Inquietum est cor nostrum: “Comandante” di Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi

Comandante di Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi


di Luigi Preziosi

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“Ci sono tre tipi di uomini: i vivi, i morti, e quelli che vanno per mare”: la sentenza, attribuita Platone, posta ad esergo di Comandante (Bompiani, 2023), autori Edoardo De Angelis e Sandro Veronesi, ne prefigura tono e ambientazione. Un carattere insolitamente epico rispetto alla produzione narrativa di questi anni lo pervade, e caratterizza anche la sua trasposizione cinematografica (dovuta agli stessi autori, rispettivamente regista e sceneggiatore), in uscita in questi giorni nelle sale italiane. Si tratta della ricostruzione narrativa di un episodio storico, avvenuto durante la Seconda Guerra Mondiale, imperniata sulla figura di Salvatore Todaro, comandante del sottomarino “Cappellini” della regia marina italiana, che salvò i nemici dopo aver affondato in uno scontro a fuoco la loro nave, contravvenendo alle direttive dei tedeschi.

Poco dopo l’inizio della guerra, il 28 settembre 1940 il sommergibile salpa da La Spezia: lo attende una missione nell’Oceano Atlantico, nome in codice “agguato”. Il capitano di corvetta Todaro è al suo posto di comando, nonostante risenta dei postumi di un incidente alla schiena che gli poteva valere l’esonero dalla Marina (ed una vita tranquilla sulle colline intorno alla città, come la moglie Rina avrebbe in cuor suo desiderato), e che lo costringe a vivere dentro un busto d’acciaio. La navigazione procede tranquilla fino Gibilterra, presidiata dalle navi inglesi. Bisogna forzare il blocco, e il “Cappellini” riesce nell’impresa, immergendosi al limite del sostenibile dalla sue paratie già consumate da un lungo uso di mare, ed evitando sia le bombe di profondità degli aerei inglesi, sia le aree minate. Poi l’Oceano, la calma densa di attese, il monotono ronzio dei motori, riflessioni e ricordi. All’improvviso, però, si profila all’orizzonte un mercantile belga, il Kabalo, che, a meglio guardare, si rivela come “una nave con un cannone che naviga a luci spente in zona di guerra”. Inizia uno scontro a fuoco. La nave belga è colpita prima a poppa, poi sul cannone. Affonda in pochi minuti. Sul mare ora una scialuppa e uomini in acqua che si sforzano di tenersi a galla.

“Naufraghi, Rina mia. Uomini vinti che nuotavano a fatica e puntavano tutte le loro forze residue sul nero sommergibile che li aveva appena ridotti in quello stato….Quegli uomini ora non avevano più nulla. Avevano solo un corpo, sempre più pesante, sempre più vicino alla fine, un corpo ancora caldo che l’acqua gelata avrebbe assiderato in pochi minuti. Anzi, Rina cara, non è giusto che io ti dica “avevano”: loro “erano” quel corpo, ormai erano soltanto quello. Non erano superstiti, come li chiama l’ordine 154 di nitz, erano naufraghi”.

“Comandante, che facciamo?”: sulla tolda risuona la domanda dei marinai. Todaro la conosce bene: l’ha fatta a se stesso tante volte. Pochi, quindi, i dubbi: “Tirateli su”.

Inizia così una navigazione pericolosa, dapprima rimorchiando una scialuppa, e poi, spezzatesi le cime, accogliendo i naufraghi a bordo. A bordo, gli spazi sono ridotti al minimo, si turna per riposare sulla medesima cuccetta, un sottile, vagamente claustrofobico “mal di ferro” sembra consumare gli uomini a bordo. Si fa rotta per le Isole Azzorre, territori portoghesi, quindi neutrali, dove Todaro intende sbarcare i naufraghi. Prima di arrivarci, il “Cappellini” affronta un breve ammutinamento di alcuni marinai belgi, subito sedato. La tensione risale poi quando il sommergibile incrocia una squadra navale inglese. Todaro comunica in italiano via radio con il comandante inglese, spiegando che cosa intende fare. Una situazione di sospensione delle ostilità quasi surreale incombe per qualche ora su quel quadrante dell’Oceano (torna alla memoria la tregua di Natale 1914 sul fronte franco – tedesco). Il “Cappellini” passa: “Rina carissima, oggi è un giorno fausto… Oggi noi e i nostri nemici, insieme, ci siamo salvati.”

A Santa Maria delle Azzorre, al momento dello sbarco, i due comandanti, l’italiano e il belga, si salutano: “.…Voi sapete, chiede, che al vostro posto io non vi avrei preso bordo? -. E il Comandante: – E’ la guerra -; – Perché ci avete salvato? -. L’uomo cui dobbiamo la vita accenna un sorriso, una crepa quasi impercettibile nella sua maschera di combattente. – Perché noi siamo italiani – dice.”

L’episodio è memorabile non tanto per l’esito dello scontro a fuoco, quanto per il comportamento di Todaro e dei suoi uomini successivo alla battaglia. Ed il protagonista è descritto ricorrendo agli stilemi propri dell’epica, cogliendo gli aspetti della sua personalità che più ne esprimono la grandezza morale. Non tanto il combattente (il Todaro storico meritò una medaglia d’oro, tre d’argento e due di bronzo medaglie al valor militare), sta a cuore agli autori, quanto piuttosto l’uomo in cui si incarnano alcuni tra i fondamentali dell’etica delle virtù: coraggioso senza temerarietà, conoscitore profondo del mare, ed ancor più dei marinai al suo comando, accorto in combattimento, pensoso del proprio e altrui destino durante le pause della navigazione, consapevole, anche nei momenti in cui l’odio più abbondantemente tracima ed acceca, dei doveri di solidarietà verso l’altro, fosse anche un nemico. In questo modo, il protagonista supera i limiti del semplice (e comodo, in fondo) conformarsi al minimo comportamentale (cioè, per l’episodio in questione, attenersi alle norme di guerra, ampiamente osservate), e riesce ad esprimere il massimo di bene possibile nella situazione contingente, avendo di mira il bene comune dei due equipaggi.

Sotto un profilo diverso, non più attinente al ritratto morale del protagonista ma al senso complessivo del racconto, in quel “perché noi siamo italiani”, si addensa non solo un’espressione di orgoglio nazionale (forte, certo, ma non fuori luogo, tenuto conto dello specifico contesto, e in confronto con altre prassi di guerra), ma anche e soprattutto la certezza di condividere un sentimento. Il salvataggio dei naufraghi è stata una decisione del capitano, a cui per altro secondo i codici militari risale intera la responsabilità delle azioni in teatro di guerra, ma è anche espressione di un sentire comune. Per bocca del suo comandante, è anche l’equipaggio a parlare. Non solo: alle spalle di questi uomini una collettività intera ha, in modo a volte improprio, a volte senza averne piena coscienza, a volte più per inerzia che per convinzione, elaborato per secoli e poi assimilato i principi di solidarietà sintetizzati nell’ordine “tirateli su”. Todaro è consapevole delle diversità che abitano il suo sommergibile: da esse, in quanto comandante, deve suscitare coerenza di comportamenti e unità di intenzioni, anche quelle latenti nelle coscienze, e ne intuisce anche la ricchezza: “Questa è l’Italia unita, Rina: qui un livornese e un siciliano sono più che stranieri, sono proprio abitanti di due pianeti diversi e lontani per lingua, cultura, temperamento. Minuti, Schiassi, Mancini, il Capo Silurista Giuseppe Parlato, Negri, Raffa è un susseguirsi di occhi spiritati, capelli sporchi, bocche carnose, vene in rilievo sulla fronte, risate, pelle tirata, tatuaggi, mani che non stanno mai al proprio posto….Tutta la giovinezza del mondo è compressa in questo sigaro d’acciaio. Eppure proprio il crogiolo dove tutti i dialetti, piccoli manufatti grandi opere dell’ingegno, ottuse credenze pagane, la rivoluzione egualitaria del cristianesimo e le vecchie reliquie si sono fusi è il nostro tesoro. Proprio questo bordello, meraviglioso e putrido, è l’Italia.”

Il tono epico del romanzo è quindi valorizzato dalla struttura polifonica della narrazione. Nei singoli capitoli parla in prima persona una buona parte degli attori del dramma raccontato. Todaro, in primo luogo, ma anche la moglie Rina, il cuoco Giggino, Schiassi il marconista, l’infermiera Anna, il secondo ufficiale Stiepovich, l’altro ufficiale Lessen d’Aston, Stumpo il palombaro pescatore di coralli, perfino alcuni nemici, come il comandante del convoglio inglese e il secondo ufficiale belga Reclerq. Personalità, culture, sensibilità diverse (anche lingue diverse, molti degli italiani si esprimono nei loro dialetti d’origine).

Il coro è costituito in forma molto eterogenea, ma si compone comunque un’armonia. L’esaltazione del gesto eroico di salvataggio viene preceduto da momenti minimi di umanità che alleviano la vita dura dei sommergibilisti, una sotterranea coerenza che accomuna l’equipaggio. Paradossalmente, poi, proprio la condizione di disumanità suprema in cui i combattenti agiscono pare evocare il loro senso di umanità. L’eroe dispiega in toto la sua pietas, ma non è solo: il suo non è un sentire isolato, nonostante il mugugnare che le sue decisioni generano in qualche marinaio. Sul “Cappellini” aleggia la consapevolezza di condividere un destino.

E’ lo stesso intento etico che pervade del resto il racconto dell’intera vicenda. Varie letture se ne possono fare, più o meno direttamente connesse alle contingenze politiche, in anni come i nostri penosamente incerti sulla questione del salvataggio e sbarco in porto dei migranti che attraversano il Mediterraneo. Nella valutazione del romanzo possiamo tranquillamente prescinderne, per osservare quanto profondamente è incisa in ognuno la consapevolezza di condividere un destino, e come la vicenda raccontata suggerisca una sorta di nostalgia dello spirituale, percepibile perfino nell’inumanità della guerra.


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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.