In “Via memoriæ / Via crucis”, il “tra” di Marco Palladini

Marco Palladini, Via memoriæ / Via crucis, Gattomerlino, 2022, pp.74, €15,00


di Antonino Contiliano

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In “Via memoriæ / Via crucis”

il “tradi Marco Palladini

Clip del libro su RetroguardiaTV

Via memoriæ / Via crucis” è il titolo della nuova pubblicazione poetica (Gattomerlino, 2022) di Marco Palladini (la prefazione è curata da Francesco Perozzi). Il libro porta anche il sottotitolo “tra il poetico e il politico”. Una specificazione (s.n.) piuttosto significativa: suggerisce infatti un certo rapporto tra “poetico” e “politico”. Un rapporto che ci permette di rilevare sia una inscindibile connessione liminale tra le due pratiche politiche (c’è una politicità della letteratura, dell’arte e della poesia), sia il diverso e conflittuale regime di senso cui rinviano nel momento stesso in cui si adoperano per riflettere lo stesso rapporto parole-cose. Vero è infatti che la politicità della poesia è altra cosa rispetto alla politicità del “politico”. Se il politico, qui, è inteso come potere, o come adesione di un militante ad un partito specifico e alle sue regole, o a una visione teorica data e alle pratiche di regime stabilite è scelta che non tocca i testi di questa nuova raccolta di Palladini. La politicità della poesia gioca infatti sulla sospensione del preordinato e univoco rapporto segni-cose-espressioni delle cose e del significato loro ordinato; diversamente, spinge a vedere e a leggere l’intreccio come dei sintomi da decifrare e collegare come un insieme particolare di spinte e controspinte. Infatti ci si trova nel mondo che sulle cose e sui corpi lascia dei segni che avviano a una significazione mobile (non pacifica) tra le parole, le cose significate e le azioni possibili. Il rapporto di assenso o di dissenso tra la ragione e le volontà degli agenti, coinvolti nella significazione, non è più né obbligato né gerarchico come nel quadro del modello della “rappresentazione” classica; quella che fissava modi di espressione-comunicazione e posizioni socio-politiche preordinati. È il conflitto. Il conflitto che le parole innescano in itinere quando dalla muta figura della scrittura si passa alla lettura dinamica dei nessi che il chiunque è chiamato a fare per guardare le posizioni e, nel contesto di una società e di un’epoca storica, interpretare-trasformare i regimi d’ordine dicibile-visibile dominanti. È il conflitto (il disaccordo e il malinteso) – direbbe Jacques Rancière – dei “senza parte” che, discordando, nella processualità degli eventi (circostanze e contingenze) costruiscono nuovi oggetti e nuovi soggetti che richiedono condotte e comportamenti altri.

In altri termini (richiamando G. Deleuze/F. Guattari) è il conflitto della poesia come “macchina da guerra”; il movimento che genera nuovi spazi di senso e interruttori che bloccano e decostruiscono il senso comune e gli stereotipi della comunicazione universale dei regimi d’ordine. Tutto un processo di alterità (non privo di ironia e scarti parodici) che viene vissuto nell’esperienza concreta delle parole (poetiche nel caso del nostro autore, Marco Palladini) e delle forme in cui egli gioca la sospensione di certi rapporti fissi tra i segni e i significati che classificano o meno le cose e i corpi. Dei processi che, ai diversi livelli della scrittura poetica, infinitamente, fanno transitare le possibili interpretazioni e significazioni da un sito ad un altro; e ciò nel tentativo di divenire l’altro che non è presente e rappresentato. Da questo punto di vista, esemplari – ci sembrano – i diciassette fotogrammi dinamici e i relativi passaggi fono-semantici (entrata in scena del visuale di altri paesaggi grazie all’uso costante di rime, assonanze, consonanze…) del testo “Ballata del Sessantotto mai ri-trovato o semplicemente dissipato” (pp. 24-30). Qui ne diamo il primo e l’ultimo:

Non le puoi sentire, Paolo, queste mille e mille voci che si azzuffano, / si arruffano, altercano e rammemorando si scordano / pure di se stesse… voci scordate o stonate che pure suonano / o cantano tutte le verità e le controverità di un anno / di mezzo secolo fa… un debut ancora per molti o, secondo altri, / il principio della eclissi della moderna civiltà occidentale… / / […] / è successo un Sessantotto, che casotto! … e voi, /mo’ che arriva il Sessantotto, cagatevi sotto! … che poi / c’erano pure i fascisti sulle barricate della epocale / distruzione di sé… e voi, santità, eminenza, eccellenza, / possibile che non provate mai un poco di verguenza? … / c’era la demenza del capitale e la pura mattia di pensare / di opporsi al capitale… che quelli là fanno il male / poiché sono malvagi, non sono malvagi poiché fanno il male… / una bruciante passione il Sessantotto che non ha conclusione… / un rogo psicostorico, religioso-erotico, nichil-politico / che, Paolo, nella mia lontana sbiadita memoria di te, / tuttora va in cerca del suo trascendentale perché…

Non diversa è l’organizzazione poematica di altri testi. Ad esempio prendiamo il testo dedicato a Carmelo Bene e il testo dedicato ad Arrigo Lori Totino. Anche qui le singolarità delle parole dicono delle differenze e dei ritmi (giocati sulle sonorità e i legami delle sfumature liminari) che scompaginano e sospendono l’ordine scontato tra azioni, parole e significati delle cose e degli stati di cose. Un approccio, questo (come nella “Ballata del Sessantotto…), che ci dice anche di una politicità della poesia che transita attraverso il tra del sottotitolo “tra il poetico e il politico” ( su cui torneremo avanti). Così l’enunciato dei versi (primo testo del libro) di “Immemoriale” (p.3). La poesia che argomenta sulle scelte teoriche e il performativo teatrale di Carmelo Bene:

Ricordo l’Immemoriale di C. B. / […] // Carmelo, il Bene del Bello teatrale / che sospende la rappresentazione / e presentifica tutto il tempo artistico / nell’eccoti e fermati! Eterno attimo / che sei nella phoné dell’altroparlante […] // di essere, fuori scena, mai davvero nato.

A parte il carosello semantico (cambio di posizione della parola) cui è sottoposto il cognome (Bene) di Carmelo – prima referente di un soggetto e poi ‘qualità’ o proprietà del “Bello teatrale” –, nel testo l’immemoriale non è – crediamo – un termine come un altro; la parola gioca infatti la funzione di un assioma. La scelta di un principio che, mettendolo in crisi, sospende il regime del modello “rappresentativo” (per inciso) dell’arte; il modello dei generi e delle gerarchie sociali che fissava a priori il significato tra parole e stati di cose. L’attore Bene lo urta e lo confligge in quanto il bello dell’attore (nel caso di Carmelo, scrive Palladini) è nell’atto che coglie all’istante l’evento – l’“eccomi” (“Eterno attimo”). L’evento scenico che in quanto tale è fuori scena (incausato). È la phoné che non ha nessuno inizio: nessuna causa o catena razionalizzata di cause ed effetti prevedibili (perché predeterminati). In sintesi si potrebbe dire che la politicità della poesia teatrale di Carmelo Bene è nella contestazione della visione della teoria della ‘rappresentazione’ come rifiuto e frattura del regime d’ordine sociale stabile. Quella stabilità che sul palcoscenico e nella coscienza del pubblico passava attraverso la conformità-azioni-dicibili-visibili: i significati condivisi e pacificanti (comunicazione-comunione conoscitiva catartica) che ora entrano invece in crisi e fuori gioco.

Più che un campanello di allarme!, allora il “tra”. È l’avviso di un irrinunciabile e particolare legame che intreccia fra loro la pratica soggettiva della scrittura poetica – che sospende il significato standardizzato delle cose – e l’innesco sintomale di una possibile tendenza collettiva (politica) contro; il sintomo di un diverso e nuovo regime di significazione (e visibilità diversa) delle cose (una posizione d’ordine dissensuale o critica più o meno radicale). Non un linguaggio particolare – ci appare – quello della poesia del nostro Palladini, bensì (dentro la lingua d’uso) uno specifico intreccio tra «un regime di significazione delle parole e un regime di visibilità delle cose»1 . Un’interpretazione che deve riassestare cioè l’ordine del visibile (flesso e ri-flesso dal dire messo in versi); e ciò dal momento in cui il poeta, usando forme diverse per dire del “tema”, come nell’individuato della poetica di Carmelo Bene, sospende e fa oscillare il significato tra le parole e le cose dando posto all’intellegibilità e alla ri-significazione altra del rapporto tessuto. Cosa che il nostro autore mette in campo sia che usi una versione “sonettata” con rima chiusa-baciata-chiusa (l’acrostico “A Lora allora”, la poesia dedicata ad Arrigo Lora Totino, p. 18), sia che poetizzi il tema-non-tema– ci sembra – in forma di prosa e discorsività (come è il caso della “Ballata del Sessantotto mai ri-trovato o semplicemente dissipato”, pp. 24-30).

A Lora allora

Assalti poetosonori anticanone lirico e antitutto

Reagenti e liberatori surfonemi phonofluenti

Raschi, borborigmi, spernacchi, anche un rutto

I fiati che sfiatano come digrigni impenitenti

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Ginnico poeta oltreverbale che mimodeclama

O sperimenta azioni celibi in proiezione corpovocale

Liquimofonetizza così in dissolvenza verticale

Ospita futuremoti ascolti sfuggendo una precaria fama

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Ri-vo-lu-zio-neh? ci avevi ironicamente intimato

Ancora piùgiù però il corso delle cose si è rovesciato

Testimoni di muse musive e cromoschizofonemi callidi

Ostaggi alla deriva siamo dentro i chaotici giorni pallidi

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Tu che circonfondi in derisorie danze in tutù la nuova arte

Il verbovisuale e l’idromegafono stillano poesia in liquidazione

Non è così che si cambiano i giochi e si scoprono le carte?

Oggi pure gli sversati reclamano una concreta bio-eversione

Anche in questo testo, come in quello di Carmelo Bene, la politicità della poesia è giocata sul piano dell’esperienza concreta delle parole che, sonoramente, transitano da un’identità ad un’altra mettendo in crisi o fratturando i vecchi canoni della standardizzazione dei significati. Il rapporto fisso e legato alle parole dell’informazione-comunicazione pubblica controllata; quello iscritto sulle cose e sui corpi così identificato e riconoscibile (privo di ambiguità e lontano dalle sovversioni). Un taglio straniante, questa recisione del legame pre-scritto, che permette alla poesia una sua politicità (diversa dal politico sia come potere, sia dall’impegno militante dell’autore praticato in un determinato schieramento, sia dai temi di genere e dalla poetica classica della “rappresentazione”: la verosimiglianza tra parole e cose).

La politicità, del taglio, è così nella dissolvenza dei significati bloccati tra i modi di essere, fare/agire e dire. Un fare della poesia che innesca una significazione innovativa e un’intellegibilità altra rispetto a quella che è in accordo con l’ordine del mondo dominante. Cosa che il nostro autore persegue – ci sembra – con cura sia sul piano dei “temi” memoriali scelti che delle forme usate (per dirla – con Jaques Rancière – non c’è una poesia della ‘rappresentazione’ come paradigma che dirige i soggetti e le parole per uniformarli all’ordine gerarchico di regime). Nei soggetti divergenti o dei “senza parte”, invece, quelli cioè che agiscono nel “disaccordo” politico e nell’equivoco del “malinteso” dell’arte e della poesia – come azione altra – l’interpretazione è anche trasformazione (non contemplazione e passiva emozionalità) del mondo: una nuova visibilità dell’organizzazione suggerita dalla decostruzione-riterritorializzazione concettuale e immaginativa delle relazioni tra segni, cose, informazioni, comunicazione di senso. Per dirla anche con Francesco Muzzioli c’è un sintomo (dei sintomi) che sospende le decifrazioni ordinarie e consensuali e avvia interpretazioni possibili (critiche e contro-critiche) e in divenire (dopotutto il Sessantotto – scrive l’io poetico di Palladini – è un ininterrotto “casotto”; ma il post-Sessantotto e il conteporaneo “quarantotto” non scherzano!). Del resto, facendo attenzione al neologismo “poetenza” – introdotto dal poeta Marco Palladini – e alla sua intensa concettualità (la potenzialità delle sue ‘virtualità’; le virtuali reali, anche se non esistenti: G. Deleuze/F. Guattari), il discorso poetico-politico di questo nuovo libro di Palladini non lascia dubbi sull’abilità critica e metapolitica della sua parola poetica. Una posizione dinamica piuttosto stimolante dal momento in cui le odierne configurazioni del mondo comune sono velocemente soggette a dei cambi di regime cognitivo-pratico falsamente neutrali o descrittivi, se la realtà è un insieme di ‘simulacri’ (né più oggetti, idee o altro che non sia altro che un soffio senza vento e vele …) e di dialettica in crisi tra parole e cose.


NOTA

1 Jacques Rancière, Politica della letteratura, in Politica della letteratura, Sellerio editore, Palermo, 2010, p. 19.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.