Il kibbutz fra realtà e utopia

Il kibbutz fra realtà e utopia


di Francisco Soriano

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Il significato della parola kibbutz, che vuol dire “comunità”, “ritrovo”, “assemblea”, esprime con chiarezza la funzione di un originale progetto sociale, politico ed economico iniziato durante l’immigrazione ebraica in Palestina. Il kibbutz è una fattoria agricola che si regge fondamentalmente sulla autogestione delle risorse e della produzione di beni. Alla base della formazione originaria del kibbutz esisteva un’idea di società laica e socialista che si edificava sui valori dell’eguaglianza nei guadagni, nelle abitazioni, nell’educazione dei bambini, in ogni risorsa esistenziale dal cibo ai vestiti, fino alla gestione comune di macchine, attrezzi e mezzi di trasporto. Nonostante sia passato molto tempo dalla fondazione di questa particolare forma di gestione sociale ed economica, il kibbutz resiste e se ne contano tutt’oggi circa 270, per una popolazione che somma 126 mila persone.

Le primissime comunità sorsero nella prima decade del Novecento, precisamente in un territorio che apparteneva alla Siria dell’Impero ottomano: Degania. I fondatori erano più di una decina, di origini russe, allontanatisi dalla rivoluzione che mostrava i suoi primi vagiti di intolleranza e violenza persecutoria. L’idea portante di questa nuova esperienza visionaria e per certi aspetti intrisa di aspetti evidentemente utopici era stata già sviluppata da un pensatore ucraino nato nell’ex Impero russo nel 1881, Dov Ber Borojov. Egli propugnava un sionismo operaio, essendo di cultura marxista e uno dei fondatori del cosiddetto sionismo socialista.

Dov Ber Borojov, Edmond de Rothschild, Ahron David Gordon, Theodor Hertzl

Non solo Borojov, anche altri pensatori pragmatici come Ahron David Gordon molto contribuirono al progetto e soprattutto alla formazione dell’idea che un popolo sia in grado di conquistare la propria libertà solo se è capace di autosostenersi e autogestirsi con una prevalente attenzione al controllo dell’agricoltura. L’idea di terra al centro dell’esistenza di un popolo rafforzò quella del lavoro come sintesi primaria nella progettazione della fattoria comunale, in linea con la creazione di uno stato o entità statale che richiedeva l’assoluto controllo della terra. Sul concetto e sull’idea di lavoro molto influenzeranno le ideologie socialiste dei primi ebrei che arrivarono nella “terra dei padri” al fine di fondare una comunità ebraica stabile e finalmente libera da persecuzioni. I pionieri ebrei, giovanissimi, intendevano perseguire una grande idea che consisteva nel superamento di questa eterna diaspora, lottando fra quelli che erano i loro riferimenti teorici e la realtà, con il pragmatismo tipico della cultura ebraica. Nonostante le contraddizioni e gli errori di cui furono naturalmente protagonisti alle origini del progetto, riuscirono a trovare la sintesi nell’idea di insediarsi stabilmente in Palestina, mettendo insieme il concetto di conquista del lavoro e della terra, quest’ultimo maturato soprattutto dalle condizioni e dalle relazioni spesso problematiche con gli arabi. Fu così che all’inizio del primo decennio del secolo la comunità ebraica si radicò in Palestina e proprio il kibbutz, esperimento plateale di questa collettività, contribuì a quel processo che dopo il 1948 caratterizzò la nascita dello stato di Israele.

In un luogo abbastanza impervio, senza acqua, infrastrutture, vie di comunicazione, assistenza sanitaria, con un clima diverso dalla Russia, e tenendo conto delle restrizioni del governo ottomano sin dal 1882, è necessario ricordare due momenti storici inerenti al progetto dei kibbutz: quello fra il 1882 e il 1904, ricordato come la prima aliyà (30 villaggi rurali con 5.500 abitanti), e il periodo della seconda aliyà, fra il 1904 e il 1914, durante la quale 40.000 ebrei immigrarono in Palestina, dalla Russia, dalla Polonia e dallo Yemen. I primi periodi furono durissimi e misero in seria crisi l’idea di tornare nella “terra dei padri”, molte furono le partenze e pochissimi gli arrivi. Il sostegno principale oltre che dai sionisti russi venne dal barone Edmond de Rothschild, che insieme alle sue organizzazioni assistenziali spedì enormi fondi economici. A differenza di quello che istintivamente potrebbe sembrarci, quest’uomo condizionò fortemente l’insediamento ebraico ma non ebbe la stessa idea dei giovanissimi sionisti che addirittura gli si opposero: il punto era che il barone osteggiava quei giovani socialisti, addirittura libertari, vicini a certe idee del nichilismo russo, utopisti che immaginavano una autosufficienza economica e politica. Rothschild a quei tempi non era sionista, era un filantropo paternalista con intenti caritativi e nessuna tendenza a ritenere possibile la rinascita di una entità nazionale ebraica. In definitiva egli considerava i primi coloni come propri dipendenti a suo carico.

L’Impero ottomano viveva ormai una crisi cronica, economica e organizzativa, e in questo contesto in molti sostenevano l’idea di un autogoverno in Palestina. Lo pensava soprattutto Theodor Herzl, che riuscì addirittura a incontrare il Sultano. Quasi per assurdo ma con una logica molto comprensibile, lo sviluppo economico che l’immigrazione ebraica aveva contribuito a sostenere faceva da leva a un’altra immigrazione, quella araba, che si aggiungeva a quella residente e autoctona, disponibile a fornire la manodopera. L’impronta economica degli ebrei dello yishuv cominciò a sovrastare quella troppo primitiva degli arabi e grazie alla vendita dei prodotti sul mercato internazionale e alle sovvenzioni delle organizzazioni diasporiche, soprattutto del barone Rothschild e, dal 1900, dall’Associazione di Colonizzazione Ebraica del barone Hirsch (I.C.A.), si stabilizzò sempre di più. Gli arabi rappresentarono presto la maggioranza dei lavoratori e questo era in contraddizione con l’ideologia del lavoro dei pionieri del sionismo russo che furono protagonisti di grandi scontri con Rothschild, soprattutto da parte dei Biluim, un gruppo sionista fondato nel 1881 da studenti della regione di Karkov. I Biluim erano un gruppo molto interessante perché si consideravano una élite e, soprattutto, l’avanguardia del movimento nazionale ebraico con la visione della fondazione di uno stato in Palestina con un indirizzo socialista sul modello di un insediamento agricolo. Il loro socialismo aveva radici populiste e fu tipicamente russo, con accenti tolstojani, direttamente riconducibile al mondo studentesco rivoluzionario della seconda metà di quel secolo in epoca zarista. Nel 1884 i pionieri fondarono Gedera, ottava colonia sionista democraticamente auto-amministrata dai propri residenti. Le difficoltà nella sopravvivenza di queste colonie animate da una forte carica ideologica costrinse a chiedere comunque aiuto al barone Rothschild, nonostante il loro sionismo intransigente.

Non a caso i pionieri della seconda aliyà provarono frustrazione e delusione perché i loro ideali originari erano stati necessariamente traditi per poter sopravvivere, aggravati da contrasti interni e contraddizioni dettate dalle difficoltà oggettive del territorio. Ahron David Gordon, leader della seconda aliyà, ebbe ad affermare che ormai qui – regnano il gretto egoismo ed il più crudo materialismo, che superano anche quelli della diaspora. Nonostante tutto gli ebrei della seconda aliyà resistettero grazie all’esperienza politica maturata durante la militanza nel movimento rivoluzionario russo e perché sfruttarono gli insediamenti già avviati dalla prima aliyà, che assicuravano nonostante tutto una sopravvivenza immediata. Inoltre altri aiuti si manifestarono agli inizi del secolo grazie all’Organizzazione Sionistica Mondiale che Herzl contribuì a fondare: si costituirono una serie di enti per favorire gli insediamenti in Palestina fra i quali c’erano il Fondo Nazionale Ebraico che acquistava terreni insieme alla Compagnia di Sviluppo della Terra Palestinese, fondata nel 1908 su pressione di Arthur Ruppin. Quest’ultimo fu un personaggio di rilievo e massimo esperto della condizione ebraica nella Russia zarista. Egli era generalmente vicino alla visione dei pionieri, sensibile alle loro richieste perché da giovane si era stabilito a Giaffa ed era divenuto direttore dell’Ufficio Palestinese dell’Organizzazione Sionista Mondiale, pertanto aveva conoscenza reale di quei territori. Nelle sue memorie Ruppin affermava: stabilii rapporti amichevoli con molti esponenti della seconda aliyà che si dedicavano all’agricoltura; essi mi erano estranei per molti aspetti soprattutto perché guidati da istinto ed emotività, tendevano a disperdersi in discussioni senza fine, erano ingovernabili, mai puntuali ed inaccurati del proprio lavoro. Ma riconobbi che più importante di tutto ciò era il loro porre al centro di ogni cosa il lavoro agricolo inteso come mezzo per la costruzione della nazione ebraica. Anche il loro entusiasmo andava preservato a ogni costo. Le migrazioni intanto si susseguirono e lo sviluppo fra errori e successi, contrasti e motivazioni comuni si evolse completamente con la seconda aliyà che, delineatasi negli anni precedenti alla Prima guerra mondiale, venne legittimata nella sua opera al mondo intero con la Dichiarazione di Balfour del 1917.

Una questione rilevante si delineava già dalla fine dell’Ottocento, quando i contrasti fra arabi ed ebrei dalla prima aliyà si caratterizzavano per le differenze macroscopiche negli usi e costumi e nella mentalità. Nacquero contrasti molto seri tra i pionieri socialisti russi e i fellahim arabi che lavoravano la terra in modo rudimentale sui grandi latifondi di proprietari arabi che vivevano a Damasco, Beirut, Il Cairo e Gerusalemme. Alcuni volevano recintare le terre, altri ritenevano il suolo un bene comune e, ad esempio, nel 1892 a Zichron Ya’cov, su indicazioni di Rothschild, i nuovi arrivati cominciarono a produrre vino, offendendo il credo degli arabi. Non solo si formava uno spirito nazionale ebreo, ma anche fra classi dirigenti arabe, insieme alla élite cristiana residente nelle maggiori città, si costituiva un nazionalismo che faceva preludere a uno scontro mai sopito fino ai nostri giorni. I coloni non potevano sopportare che fossero gli arabi a lavorare la terra, non per razzismo, estraneo alla loro cultura socialista, ma perché la rinascita e la purificazione del popolo ebraico passava obbligatoriamente attraverso il lavoro della terra. Nessun compromesso sul lavoro arabo era possibile, tanto che David Ben Gurion scriveva che i coloni della prima aliyà erano divenuti dei borghesi, negozianti che mercanteggiavano le speranze del popolo ebreo, profanando la creazione della patria con lavoro estraneo, definendolo avodà zarà, in diretta simbiosi con il termine biblico che definisce l’idolatria. Fu così che si costituì chiaramente una vera esaltazione messianica del movimento pioneristico, dando il significato della lotta al lavoro arabo una connotazione mistica, un atto blasfemo che estraniava dal senso dell’ebraismo originario. Le accuse non erano rivolte agli arabi che lavoravano la terra per guadagnarsi da vivere, ma ai proprietari e alle associazioni che avevano profanato lo yishuv sionista.

Una particolare dinamica fra ebrei si scatenò grazie a una contraddizione interna dettata dai loro stessi principi teorici. Fu proprio nella relazione fra il sionismo socialista e la popolazione araba che si arrivò a una lacerazione fra cosmopolitismo socialista ed “egoismo” nazionalista. Come si poteva conciliare l’insediamento di una classe lavoratrice ebraica in Palestina per la realizzazione del sionismo con la visione dell’internazionalismo e della solidarietà di tutti i proletari, con l’idea che solo a una parte di essi era consentito di lavorare la terra? Lo scontro avvenne effettivamente fra i Poalei Zion internazionalisti e marxisti e l’HaPoel HaTzair, nazionalista e influenzato dal socialismo populista slavo. Il leader della esaltazione del lavoro ebraico come unica strada per la conquista di una identità nazionale fu Ahron David Gordon, che non fu né un teorico né un filosofo ma un coerente e pragmatico assertore dell’azione diretta e della realizzazione degli obiettivi senza il tipico “discussionismo diasporico” che caratterizzò le prime comunità ebraiche. Il motto alla base dell’obiettivo sionista era “lavoro ebraico sulla terra ebraica”. Gordon metteva in pratica ciò che Tolstoj teorizzava, cioè che lo sforzo individuale avrebbe premiato il sacrificio degli uomini, perché è l’uomo a modellare la società e non il contrario. Per Gordon l’ebreo diasporico doveva divenire un ebreo emancipato, libero dai condizionamenti del suo status, se nel suo intimo si trasformi in esistenza completa e autentica. Il lavoro divenne così una religione e una via di salvezza, il mezzo per legittimare il possesso della terra e vincere la competizione con gli arabi. Per Gordon la realizzazione di questo obiettivo risiedeva nel kibbutz, perfetta e completa sublimazione della sua idea di lavoro.

Molte e complesse furono le vicissitudini che si susseguirono velocemente e con sacrifici immani, soprattutto da coloro i quali ritenevano che l’unico modello possibile fosse la vita rurale dei kibbutz. Sforzi disumani ma anche idee e slanci che rendono questo periodo, ancor oggi, come una vera epopea dei padri fondatori della terra d’Israele sotto il segno di un socialismo egualitario e rivoluzionario. Come affermano gli stessi studiosi di questo momento storico così originale, per paradosso fu proprio il kibbutz, che intendeva superare l’errare degli ebrei in tutto il mondo, a conservare nel suo intimo l’ideale e i valori politici della diaspora. Anche per questo esso fu e rimane una componente in percentuale molto minoritaria in Israele, sia per i sacrifici che si richiedevano ai propri aderenti, sia per l’accettazione di una monolitica forza valoriale. Tuttavia dopo l’Olocausto e le persecuzioni millenarie, il kibbutz rappresenta una visione pragmatica e finalmente realizzata di un’utopia che appariva impercorribile, concretatasi soprattutto in quell’umanesimo sionista in cui il modello era l’identità di un popolo millenario costruita attraverso il proprio lavoro.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.

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