempre chiara nel sentire comune, che l’autore traccia tra esperienza religiosa, possibile anche “a prescindere dalla fede”, essendo “esperienza di rassicurazione che lì dove non trova un alfabeto sacro lo sostituisce con altri idoli”, ed esperienza di fede, “esperienza di lasciarsi cambiare nelle nostre percezioni di fondo, riguardo proprio a noi stessi, al mondo e a Dio”.

L’immagine archetipica di Enea che porta Anchise sulle spalle tenendo il figlio Ascanio per mano è quella che ha più impressionato nel corso dei secoli i lettori di Virgilio. E’ anche quella che, per la sua densità di senso, meglio si attaglia al ragionare sulla vita che interessa Epicoco. In tanti siamo, o siamo stati, in via figurata o reale, Enea con Anchise sulle spalle ed Ascanio per mano, e soprattutto, tutti siamo al tempo stesso Enea ed anche Ascanio, ed anche Anchise.

Epicoco sottolinea che “Enea non salva delle cose, salva qualcuno. Sa che per poter affrontare l’ignoto non ha bisogno di denaro, ha bisogno di radici”. E’ dunque nell’essere radice che si situa il valore della vecchiaia, proprio in quanto “portatrice di memoria, di esperienza, di capacità di discernere, di vedere dov’è l’essenziale”.

E nell’accudimento ad Anchise, rispecchiamento non solo della vecchiaia da includere per “mettere in contatto ciò che è memoria con ciò che è sogno, utopia, perché il nostro presente diventi sempre più fecondo”, ma anche immagine della conservazione e dell’utilizzo della memoria collettiva, si può scorgere, di scorcio, una necessità che urge per i nostri giorni: preservare e valorizzare la cultura umanistica (in questo particolarissimo senso, vecchiaia del nostro mondo). Se, infatti, il nostro tempo stenta a considerare la senilità come risorsa da integrare all’interno della società, si rischia che “allo stesso modo lo studio della storia oppure le ricerche di senso della filosofia, l’approccio umanistico alla vita attraverso la letteratura, l’arte e la musica saranno viste semplicemente come qualcosa al margine della cultura stessa, come un sapere riservato semplicemente a qualcuno ma non più come un sapere decisivo per l’umanità stessa. Ma proprio quando si esclude questo approccio umanistico alla realtà, lì nascono generazioni di persone che sono competenti funzionalmente ma condannate a un’infelicità senza consapevolezza”.

Di nuovo la consapevolezza, come cardine di un’esistenza a cui tocca l’attraversamento di un presente difficile da decifrare, che può svilupparsi in una cura ed in un arricchimento della vita lato sensu spirituale. Karl Rahner, in Cose di ogni giorno, individuava un ambito molto vasto per la spiritualità esprimibile nel nostro tempo, definendo una base sulla quale fossero possibili (ed auspicabili) ulteriori arricchimenti nella ricerca di senso che ci incalza: “io penso, studio, prendo delle decisioni, stabilisco dei rapporti con gli altri, vivo in una comunità fondata su fattori non solo biologici ma anche spirituali, amo, gioisco, gusto la poesia, posseggo i beni della cultura, della scienza, dell’arte, ecc. So quindi cosa è lo spirito.” Una spiritualità dunque non esclusivamente circoscrivibile nell’ambito del religioso, ma che ne può costituire comunque significativa premessa, da non disperdere ma piuttosto da tutelare.

Il senso della fine si amplia da una visione biologica dell’esistenza ad una consapevolezza capace di contemplare con serenità il senso di finitudine che, in fondo, si manifesta ad ogni svolta della vita. Se si riesce a far proprio il convincimento che “la nostre esperienza hanno sempre un inizio e una fine”, allora la storia, quella collettiva, ma anche quella singola, in una prospettiva di salvezza, “non è mai fine ma è sempre cambiamento, trasformazione, è sempre continuazione”. Queste riflessioni inducono ad una visione della vecchiaia come un tempo di generosità, nel quale si può attuare un “meccanismo generativo di filiazione, di prolungamento del proprio bene attraverso lo spazio lasciato agli altri”. Se, tuttavia, questa visione perde nerbo, si trasforma in un ripiegamento su se stessi e in un’attenzione sempre più pressante sui propri limiti, si ha una vecchiaia sterile, se non umanamente negativa. Il richiamo alle vicende di Saul e Davide è inevitabile: il complesso di Saul si declina con connotati non sempre facilmente discernibili, ma non è comunque poco diffuso ai giorni nostri, in cui “a volte gli anziani che occupano posti decisivi all’interno delle diverse istituzioni fanno fatica a ceder il passo, a togliersi, a congedarsi per far spazio al nuovo”, tanto da causare “un’incapacità di successione nella politica, nella cultura, nella scuola, nella famiglia stessa o in ambiente ecclesiale”.

La suggestione, permanente nel tempo, della figura di Enea si coglie nel doppio e contestuale legame con il padre, la senilità, e con Ascanio, che è, più che sguardo, impegno verso il futuro che ad ogni generazione si rinnova, e che la stretta di mano di padre e figlio plasticamente raffigura.

Secondo Epicoco, un rapporto di amore fecondo tra le generazioni non può prescindere dal “principio del mistero dell’altro”. Ecco configurarsi una forma di educazione dei figli di estremo impegno, perché fondata non su imposizioni ma su un criterio alto di libertà. Una vera educazione contempla necessariamente un incoraggiamento a sviluppare nell’altro delle domande, prima ancora che un impegno a fornire risposte: “…possiamo dire di aver educato quando abbiamo educato l’altro, il figlio, la figlia, la vita consegnata nelle nostre mani, a coltivare la domanda, a coltivare quell’interiorità dove è possibile lo svelarsi del mistero”, perché educare è, in definitiva, sviluppare l’intelligenza, nella sua accezione originaria, quell’intus legere che serve a decifrare la realtà.

E’ quindi un’educazione allo sviluppo dell’interiorità quella che colora il rapporto tra genitore e figlio. Di qui la valorizzazione della domanda, che in ambito di fede si identifica con un “atteggiamento di aspettativa nei confronti del reale, che corrisponde alla preghiera”, intesa anche come rimedio all’individualismo, “infelicità strutturale dell’uomo contemporaneo” perché “l’individualista non prega, non ha bisogno di essere teso verso la realtà, ha il suo io come Dio”. Anche a questo riguardo, Epicoco distingue tra concezione religiosa dell’esistenza e generica tensione spirituale, il che rende la sua analisi del contemporaneo ampiamente fruibile anche a non credenti, differenziando quindi fra lavoro educativo allo sviluppo dell’interiorità e dono della fede. I due piani non sono comunque irrelati: “la preparazione più recondita anche ad un’esperienza di fede risiede sempre in un’educazione all’interiorità”.

Epicoco si sofferma poi su un dettaglio della parabola del figliol prodigo, essenziale per dare corpo alla sua concezione della condizione genitoriale. Il padre, pur con tutto l’amore per il figlio, non lo rincorre né lo cerca. Qui sta il sigillo della fiducia, che deve innervare di sé la genitorialità, e che permane anche oltre l’abisso scavato dall’abbandono del figlio. L’atto di fiducia che si richiede è di per sé rischioso, non contempla automatismi, l’esito positivo non è scontato: non è affatto certo che prima o poi all’orizzonte si scorga la sagoma del figlio che torna. Ma “lasciare una mano è l’unico modo di conservare un legame”: così il legame si interiorizza, e può nascere un adulto. E, per converso, anche l’apparentemente opposto ha un sua pregnanza intima: “è bello pensare che continuare a tenere la mano stretta a una persona che amiamo significa lasciarla talmente libera da poter fare anche esperienze che non condividiamo e allo stesso tempo non arretrare in quella relazione, rimanere presenti in quella assenza”. L’equilibrio delicatissimo, che comporta questo atteggiarsi verso il figlio, fonda una forma di eredità, generativa di una personalità nuova, che di quella del genitore (o più ampiamente, della figura che, in un dato contesto, ci precede con il carico della sua esperienza) non sia la mera continuazione in forma emulativa. Tenere la mano della persona che amiamo e contemporaneamente lasciarla totalmente libera significa dunque “liberare lo spazio affinché quello spazio non soltanto sia occupato a nome nostro, ma diventi lo spazio di chi ha ereditato, di chi ha ricevuto il testimone della mia esperienza.“

Infine, lo sguardo si allarga sul senso della partecipazione di ognuno ad una collettività e, soprattutto, alla partecipazione a quella “fondazione della nuova patria”, capitolo finale della vicenda di Enea, che fuor di metafora virgiliana, consiste nella capacità di intuire le vie da percorrere nel futuro prossimo, individuale o collettivo che sia.

Essendo, allora, ormai acclarato che la nostra non è l’epoca di una metafisica onnicomprensiva, che tenti spiegazioni di ogni cosa, all’uomo contemporaneo occorre comunque riscoprirne una che “possa rintracciare un fondamento affidabile che sia diverso dal caso”. Deve quindi inventare un “modo nuovo di abitare il mondo”, dato che il suo attuale configurarsi sempre più difficilmente riesce a corrispondere alle sue aspirazioni. La tensione della ricerca del bene dentro di sé, indirettamente pervenuto alla nostra cultura dal pensiero kantiano, per il quale l’imperativo categorico è il tramite “che consente di realizzare il bene non fuori di me ma dentro di me”, espletandosi in ciò la più autentica libertà umana, è stata nel tempo adulterata, ed è attualmente sfigurata dall’individualismo esasperato che caratterizza le nostre relazioni.

Occorre quindi pensare a nuove prospettive – la fondazione della nuova patria di Enea – traguardando un tempo futuro, nel quale sia possibile ritrovare pienezza di umanità, per noi e per chi verrà dopo di noi: non a caso, le stesse leggende a cui ha attinto Virgilio attestano un prolungato succedersi di diverse generazioni tra le imprese di Enea nell’agro laziale e il completamento della sua opera di edificazione della nazione nuova, identificabile nella fondazione di Roma. E’ evidente allora che è un rinnovato senso di giustizia sociale, maggiormente percepibile in tempi in cui le differenze sociali tendono a crescere e a configurarsi nella coscienza collettiva come brucianti ingiustizie, che può restituire all’uomo di oggi una umanità più consapevole. Di nuovo, si tratta di instaurare relazioni corrette, non solo in termini strettamente economici, di riscatto delle povertà che angustiano larga parte dell’umanità, ma anche in termini di salvaguardia dell’ambiente in cui viviamo, in piena corrispondenza con uno degli assi fondamentali del pensiero fondativo della Laudato si’, che nella sua proposta di ecologia integrale intreccia appunto le questioni ambientali e le questioni sociali. La nostra relazionalità si misura quindi sia in rapporto a noi stessi, sia in rapporto agli altri, sia in rapporto al creato: “… siamo tutti in questo mondo legati da un destino che ci spinge a pensare sempre a un insieme e mai semplicemente a una parte”. Enea, compiendo il proprio destino, “non solo salva se stesso e chi ama, ma in un certo senso salva il mondo”.

Lo slancio di generatività, teso verso la “fondazione della nuova patria”, si sostiene su ciò che l’autore individua come “terreno comune della spiritualità”. La proiezione verso il futuro si è avverata per Enea portando con sé, oltre alle proprie origini prossime e alle aspirazioni per un tempo nuovo, incarnate da Anchise ed Ascanio, anche i penati, insieme oggetto di pietas religiosa e segno di identità profonda. Il mito nasconde e al tempo stesso rivela la centralità della religione nella costruzione della società, tanto che “una cultura e una società che fanno a meno della religione tagliano fuori da un aspetto fondamentale della dimensione umana”, perché “non siamo semplicemente altezza e larghezza, noi siamo anche profondità”.

Anche se la religiosità oggi è sempre più sospinta verso il fatto privato, la nostra cultura continua ad essere “segnata da un’identità raccontata proprio attraverso l’alfabeto della religione”. Con questo suo saggio, un’antropologia cristiana leggibile con vantaggio anche da non credenti, Epicoco auspica infine che si valorizzi l’equazione religione – spiritualità, non nel senso che la società torni ad essere “gestita dalla religione”, ma attingendo invece ad una concezione molto ampia di salvezza. Se infatti, “la religione e la religiosità non coincidono sempre con la fede, ma con un’apertura all’infinito che l’uomo si porta dentro”, questo comune (e latente) anelito può far sì che “l’uomo possa trovare un territorio di incontro più grande della sua stessa ragione e della sua stessa cultura”, avviandosi così verso la fondazione di una nuova patria spirituale, più autenticamente umana di quella che siamo abituati ad abitare.


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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.