Il nido famigliare dei Gerace. Saggio di Benedetta Mastrullo e Matteo Mocerino

Il nido famigliare dei Gerace

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di Benedetta Mastrullo* e Matteo Mocerino*

«fuori del limbo non v’è eliso».

È così che Elsa Morante conclude la dedica e dà avvio al romanzo che le ha garantito la vittoria del premio Strega nel 1957: L’isola di Arturo. Tale verso lapidario racchiude, a nostro avviso, l’essenza dell’intera opera e del conseguente accostamento con il poeta fanciullino per eccellenza, Giovanni Pascoli.
Il destinatario di questa rivelazione è il protagonista Arturo, proiettato fin dall’inizio in un limbo, inteso  ̶ da chi ne ha già consapevolezza  ̶ come stato indefinito di possibilità e potenzialità, fuori dal quale non c’è altro paradiso possibile, e nel quale non è presente una distinzione tra fantasia e realtà. È la fanciullezza, la parte naturalmente ingenua e onesta, lo sguardo vergine sulla realtà, capace di sottrarsi ai meccanismi mortificanti della vita, e che Pascoli ritrova in ognuno di noi. Il filtro del fanciullino sia nel suddetto poeta che nella scrittrice è presente nonostante le voci (dell’io poetico, da un lato, e del narratore, dall’altro) siano adulte e maturate. Se però Pascoli lo lascia emergere nelle sue poesie tramite un io trasparente e autobiografico, Morante preferisce che sia Arturo, con le proprie esperienze, a rappresentarla in tal senso.

Il nido di Arturo e l’illusorio padre d’avorio

Il giovane procidano, orfano di madre e abbandonato a sé stesso dal padre, trascorre le proprie giornate girovagando per l’isola, certe volte spinto da un istinto insopprimibile di allontanarsene, senza però mai riuscirci, consapevole di un sicuro ritorno del padre alla favoleggiante casa dei guaglioni, un’ala di gabbiano nel nero del temporale. Così Pascoli definisce il proprio casolare nella poesia Temporale, in cui rimanda a uno dei miti fondanti della propria poetica: il nido familiare.
Sia Pascoli che Arturo sono segnati dalla sofferenza di un vuoto, causata dalla perdita di un genitore, che tentano di colmare creando un nido perfetto, in cui rifugiarsi e trovare conforto contro il male esterno. Non a caso Arturo glorifica il padre, quasi come un dio d’avorio, e idealizza ogni sua opinione arrivando persino a stilare leggi per regolamentare la propria esistenza, e quasi giurare adorazione assoluta al nido (in particolare: I, III, IV, V).

«I. L’AUTORITÀ DEL PADRE È SACRA!»1 Già dalla prima legge si evidenzia la sua intuitività e irrazionalità nel raffigurarsi il padre, che ci rimanda a qualcosa di già sentito prima: l’aurorale meraviglia e stupore con cui il fanciullino Pascoli guarda l’esistenza.

«III. LA PEGGIOR BASSEZZA È IL TRADIMENTO. SE POI SI TRADISCE IL PROPRIO PADRE […] SI ARRIVA ALL’INFIMO DELLA VILTÀ!»2 Arturo passa i suoi giorni in completa solitudine, disprezzando i propri concittadini e dedicandosi completamente all’attesa del padre: è questo l’unico modo, agli occhi del fanciullo, di rispettare il padre e quindi essere completamente fedele al suo nido. D’altro canto, Pascoli ha dedicato la propria esistenza a una forzata castità, non solo sessuale ma soprattutto relazionale, in proiezione di una fedeltà totale al proprio nido. Si comprende, allora, il motivo per cui il poeta sente il matrimonio della sorella Ida come un tradimento, una profanazione della sacralità del nucleo familiare.

«IV. NESSUN CONCITTADINO VIVENTE DELL’ISOLA DI PROCIDA È DEGNO DI WILHELM GERACE E DI SUO FIGLIO ARTURO. PER UN GERACE DAR CONFIDENZA A UN CONCITTADINO SIGNIFICHEREBBE DEGRADARSI.»3 È lo stesso Arturo a sottolineare come la legge «a me suggerita dall’atteggiamento di mio padre, fu, evidentemente, insieme forse a una mia inclinazione naturale, la causa originaria della mia solitudine procidana»4. L’unico compagno-amico ammissibile è il cane Immacolatella, perché parte integrante del nido, come Gulì, un figlio a quattro zampe, per i Pascoli. La chiusura gelosa nella famiglia rivela, dal canto del poeta, il desiderio di sentirsi protetto da un mondo esterno, quello degli adulti, che gli appare minaccioso ed irto di insidie.

«V. NESSUN AFFETTO NELLA VITA UGUAGLIA QUELLO DELLA MADRE.»5 Sin dall’inizio del romanzo emergono il grande vuoto di Arturo e il suo senso di colpa, provocati dalla morte della madre durante il parto. Il giovane da subito confessa «per me madre significava precisamente: carezze»6, immaginando in esse anche quelle mai avute dal padre. È, inoltre, evidente come venga a mancare un criterio di maturità e razionalità anche quando racconta della madre. Come il padre, anche lei è una dea, capace di infondere in lui una fede:

«Ma la ragione, davanti a lei, si ritraeva, e, senza rendermene conto, io, per lei, credevo addirittura in un paradiso. Che cos’altro era, di fatti, quella specie di tenda orientale, alzata fra il cielo e la terra, e portata dall’aria, in cui lei dimorava sola, oziosa e contemplante, con gli occhi al cielo, come una trasfigurata? Là, ogni volta che io ricorrevo a mia madre, essa si presentava naturalmente ai miei pensieri».7

È evidente qui la consolazione che l’immagine di un defunto può generare nell’animo del solitario ragazzino. Eppure qualcuno prima di lui lo aveva già sperimentato: per Pascoli il nido era custodito dalla presenza dei morti che vigilano sui vivi e si assicurano che esso, da loro non più abitabile, sia conservato intatto dai familiari ancora in vita. Prima fra tutti la madre, entità consolatrice che sul far della sera accarezza per qualche istante il cuore sofferente del poeta. Ne è manifesto la celeberrima poesia di Pascoli, La mia sera:

«Don… Don… E mi dicono, Dormi! / mi cantano, Dormi! sussurrano, / Dormi! bisbigliano, Dormi! / là, voci di tenebra azzurra… Mi sembrano canti di culla, / che fanno ch’io torni com’era… / sentivo mia madre… poi nulla… / sul far della sera».8

Ci sembra però doveroso concentrarci ancora sulla prima legge. Come affermato prima, Arturo ha uno sguardo ingenuo e credulo verso il padre a cui tutto è concesso; uno sguardo che solo il fanciullino può avere. Perciò al lettore appare chiara, sin dalle prime pagine, la reale entità del padre: un essere totalmente noncurante verso il figlio, abbandonato ad un’estrema solitudine per periodi spropositati, disinteressandosi persino della sua sussistenza, mentre la propria unica preoccupazione erano i “viaggi”. Il ragazzo cresce, però, senza accorgersi di niente e anche negli episodi di noncuranza, di menefreghismo, il figlio non lo incolpa, ma anzi vorrebbe, con tutta l’innocenza pascoliana, dargli motivo di soddisfazione. Ricordiamo ad esempio, la scena dell’orologio Amicus perso in mare durante una delle sporadiche gite padre-figlio. Wilhelm accetta che alla ricerca dell’orologio si avventuri Arturo, che sente finalmente arrivata l’occasione di «dargli la grande prova»9 di sé, ma, ritrovatolo, la reazione è inaspettata: il padre addirittura lo rimprovera, attribuendogli la responsabilità della perdita. Ed ecco che, ovviamente, Arturo inveisce contro la sorte:

«Dunque, la sorte aveva scherzato, la mia azione perdeva quasi ogni splendore. La delusione, montando come la febbre, mi fece tremare i muscoli del viso, e bruciare gli occhi. Pensai: “Se piango, sono disonorato”, e per difendermi, con la violenza, dalla MIA (maiuscolo nostro) debolezza, mi sfilai rabbiosamente dal collo la maschera, che non era servita a nulla, […] e io, non potendo più riguardarlo dopo questo sgarbo che gli avevo fatto, volli fuggir via».10

Come Pascoli insegna, il fanciullo è caratterizzato da un’estrema innocenza e purezza, peculiarità che sono qui evidenti. Per tutto il periodo della sua infanzia, Arturo non arriverà mai a incolpare il padre o a mettere in discussione e far vacillare la sua deificazione. Ma l’infanzia finisce, si cresce, e la stessa crescita presuppone un accantonamento, un lasciar andare sicurezze e credenze confortanti: Morante va oltre Pascoli, oltre il fanciullino, arriva alla razionalità e allo svelamento di quelle magiche fantasie che in qualche modo mascheravano la ormai non più solida visione del bambino. Arturo, ormai adolescente, in balia delle proprie instabili pulsioni, deve fare i conti con la parte di sé che sta crescendo. Ma anche questa graduale crescita viene ripudiata, rinnegata dal ragazzo, fino alla fatidica sera del Tradimento. Arturo trova nello stanzone della casa dei guaglioni Tonino Stella, un ex-detenuto che il padre aveva ospitato e l’incontro tra i due svela gli arcani: i viaggi del padre non erano altro che un abbonamento alla circumvesuviana, tutti finalizzati a rincorrere un amore unidirezionale. Non insomma le grandi epopee che Arturo aveva immaginato, ma semplici spostamenti, il più lungo dei quali verso Roma, e non per quelle che il ragazzo reputava nobili imprese, né per scoprire nuovi mondi. Qui crolla l’ultima speranza del fanciullino: che il padre lo porti finalmente con sé in giro per l’atlante. Tonino Stella, insomma, infligge il secondo e definitivo colpo all’utopico nido familiare.

Nunziatella: un meteorite sul nido

Se Tonino è stato l’artefice della decisiva legnata al nido, portandolo al crollo, se ne deve presupporre una precedente, ancora più incisiva, che ne ha minato le stesse fondamenta: parliamo di Nunziatella, una ragazzetta di appena sedici anni.

Sono i lutti ad aver segnato Arturo e Pascoli, a tal punto da poterli considerare fautori della formazione del “covo” come riparo da probabili nuovi attacchi della morte. Il protagonista del romanzo della Morante, in seguito al decesso della madre prima, e del caro cane Immacolatella poi, si era creato un nido unicamente composto da sé stesso e Wilhelm; così come Pascoli, con la perdita del padre e i successivi lutti familiari, aveva forgiato il proprio, esclusivamente con le due sorelle. Entrambi sognavano che questa fortezza fosse esclusiva, che non prevedesse, né permettesse, l’ingresso ad alcuno, ma ciò non è stato possibile: il matrimonio del padre con «l’ignota napoletana»11 e, d’altra parte, della sorella Ida con Salvatore, hanno lanciato un meteorite sul nido, mettendolo in discussione.
I primi pensieri di Arturo all’incontro con la novella Gerace sottolineano in modo esplicito il sentimento di ripugnanza ed estraneità del ragazzo:

«Per fortuna, non le venne in mente di abbracciarmi come usa nel salutarsi fra parenti. Io l’avrei respinta, perché, davvero, non ci si può adattare all’idea che uno è tuo parente, così, da un momento all’altro».12

Assodato che il primo impatto non è stato dei migliori, le vicende successive porteranno ad un peggioramento del comportamento di Arturo nei confronti della donna. Ricordiamo la scena in casa quando Nunziata gli propone di chiamarla :

«Questa era proprio la provocazione più audace, più ingiuriosa che potesse venirmi da quei due! Il mio viso dovette esprimere una rivolta così selvaggia, che mi imposi perfino a mio padre».13

La soluzione del giovane è ancora più radicale, quella di evitare di chiamarla, non solo , come da lei suggerito, ma addirittura rifiutandosi di pronunciare il suo nome. Per rivolgersi a lei utilizza un semplice “tu”, o magari un fischio; persino l’Arturo maturato, narratore, non è in grado di chiamarla per nome, impiegando una strategia diversa, riferendosi a lei con una lettera, “N.”, o un’abbreviazione, “Nunz.”. Questo rifiuto verso la giovane napoletana continuerà a lungo nel romanzo, e sempre più ostinatamente, al punto di rinunciare anche ai saltuari momenti col padre:

«In seguito, durante quella giornata, e nei giorni successivi, sfuggii la sua presenza, rinunciando pure alla compagnia di mio padre piuttosto che dividerla con lei. Le parlavo solo se vi ero proprio costretto, e in queste rare occasioni i miei modi erano così freddi e scostanti da farle ben capire che lei era meno di un’estranea, per me».14

Reputiamo che il sentimento alla base di questo rifiuto, cioè la paura di un allontanamento del padre e quindi della distruzione del caro e amato nido, sia lo stesso alla base delle poesie famigliari di Pascoli, in particolare quelle rivolte ad Ida: Ida, amaci! e All’Ida assente.
Nella prima è lampante la ripetizione di un tema topico, quello della paura che Ida scappi. Come ha sottolineato Garboli, per il poeta non era ammissibile il districarsi del legame carnale, mistico, del nido che c’era tra i Pascoli: l’assenza della sorella è materializzata nel triste canto dei
capineri.
Nella seconda, ancor di più, composta ipoteticamente dopo il 1895, l’anno che ha visto Ida partire sposa senza voltarsi indietro, l’autore marca egoisticamente l’assenza della sorella. Questa volta l’allontanamento è definitivo, il tempo passa, ma ormai Ida non torna, ha un nuovo nido, che non contempla più Giovanni e Maria. I due fratelli superstiti continuano la loro vita congiunta, ma irrevocabilmente stravolta: «tanto amore sbocciò nei miei pensieri! / tanti baci sfiorirono! Non c’eri»
15. Tale atteggiamento non è solo presente nella produzione poetica, ma lo si evince anche in una serie di scambi epistolari tra Giovanni, Ida e Maria. Ricordiamo la lettera del 20 giugno 1895, in cui il poeta scrive alla sorella minore, la dolce Mariù:

«No, mia dolce Mariù, non sono sereno. Questo è l’anno terribile, dell’anno terribile questo è il mese più terribile. Non sono sereno: sono disperato. Io amo disperatamente angosciosamente la mia famigliola che da tredici anni, virtualmente, mi sono fatta e che ora si disfà, per sempre».16

Insomma, non c’è da stupirsi del fatto che Pascoli abbia deciso di non partecipare al matrimonio della sorella, dando prova incontrovertibile del suo accanimento e del suo astio verso il cambiamento.
Si potrebbe riassumere quanto detto citando Garboli: «se ne tocchi uno, saltano fuori, simultaneamente, gli altri due; l’amore non è mai a due, è sempre a tre»
17.

Come a tre è sempre il nido nell’Isola di Arturo: Wilhelm-Arturo-Immacolatella; Wilhelm-Arturo-Nunziatella; Wilhelm-Nunziatella-Carmine (dopo la breve parentesi a quattro Wilhelm-Arturo-Nunziatella-Carmine e l’abbandono di Arturo).

La fragilità e la malleabilità del nido

Anche se – è doveroso esplicitarlo – con ostilità e reticenza da parte di Arturo, Nunziatella entra, inevitabilmente, a far parte del nido. Bisogna ribadire l’astio provato dal giovane Arturo, agli occhi del quale la sempliciotta napoletana era riuscita a conquistare le tanto bramate attenzioni del padre. Ne sono esempio le innumerevoli passeggiate dei due sposi novelli per le strade dell’isola, mentre il ragazzo preferisce restare solo pur di evitare la presenza dei due insieme. Eppure in lui è celata un’attrazione verso Nunziata, che ancora non riesce ad avvertire come tale, e che emerge improvvisamente in alcuni momenti. Lo si nota nella scena della prima cena in cui Wilhelm dichiara la bruttezza naturale di tutte le donne, compresa la nuova moglie, e fatidica è la domanda rivolta ad Arturo: «che ne pensi, tu, di questa sposa? ti pare bella, o brutta?»18; ma il ragazzo non risponde come il padre avrebbe voluto; sorprendentemente, invece, lo contrasta:

«— Ha gli occhi belli! […] — Essa in quel momento mi guardava, e i suoi occhi, pieni di timidezza e di festa e di gratitudine per la lode che avevano avuto erano così meravigliosi che la sua fronte pareva adorna di un diadema».19

Paradossalmente la conferma di una nascente attrazione arriva il mattino successivo, quando, in seguito alla prima notte di nozze, il giovane procidano nota in lei una strana trasformazione: tutto ciò che il giorno precedente era oggetto di fascino agli occhi di lui, era svanito, provando vergogna per averle concesso tanta (relativamente) confidenza. A cosa può essere dovuto un tale risentimento se non alla gelosia? Ma questo Arturo ancora non lo sa. Continua, infatti, a credere che la repulsione sia dovuta al sentire Nunziatella ancora come un’estranea, un’invadente sconosciuta che tenta ad ogni costo di essere riconosciuta nel nido. Lo stesso Arturo narratore spiega come i pensieri da ragazzo fossero confusi e come ancora nel raccontare non sia in grado di definire tale risentimento col proprio nome: «provavo d’un tratto il sentimento incomprensibile e acuto di ricevere da qualcuno (CHE NON SAPEVO TUTTAVIA RICONOSCERE [maiuscolo nostro]), un’offesa impossibile a vendicarsi, disumana».20 Questa confusione si concretizza non solo in un aperto astio nei confronti della giovane donna, ma addirittura in un allontanamento fisico: non potendo bandirla dall’abitazione, è lui ad allontanarsene. Trascorre intere giornate immerso nella natura, vista come un rifugio, in una completa solitudine stranamente appagante. Anche in questo caso è automatico che il pensiero si rivolga a Pascoli, nelle cui poesie la natura è protagonista, l’io poetico ne è costantemente immerso, a volte tramutandosi in essa. Nella prefazione di Myricae il poeta presenta una concezione positiva della natura, rivendicandone la dolcezza e la premura:

«Ma gli uomini […] del male volontario danno, a torto, biasimo alla natura, madre dolcissima, che anche nello spengerci sembra che ci culli e addormenti. Oh! lasciamo fare a lei, che sa quello che fa, e ci vuol bene».21

La natura è una madre che avvolge e culla i suoi figli, proprio come per il ragazzo dal nome di stella22 il dondolare della barca sul mare richiama alla memoria il cullare di una mamma.

L’allontanamento di Arturo emerge anche nei piccoli atti, come il rientrare tardi per evitare di condividere con Nunz. persino il breve momento della cena. L’astio, perdurato anche durante la gravidanza della ragazzina, diventata ormai donna, tramonta alla sera del parto. È questo il primo momento in cui Arturo avverte il pericolo di poterla perdere definitivamente. Spinto dal panico e dal terrore, si precipita alla ricerca di Fortunata, la mammàna di Procida, e dopo averla trovata la trascina di corsa alla casa dei guaglioni, avendo nella mente, per la prima volta in assoluto, un solo nome:

«[…] ero certo che avrei parlato, sebbene, in quell’ultimo tratto di strada, di tutte le possibili parole esistenti non ne ricordassi che una: Nunziatella. Ripetevo dentro di me questa parola Nunziatella con lo stesso ritmo disperato dei miei passi».23

È questa la prova lampante di come Arturo ormai l’abbia inserita nel nido, illudendosi che possa ritornare ad essere il suo luogo sicuro e accogliente; chimerica assurdità. L’abbaglio è smontato dall’imminente arrivo del nuovo antagonista, il fratellastro Carmine Arturo, che nuovamente esclude il giovane procidano rubando tutte le attenzioni di Nunziata e facendo riemergere in lui un atteggiamento schivo. Il ragazzo-stella, nonostante il suo desiderio di rifiutare e ripudiare la napoletana, non riesce a reprimere i suoi istinti, recandosi, così, puntualmente in cucina per condividere con lei almeno uno spazio. Resta lì, in disparte, studiando i suoi viaggi futuri sull’atlante, mentre lei è indaffarata col bambino; e solo nel momento in cui Nunziatella gli concede qualche attenzione, lui la rifiuta, allontanandosi. Siamo di nuovo tornati al momento della confusione: Arturo non sa definire i suoi sentimenti, e l’unica cosa a lui comprensibile è la brama di eliminare il nuovo intruso. Prende così una pistola del padre e la punta alla fronte di Carminiello ma anche questo desiderato atto adulto è stroncato dal riemergere del fanciullino, che lo porta a deporre le armi e a giocare col fratellastro. Arturo si sente così in una straziante solitudine e l’unico modo per uscirne è quello di attirare l’attenzione in qualche modo.

La perversione all’interno del nido

Il tentativo di attirare attenzione sembra quasi una scena teatrale, tragica, con la scrittura di un finto testamento e di un inscenato suicidio provocato dall’ingerimento di nove pillole di sonnifero, dose necessaria per dormire quanto basta, almeno secondo Arturo. Dal comportamento del giovane procidano si evince una chiara crisi d’abbandono, riscontrabile anche in Pascoli in una delle lettere inviate a Ida come estrema ed ennesima supplica per un ritorno al nido.

«Ti prego di pensare a chi sta peggio di te, a chi qualche volta, per esempio, a Messina, levandosi dal letto, stanco, addolorato, con la testa vacillante, si augura spesso, sin dalla mattina, di morire!»24

La perversione della morte è sfruttata dai due lunatici come estremo tentativo di catalizzare su di sé l’attenzione di chi sembra non esserci più, anche se solo una di tante. Esiste, in loro, un altro tipo di perversione: quella sessuale e macabra, in nessun luogo meglio ravvisabile che ne Il gelsomino notturno25. Il Pascoli, “guardone” con gli occhi dell’immaginazione, osserva una casa in lontananza, che sola «bisbiglia» nel silenzio della notte, e in particolare la luce del lume che sale le scale e si spegne nella camera da letto. Centrale nella poesia è anche il fiore che apre il suo calice al calar della sera ed esala il suo profumo, penetrante ed inebriante. L’aprirsi della corolla e l’esalare del profumo appaiono come un invito all’amore, di cui il poeta sottolinea la carica sessuale, insistendo sulle intense sensazioni olfattive e cromatiche: il colore rosso, che allude ad una accesa sensualità, si fonde sinesteticamente con il profumo delle fragole, dolce ed invitante. Concluso l’atto e compiuta la fecondazione, i petali si richiudono «un poco gualciti». L’intera contemplazione del rapporto avviene da parte di chi ne è escluso, proprio come accade nell’Isola di Arturo ma con implicazioni differenti. Arturo resta solo in cucina mentre i novelli sposi si avviano in camera, percependo il tempo in modo spropositato, tanto che quelli che gli sembrano anni sono in realtà pochi minuti. Sale al piano di sopra e, nel fiancheggiare la camera del padre, sente «un concitato bisbiglio» (lo stesso della casa nel silenzio della notte ne Il gelsomino notturno. È un caso?), seguito poi, una volta coricatosi, da un grido di lei, giunto attraverso le pareti, «tenero, stranamente feroce, e puerile», a cui si oppone serrandosi le orecchie coi pugni. La differenza tra i due sta quindi nella diversa risposta ad un medesimo ruolo, quello di spettatore: volontario in Pascoli, forzato in Arturo.
Tuttavia, esiste un momento in cui anche Arturo, al pari di Pascoli, manifesta una bizzarria sessuale, e coincide con l’entrata in scena di Assunta, che si dichiara al ragazzo-stella e lo conduce, nel segreto più totale, nella casetta vuota, dove si consuma il primo rapporto sessuale del giovane procidano, un rapporto tutto carnale e vacuo di sentimenti:

«Tuttavia, pur non amando Assuntina, io ero contento di avere un’amante; e, soprattutto, fiero, tanto che mi sarebbe piaciuto di far conoscere la notizia all’intero popolo».26

Nonostante ciò, i due continueranno a ritrovarsi ogni giorno dopo pranzo, riuscendo così Arturo a trovare un po’ di riposo alla sua irrequietudine (come un appuntamento quotidiano in un bordello, luogo dove, tra l’altro, secondo alcune voci critiche, Pascoli trascorreva le sue giornate giovanili a Matera); un riposo, che però non è mai assoluto. Lo si evince dai suoi baci mancati, neppure il più piccolo e semplice le viene concesso, perché Arturo ne ha in mente uno soltanto, il primo ed unico mai dato, a Nunziatella. Il finto suicidio aveva creato l’occasione adatta per dar sfogo alla confusione a lungo indefinita. Il ragazzo, dopo il risveglio, ha trascorso una settimana con la costante cura da parte di Nunziata che addirittura arriva a mettere da parte il figlio neonato, preoccupata unicamente per la salute del figliastro. Non è un caso che il bacio accada proprio in questo momento, quando Arturo, per la prima volta, riesce ad avere davanti a sé una madre, con tutto il suo affetto e il suo amore e sembra quasi che questa circostanza carichi e incentivi il desiderio del bacio materno tanto bramato e mai conquistato. Ma non era un bacio puro, casto, quale un figlio dà alla propria mamma; era un bacio estremamente carico di passione, sensualità, e, perché no, anche perverso. Ora, non solo riesce a pensare al suo nome, ma anche a pronunciarlo («Nunziata! Nunziatè!»), e resterà indelebile nella sua mente.

«[…] mi tornò alla mente che poco prima, nel momento che facevo l’amore con Assunta, avevo dovuto mordermi i labbri a sangue per non gridare un altro nome: Nunziata!»27

La perversione sessuale che lega Arturo ad Assunta è quindi macchiata da un’ombra incestuosa: il pensiero incontrollabile al suo primo amore. Ma tale concupiscenza non è unilaterale, sebbene la scena del primo bacio possa farlo credere; Nunziatella lascia intendere che anche la sua persona è macchiata dal desiderio, soprattutto quando prorompe in una vera e propria scenata di gelosia, dopo aver concepito la relazione tra il figliastro e la compagna. Un brivido maligno percorre la figura della docile e amichevole napoletana, trasformandola in bestia feroce e perfida:

«Bianca, fra i boccoli scomposti e incollati sulla fronte dal sudore, ella torse il viso da me, tenendolo verso l’avversaria: – Vattene! – le gridò, quasi rapita dall’odio. E aggiunse: – Vattene, segnata da Dio28

Ma se Arturo sente l’istinto come irrefrenabile e incontrollabile, Nunziata cerca in tutti i modi, riuscendoci, di controllarsi e reprimere gli impulsi. Trascinata dal vortice del peccato e del male, è divorata da un senso di colpa e dalla paura di essere ripudiata da Dio, e per questo, quasi sfinita, sussurrando, come se parlasse a sé stessa, confessa: «Ah, sono dannata. Sono dannata. Dio… non mi perdona… più…»29. Arturo, privo di fede, propone come rimedio a tutta questa sofferenza di fuggire insieme: lui, lei e Carminiello. Wilhelm ne è escluso non solo perché, come sottolineato in precedenza, il nido sembra destinato a comporsi solo di tre individui, ma anche perché ormai il suo ruolo è declassato ad antagonista, rivale, colui che intacca la stabilità stessa del nido. Eppure, in precedenza, la perversione fisica ed incestuosa, o anzi pseudo-incestuosa, sembra essere indirizzata proprio al padre. Morante sottolinea con grande enfasi alcuni particolari di contatto fisico, certe volte ambiguo, proprio fra padre e figlio, come ad esempio la scena in cui Wilhelm, dopo il ritrovamento dell’orologio, «appoggiò il suo piede nudo sul mio piede nudo»30. Piede nudo su piede nudo, con tutte le implicazioni sensuali che tale immaginario può suscitare nel lettore più malizioso e che Morante sembra marcare tramite, ovviamente, la percezione di Arturo, che in queste pagine è ancora innamorato ed estremamente devoto al “dio” Gerace. Emerge una percezione analoga nell’episodio di un sogno fatto dal giovane, in cui, non potendo avere un contatto diretto col padre, lo cerca con i suoi oggetti:

«Egli, senza neppur guardarmi, mi ordina bruscamente: – Va’ a comperarmi le sigarette – . Fiero di ricevere i suoi comandi, io di corsa risalgo indietro alla tabaccheria, e, di nascosto da lui, bacio il pacchetto di sigarette prima di darglielo».31

Notiamo come in Arturo ci sia la volontà di baciare un pacchetto di sigarette appena comprato, non già appartenente a Wilhelm, affinché il padre possa toccare qualcosa che porti il marchio del suo bacio e trasferirlo così dall’oggetto alla persona.

Quanto detto finora, ci sembra confermare come la perversione sia insita nel nido Gerace e, al contempo, instaurare un collegamento con la vita emotiva di Pascoli. Egli è stato l’ultimo poeta italiano, secondo Garboli, a proiettare il privato nel pubblico e a fare, senza mediazioni, del proprio vissuto un oggetto fenomenale, in cui gli orli intimi combaciano con quelli socio-famigliari. L’io di Pascoli non è mai solo, è sempre in famiglia, attaccato ad essa «come la cozza allo scoglio e l’embrione all’utero […] E se non c’è di mezzo la famiglia, il Pascoli non parla volentieri di sé»32. Appena laureato, cerca di rimediare alla dissoluzione del nucleo originario, dopo la morte di entrambi i genitori, costruendo una vita coniugale, come aveva a lungo sognato, con le due sorelle da poco uscite di convento. Ma ben presto tale convivenza sfocia, o sembra sfociare, in un rapporto incestuoso: una perversione, la sua, sublimata, forse casta. Ne è prova una lettera composta il 2 maggio 1896, inviata ad Ida, in cui il poeta scrive:

«Io spero che Dio ci sia e che ci riveli l’un all’altro spogli della nostra mortalità e delle convenzioni e finzioni sociali. Allora, solo allora, vedremo chiaramente quale abisso d’amore c’era e c’è nel mio cuore per voi due».33

La correlazione così cristallina e stringente tra identità propria e identità famigliare coatta non gli interessa: l’idea coatta è “normale”. Tale correlazione si fissa sulle due sorelle, su Ida e Maria, sugli angioli, e non smette di alimentare la poesia. Pascoli funge, per le due, da fratello, padre, figlio e sposo. Voleva, al contempo, la vecchia famiglia d’origine e una famiglia nuova, sua (e non è, forse, proprio il desiderio di Arturo?). Nelle lettere conservate trapela la passione del poeta, al pari di un amante, prima felice e poi deluso, disperato; un rapporto comunicativo che può solo essere epistolare e cioè privato, tra i membri della stessa tribù, anzi del clan. Solo in questo linguaggio segreto può essere espresso l’amore che si fa nel nido. E infatti, Maria dichiara apertamente di aver perduto una serie di lettere inviatele dal fratello (Coincidenza o reticenza?). È strano che poi le lettere perdute siano proprio quelle relative al periodo in cui Pascoli cercò di separarsi definitivamente dalla fascinazione del nido, tentando di costruirsi una vita propria. D’altronde l’ambiguità del comportamento della dolce Mariù emerge in una lettera che Giovanni le invia:

«Oh! Non capisci che a restituirmi la pace è necessario non che io prenda moglie – belle forze! – ma che io mi innamori? e come si fa, quando il cuore è tutto occupato da voi due? Siete sorelle amate e siete amate da sorelle: così dici. Va bene; ma dimmi in coscienza, senza diplomazia, dimmi, Mariù: tu mi ami da sorella: perché t’ha a dispiacere che io ami una donna da amante da sposo da marito?»34

Dalla lettura sembra quasi che la lettera sia una risposta ad una vera e propria scenata di gelosia (una Nunziatella ante litteram). L’intenzione di sposarsi aveva da sempre accompagnato il poeta ma Maria, mai propensa all’idea di prendere marito, è, allo stesso tempo, avversa all’ipotesi che il fratello possa fidanzarsi.
I fatti parlano chiaro: Maria si oppone al fidanzamento tra Giovanni e la cugina Imelde, raccontando al fratello di aver udito giudicarlo in casa Morri (della neofidanzata) a causa del suo difetto al piede. Pare di rivedere l’astio, provocato dalla gelosia, di Nunziatella per Assunta, zoppa. Sia la napoletana del romanzo che la sorella di Pascoli, tra l’altro, sfruttano un difetto fisico, in maniera diversa, per allontanare le due rivali. Il poeta, dopo ciò, non si curerà nemmeno di chiarirsi con la futura sposa, troncando il fidanzamento (ecco quanto era sincero l’amore che lo legava ad Imelde!).

«A prima vista […] un fratello imprevidente, pseudo-marito e pseudo-padre beffato, paga la sua «minchioneria» (diceva il Carducci) sanguinando di sofferenza davanti a due sorelle che non capiscono o fanno finta di non capire, mentre sanno benissimo di che cosa soffra la vittima».35

Probabilmente il suo animo sensibile non gli permetteva di sopportare l’idea di essere causa di sofferenza per la sorella. Infatti, a chiunque gli proponesse le nozze, opponeva la stessa domanda con lo stesso disarmante sorriso: e Mariù?

Dopo il tradimento di Ida, ormai maritata, e i falliti tentativi coniugali, Giovanni si riassesta sotto la giurisdizione di Maria: non può fuggire dal nido.

La crescita del fanciullino

La poesia pascoliana rappresenta la realtà non in quanto oggettiva, ma nel modo in cui il soggetto-uomo riesce a concepirla dentro di sé, soggettivamente: essa può essere compresa solo con l’immedesimazione, proprio come fanno bambini e poeti. In ogni uomo c’è un fanciullo, spesso soffocato o ignorato dal mondo esterno, quello degli adulti, ma è l’unico vero fautore della giusta interpretazione della realtà. Nella prospettiva di Pascoli, il fanciullino non è una condizione anagrafica, ma interiore, che rappresenta la natura pura e ingenua, candida e innocente, che, nella psicologia di un individuo, può conservarsi anche in età avanzata.

«Quando la nostra età è tuttavia tenera, egli confonde la sua voce con la nostra, e dei due fanciulli che ruzzano e contendono tra loro, e, insieme sempre, temono sperano godono piangono, si sente un palpito solo, uno strillare e un guaire solo. Ma quindi noi cresciamo, ed egli resta piccolo; noi accendiamo negli occhi un nuovo desiderare, ed egli vi tiene fissa la sua antica serena maraviglia; noi ingrossiamo e arrugginiamo la voce, ed egli fa sentire tuttavia e sempre il suo tinnulo squillo come di campanello».36

Chiunque riesca a conservarsi fanciullo, dice Pascoli, può guardare alle cose con stupore ed entusiasmo, oltrepassare, con la fantasia, le apparenze comuni e banali, osservare il mondo con capacità poetica. Tutto parla al fanciullino di orizzonti sconosciuti e affascinanti, di mondi ulteriori, lontani ma raggiungibili, analizzati in maniera istintiva, pre-logica e irrazionale. Arturo sembra essere il prototipo perfetto della visione pascoliana della soggettività: un bambino, poi ragazzo, che riesce a sognare con gli occhi aperti, guardando in faccia la realtà ma percependola tutta entro la propria interiorità, elevando fino al divino tratti umanissimi e inserendo nell’Olimpo la nuova divinità paterna e virile. Adora guardare oltre, scovare sull’atlante i mondi possibili che il padre ha dischiuso e preparato per il suo futuro, ignorando la verità banale e comune, quella di chi non sa essere fanciullino. Ma non si limita solo a immaginare, è in grado di proiettare la propria verità nelle poesie: Arturo scrive, è poeta, è al di sopra della media per capacità intuitiva. Ricordiamo lo stralcio di poesia presente nel romanzo:

«La Beltà delle Donne comparisce alla sera / come i fior notturni, i superbi gufi / dal Sol fuggenti, / e i grilli, e la Luna, regina di stelle. / Ma le Donne non sanno, poiché stan dormienti / qual eccelse Aquile nei loro nidi / che là, in una rupe chiudon l’ali / fra respiri silenti. / E niuno forse mai vedrà / la lor grande Imago di Beltà!…»37

Questo componimento fa emergere, a nostro avviso, la prossimità a Pascoli. Non ci sembra un caso che le donne siano metaforizzate in aquile nei loro nidi; che il riferimento alla natura e ai suoi elementi sia costante (fior notturni; superbi gufi; Sol; grilli; Luna; stelle; Aquile; nidi; rupe); che l’intera poesia sia inserita in un’atmosfera di quiete notturna, oscura e a tratti inquietante, proprio come nei capolavori poetici pascoliani (X agosto; Temporale; Il gelsomino notturno).

Sebbene tali collegamenti siano presenti inizialmente, c’è un momento del romanzo in cui Morante se ne allontana, anzi, va oltre e li supera. Se Pascoli affermava che il fanciullino è presente in ognuno di noi perché parte integrante del nostro essere, sembra che invece Morante, facendo crescere Arturo, lo uccida. Il fanciullino esiste finché resistono le barriere in grado di proteggerlo dal mondo adulto, cinico, eccessivamente razionale, calcolatore. Non è un caso che il primo indizio della crescita lo si avverta nell’alzarsi dal letto dopo la “morte” del protagonista. Sembra quasi che Morante abbia inserito il suicidio, non effettivo ma effettuale, per segnare la morte del fanciullo e la nascita dell’adulto. La prima cosa che nota Arturo, quando per la prima volta si rialza dalla convalescenza, è un cambiamento: « […] sia che davvero, durante la breve malattia, io fossi cresciuto un altro poco […] io mi accorsi allora, per la prima volta, che la sopravanzavo ormai di statura. Questo mi parve il segno di una mia potestà anziana»38. È quasi scontato che Arturo subito dopo aver avvertito una crescita fisica si fiondi a baciarla: ha acquisito sicurezza, e ormai l’ingenuità del bambino, desideroso del bacio della mamma, è scomparsa. Ora è il tempo della perversione, crollano i miti. Primo fra tutti quello del padre, del dio onnipotente ed immortale. Arturo torna a scrivere, questa volta non una poesia, ma una lettera:

«Caro Pa, l’ultima mia parola, che adesso ti scrivo, è questa: che hai fatto male stasera se davvero hai creduto ch’io desiderassi ancora di viaggiare assieme a te, come quando ERO PICCOLO. A quell’epoca, forse ERA vero che io lo desideravo, ma oramai questo desiderio è finito. E sbagli pure se credi che io abbia invidia dei tuoi amici. DA RAGAZZINO, forse era vero che li invidiavo, ma oramai ho conosciuto che sono dei mostri delinquenti e dei fetenti orribili. E spero che una volta o l’altra, là nelle città dove ti trovi con loro, uno di loro ti uccida. Perché io ti odio. E preferirei essere nato senza padre. E senza madre e SENZA NESSUNO. Addio. Arturo».39 (Maiuscoli nostri)

È lampante il cambiamento del ragazzo: dall’infantile attitudine di essere sempre dalla parte del padre, giusta o sbagliata che fosse, alla consapevolezza, poi, della sua reale natura, quella di un traditore. Arturo è arrivato a tale conclusione dopo numerose delusioni: la promessa infranta fatta all’Amalfitano di non accompagnarsi con nessun altro “amico” a Procida; quella mancata fatta a Pugnale Algerino di custodire sempre con sé l’orologio Amicus; infine, quella fatta ad Arturo stesso, di non rivelare ad alcuno la gelosia del figlio. Gli avvenimenti portano il protagonista a rinnegare il suo passato e la primitiva e fanciullesca volontà di condividere ogni momento con Wilhelm nel nido, lo stesso che adesso però ripudia: E preferirei essere nato senza padre. E senza madre e senza nessuno. Ma la lettera non verrà mai letta, Arturo dimostrerà coi fatti l’allontanamento dal genitore, quando, capovolti per la prima volta i ruoli, il padre si reca in camera del figlio per chiedergli l’usuale accompagnamento al vapore per la partenza e, ricevendo un netto rifiuto, se ne va da solo. Guardandolo, dalla finestra, andar via

«Provai una pazza tentazione di correre a precipizio giù in istrada, nella speranza di raggiungere la carrozza e di ritrovarmi accanto a lui, per un piccolo tratto almeno. Ma, pure con questa tentazione, che mi lacerava il cuore, rimasi fermo, lasciando passare i minuti, finché ogni speranza diventò impossibile. […] Avrei voluto trasformarmi in una statua, per non sentire più niente».40

È questo, a nostro parere, il segno di un’ultima resistenza, un ultimo barlume dell’ingenuo fanciullino che, privo di risentimenti, immagina accanto a sé solo l’amore del proprio padre e di condividere con lui anche un solo istante per sentirlo vicino; ma l’orgoglio dell’adulto è più forte.
È il 5 dicembre, il compleanno di Arturo, che, come tutti i precedenti, trascorre da solo, ma con una differenza fatale: adesso la solitudine ha un colpevole, con nome e cognome, Wilhelm Gerace. La grande dannazione dell’essere adulto è per Arturo aver capito, aver conosciuto realmente il padre e ciò che prova per lui.
Per la prima volta nella sua vita (espressione che dal momento di crescita il protagonista ripete con enfasi frequente, segnando il distacco passato/presente) sperimenta l’oscurità dei sentimenti adulti che, insieme, convogliano verso la depressione: perdita della fame, ansia, insonnia, dolore, desiderio di morte.

«Per la prima volta nella mia vita, benché non fossi malato, non avevo fame. Ogni tanto mi assopivo, ma subito mi riscuotevo di soprassalto, con la sensazione di una orribile scossa, o di un frastuono spaventoso. E immediatamente mi rendevo conto che in realtà non c’era stato nulla, né frastuoni né terremoti; era il dolore, che usava quegli artifici maligni per tenermi sveglio e non lasciarmi mai. […] Era la prima volta, da quando vivevo, che conoscevo veramente il dolore.

[…]

Allora, per la prima volta da quando ero sulla terra, mi parve di desiderare sinceramente la morte».41 (Corsivi nostri)

Fuori del limbo non v’è eliso: finita la fanciullezza finisce il paradiso.

Tutte le strade portano a Il piroscafo, finale del romanzo. È inevitabile ormai l’abbandono del nido, e questo Arturo lo sa. Prende infatti la decisione di lasciare per sempre Procida, la tanto amata e tanto odiata isola che lo ha cullato per tutta la sua esistenza: solo così può dire addio alla sua ormai tramontata infanzia. Eppure, nel mettere in atto la sua decisione, ha bisogno di forza, quella che probabilmente non ha ancora acquisito, e proprio per questo la vista del nido che scompare è un’immagine troppo potente e massiccia da poter sopportare:

«Non mi va di vedere Procida mentre s’allontana, e si confonde, diventa come una cosa grigia… Preferisco fingere che non sia esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio ch’io non guardi là».42

Il simbolismo tra prosa e poesia

Quando comincia un romanzo Morante sembra, come sottolinea Garboli, non raccontare altro che la storia di un gatto, o di un mobile di casa, tanto che le sue storie sbocciano da prospettive domestiche e familiari, spesso anguste. Da una semplice casa, o cucina, o corridoio, da quei luoghi distrattamente abitati, trova il modo di farci sapere che dietro di essi ci sia altro. Anche L’isola di Arturo si apre con la rappresentazione di un alloggio: un letto, un quadro, un indumento possono riportare in primo piano fatti dimenticati, far esplodere significati nascosti, tutti riportati di sfuggita, quasi da apparire irrilevanti, ma da cui poi si dischiudono misteriose importanze. «Morante mescola carte diverse, avvicina cose lontane e distanzia le presenti»43 e l’analogia pascoliana, come quella dei simbolisti, accosta in modo impensato e sorprendente due realtà tra loro remote, eliminando gran parte dei nessi logici intermedi, costringendo così a un vertiginoso volo dell’immaginazione.

«Non è il solito effetto dell’arte. Durante tutta la sua rappresentazione, quella stessa Morante che ci stava raccontando di un mare più mare del mare, di un cielo più celeste del cielo, ci stava anche impercettibilmente dimostrando che la spiaggia della sua rappresentazione è deserta, è sempre stata deserta, l’isola in forma di delfino non esiste, e mandolini e chitarre hanno suonato una volta per dirci che essi tacciono da sempre e per sempre».44

Il romanzo esibisce una serie di simboli che implicano una cogitazione che sposta il pensiero dalla superficie alla profondità, richiamando all’attenzione particolari e oggetti che in un primo momento sembrano inessenziali, ma che si rivelano poi carichi di significato. Esempio lampante sono gli orecchini d’oro che Nunziata indossa sin dal primo incontro e che Arturo, in un primo momento, nota senza attribuirgli importanza: non solo questi diverranno nel corso dell’opera dei voti appesi a un’effige sacra, ma, nella conclusione, saranno l’emblema dell’amore ricambiato. Altro oggetto centrale è il cammeo con incisa la testa della dea Minerva, che Arturo manda come regalo a Silvestro e che ritornerà, sempre nella conclusione, sotto forma di anello, simbolo di agnizione e di rinata amicizia. Il simbolismo non solo ritorna frequente nel romanzo, ma anche nella poesia di Arturo, o ancora nel ricordo dei morti, della madre, sentito quasi come dovere cui appellarsi per poter giustificare un sentimento d’amore pseudo-incestuoso. Anche in questo caso punto di riferimento è Pascoli, poeta genuinamente simbolista, la cui parola si carica della soggettività dell’io, che dice le cose non come sono, ma come le sente. Quella del fanciullino è una visione bassa: essendo privo di filtri culturali, di aspettative o finalità ideologiche, egli può percepire il mondo solo in maniera infantile, ingenuamente. L’immagine più frequente della poesia pascoliana è il nido, principale simbolo e non a caso protagonista del siffatto elaborato. Giorgio Bárberi Squarotti ha utilizzato strumenti psicoanalitici per interpretare la fitta simbologia sottesa ai versi pascoliani e in particolare quella riguardante il nido. In esso si traduce la concezione della famiglia come nucleo chiuso, segreto, geloso, fondato solo su affetti viscerali, sui legami oscuri del sangue. Nella società ridotta al nucleo isolato e incomunicante della famiglia, gelosamente chiusa in sé, vivono e sopravvivono soltanto i legami irrevocabili, quelli non eludibili del sangue.

In conclusione, ci sembra di comprendere che Morante abbia tenuto in considerazione Pascoli nella scrittura e stesura del romanzo, e che quindi, se qualcuno ritiene opportuno riferirsi al poeta fanciullino quando si parla di Useppe ne La Storia, allora perché non ampliare la correlazione anche a L’isola di Arturo, in cui non solo Pascoli sarebbe presente, ma Morante sembrerebbe quasi superarlo, e andare oltre i limiti posti dallo stesso poeta. Insomma, stiamo forse fantasticando e viaggiando troppo in là; ma se così non fosse, bisognerebbe iniziare a prendere in considerazione una concreta influenza del poeta del nido in Elsa Morante.


NOTE

1 E. Morante, L’isola di Arturo, Einaudi, Torino, 2014, p. 33.

2 Ivi, p. 34.

3 Ivi, p. 34.

4 Ivi, p. 36.

5 Ivi, p. 34.

6 Ivi, p. 52.

7 Ivi, pp. 52-53.

8 G. Pascoli, Myricae, Mondadori, Milano, 2015, p. 398.

9 E. Morante, L’isola di Arturo, cit., p. 39.

10 Ivi, p. 41.

11 Ivi, p. 73.

12 Ivi, p. 74.

13 Ivi, pp. 79-80.

14 Ivi, p. 134.

15 C. Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, Quodlibet, Macerata, 2020, p. 349.

16 G. Pascoli, Lettere. 1895-1912, a cura di Clemente Mazzotta, CLUEB Editore, Bologna, 1989, p. 41.

17 C. Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, cit., p. 310.

18 E. Morante, L’isola di Arturo, cit., p. 124.

19 Ivi, p. 125.

20 Ivi, pp. 129-130.

21 G. Pascoli, Myricae, cit., pp. 89-90.

22 La definizione del nome Arturo deriva da C. Garboli, Il gioco segreto. Nove immagini di Elsa Morante, Adelphi, Milano, 1995, p. 69.

23 E. Morante, L’isola di Arturo, cit., p. 197.

24 G. Pascoli, Lettere. 1895-1912, cit., p. 80.

25 E s’aprono i fiori notturni, / nell’ora che penso a’ miei cari. / Sono apparse in mezzo ai viburni / le farfalle crepuscolari. // Da un pezzo si tacquero i gridi: / là sola una casa bisbiglia. / Sotto l’ali dormono i nidi, / come gli occhi sotto le ciglia. // Dai calici aperti si esala / l’odore di fragole rosse. / Splende un lume là nella sala. / Nasce l’erba sopra le fosse. // Un’ape tardiva sussurra / trovando già prese le celle. / La Chioccetta per l’aia azzurra / va col suo pigolìo di stelle. // Per tutta la notte s’esala / l’odore che passa col vento. / Passa il lume su per la scala; / brilla al primo piano: s’è spento …. // È l’alba: si chiudono i petali / un poco gualciti; si cova, / dentro l’urna molle e segreta; / non so che felicità nuova. (G. Pascoli, Canti di Castelvecchio, a cura di G. Nava, Rizzoli, Milano, 1983)

26 E. Morante, L’isola di Arturo, cit., p. 284.

27 Ivi, p. 282.

28 Ivi, p. 289.

29 Ivi, p. 291.

30 Ivi, p. 41.

31 Ivi, p. 68.

32 C. Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, cit., p. 29.

33 Ivi, p. 38.

34 G. Pascoli, Lettere. 1895-1912, cit., p. 127.

35 C. Garboli, Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, cit., p. 50.

36 G. Pascoli, Pensieri e discorsi, MDCCCXCV-MCMVI, Bologna, 1907, p. 1.

37 E. Morante, L’isola di Arturo, cit., p. 157.

38 Ivi, p. 257.

39 Ivi, pp. 345-346.

40 Ivi, p. 349.

41 Ivi, pp. 349-350; 352.

42 Ivi, p. 379.

43 Ivi, p. XVI.

44 Ivi, p. XII.


* Benedetta Mastrullo e Matteo Mocerino: entrambi nati nel 1998, frequentano il corso di laurea magistrale in Filologia Moderna all’università Federico II di Napoli.

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.