“Guerra” di Louis-Ferdinand Céline e Ottavio Fatica. Riflessioni, escursioni, analogie

GUERRA di Louis-Ferdinand Céline e Ottavio Fatica. Riflessioni, escursioni, analogie.


di Luisa Crismani

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«Invero, non ho mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il tradurre. In entrambi i casi, per quanto mi concerne, si è sempre trattato soltanto di cercar di esprimere me stesso nel miglior modo: nel cercar di “far bene” qualcosa di idoneo a esprimere il mio animo. L’impegno è sempre rimasto in me medesimo e di egual natura, senza scorgere di diverso null’altro che il movente, l’impulso.

Come, e per quali vie, appoggiandomi a quali discipline, mi sia accaduto a volte di raggiungere l’intento, permane ai miei stessi occhi un mistero. Ed è l’unica cosa di cui, davvero, dovrei arrossire, giacché non vi è nulla di più anacronistico, in quest’era in cui tutto si è transmutato in scienza o in tecnologia, d’uno che pare rimasto, come me, all’epoca della caverna, e che ancora “ragiona” come avrebbe ragionato un artigiano dell’età comunale. […]

Ma l’importante è che io riesca talora, a dispetto di tale ignoranza, a esprimermi in modo non del tutto indecente, il che non vuol per niente dire, nel caso d’una traduzione, ch’io – sempre – non renda affatto, cercando in primis di rendere me stesso, anche qualcosa dell’autore che ho tradotto. Anzi, continuo a credere fermamente che sia proprio e soltanto questo – almeno per me – l’unico modo onesto di avvicinarlo, pur se tra il mio prodotto e il suo rimarrà sempre, e per forza, una diversità, lontano come sono dal sognare una traduzione quale perfetto double (o fotocopia) dell’originale. […]

Ma ecco che mi pare di aver così toccato, e quasi senza avvedermene, uno dei tasti più delicati a proposito del tradurre: il rapporto – sul piano spirituale ed espressivo – fra traduttore e autore, che automaticamente sostituisce o antepone alla domanda “come tradurre”, l’altra: “perché tradurre”; domanda che in anticipo respinge, non occorre dirlo, ogni facile risposta di tipo utilitario, filantropia culturale compresa».

Sono parole di Giorgio Caproni, e ho voluto esordire con esse per questi miei appunti di lettura, che stavolta non sono proprio appunti, piuttosto riflessioni, e anche altro.

Letto e riletto più volte Guerre, ho atteso con impazienza la sua traduzione italiana. Premetto: non amo Céline tradotto. E non l’ho mai letto in italiano, tranne nel caso di alcune lettere (alle amiche, agli editori) e del Semmelweiss, sua tesi di laurea (1924) e insieme lettera d’intenti, ancorché inconsapevole. Guarda caso tutte e due le traduzioni, Guerra e Semmelweiss, sono opera di Ottavio Fatica. Il mio disagio nei confronti del Céline tradotto è molto simile, anzi è la stessa cosa, di quello che benissimo Fatica afferma si provi nei confronti di un testo italiano tradotto in altra lingua: «Leggere in traduzione un testo scritto nella propria lingua, anche un testo chiaro, semplice, di facile decifrabilità, può dare un forte senso di straniamento, d’insoddisfazione, far sentire un vuoto, una mancanza». (Lost in translation, p. 37)

Quando ho avuto in mano Guerra, la prima cosa che ho letto è stata, in fondo al volume, la Nota del traduttore, dove viene ribadita la difficoltà che sempre implica la traduzione di Céline, aumentata in questo caso dall’essere Guerre una prima stesura, che comporta nel testo «scarti involontari meno facili da osservare e, quel che è più, da rendere» (p.155). E ho riletto anche l’ultimo capitolo di Lost in translation, libretto preziosissimo per coloro che conoscono o studiano una lingua fino a ieri estranea (la tentazione di tradurre ‘da’ e soprattutto di scrivere ‘in’ una lingua appresa è sempre molto forte), là dove Fatica parla di Céline , mentre si accinge a tradurre Guerre. «E dovrò per paradosso ritrovare la giusta dismisura, adatta a lui, a quello che vuole ottenere con le sue parole, nella mia lingua. Per questo dovrò lasciar entrare in me il delirio, come il delirio era entrato in lui – a meno che, in lui sempre presente, non abbia fatto altro all’occorrenza o alla prima occasione buona che erompere da lui senza più freni o limiti. Un delirio allucinato e lucido, diciamo pure clinico: Céline sapeva dove mettere il termometro; un cronico delirio perseguito fino in fondo, fino all’ultimo, con maniacale metodicità». (Lost in translation, p. 55-56)

Sulla traduzione di Céline in particolare Caproni si era espresso anche lui, e aveva affermato che una lingua italiana in grado di tradurlo era tutta da inventare e che lui non si sentiva in grado: «un clochard non è un ‘barbone’, a dispetto dei dizionari» sosteneva. (Eppure è a lui che gli italiani debbono l’unica traduzione in commercio di Mort à cdit…)

Ma Fatica si lancia nell’avventura, in un tassì guidato da Bardamu, entrambi pieni di rabbia e di paura, «dentro l’abitacolo aleggia un’aria arsiccia» (p.59) e nella frase aleggia la poesia di Fatica, non so se da Omissioni o dal Serpente ma è da lì che viene, e ti persuade – se ce ne fosse bisogno – della sua consonanza con Céline: per entrambi il senso non è l’unico legame possibile tra le parole. Si sono trovati, Céline e Fatica. Ci auguriamo sia un incontro fecondo. Sta tutto lì.

«io ho preso la parola:

la parola

non mi ha più lasciato

e adesso il mondo

è sempre per domani»

Così Fatica nella poesia Il mondo è (Vicino alla dimora del serpente, p.44) (Per semplificarmi/vi la vita citerò questa raccolta come Serpente).

Non solo quello che dice a proposito del tradurre, nell’attesa che uscisse Guerra volevo conoscerlo, il traduttore, e ho letto le sue poesie, le rileggo ancora, mentre mi dedico al terzo inedito, La volonté du Roi Krogold.

E ho capito che anche per lui, come per Caproni, tradurre e scrivere sono entrambi atto creativo, di più: per lui anche la poesia è un tradurre, trasportare, (trasporre diceva Céline), scrive nella nostra lingua ma in un modo tutto suo, in un linguaggio, un’intima emozione tutti suoi. A noi lavorarci insieme, per sentirli.

Lungi da me qualsiasi presuntuoso tentativo di critica letteraria: anche in questo caso ho preso appunti, versi e parole che elenco qui.

Anagrammi – «nell’aria tersa resta» (Serpente, p.89)

Allitterazioni – «[…] per questo quello

invoca invano invidia

inventa Tazio […]» (Serpente, p.58)

«[…] un gatto e due pulcini

giallo e nero

inermi, inerti

ingenui a bordo

della zattera, i primi

inutili soccorsi…» (Serpente, p.8)

Parole inusuali – battima per battigia (Omissioni, p.66)

bruzzolo per bruzzico (Omissioni, p.4)

scarificato (Omissioni, p.50)

sidera, siderato (Serpente, p.10, 158 ma anche altrove)

feerico (Omissioni, p.78) (come non pensare a Féerie pour une autre fois?)

buccinano (Serpente, p.18)

Riflessioni – «[…] quel che vado dimenticando

dalla nascita in tutte

le lingue che ho disappreso

giace spiaggiato a bordo pagina» (Omissioni, p.78)

«[…] e poi ogni frase rientra nell’inchiostro […]» (Serpente, p.10)

«Tu il dito sulle labbra

dimentica se vuoi

dimentichi e non puoi

che le parole

le figlie della terra

sono nostre figlie

chi deve averne cura

se non noi?

Fatemi piangere». (Serpente, p.24)

Musica – «Come fiocchi di neve

A uno a uno

scendono dall’alto

ognuno il tutto, l’unico

il nulla di ogni altro.

Scendono a fiocchi scendono

non ce n’è due uguali

scesi quaggiù si sciolgono:

impareranno mai?

Non c’è che l’esperienza

dicono gli sciocchi

ma è senza conseguenza per

il fiocco e per i fiocchi.

A uno a uno scendono

dall’alto, ognuno il tutto

l’unico

il nulla di ogni altro.

Scendono a fiocchi

oh scendono, no non

ce n’è due uguali e

quando quaggiù si sciolgono.

Non impariamo mai». (Serpente, p. 104)

Non è una diversione questo elencare poesia. Né tanto meno questa e chiamarla musica.

Ricopio qui alcune righe di Céline, maestro della musica. Ho solo l’imbarazzo della scelta: decine di esempi. Scelgo questo, da Mort à crédit. La traduzione è quella di Caproni.

«On discernait bien les navires, de cet endroit-là, les venues, les rencontres du port… C’était comme un vrai jeu magique… sur l’eau à remuer de tous les reflets… tous les hublots qui passent, qui viennent, qui scintillent encore… Le chemin de fer qui brûle, qui tremblote, qui incendie per le travers les arches minuscules… Nora, elle jouait toujours son piano en nous attendant… Elle laissait la fenêtre ouverte… On l’entendait bien de notre cachette… Elle chantait même un petit peu… à mi-voix… Elle s’accompagnait… Elle chantait pas fort du tout… C’était en somme un murmure… une petite romance… je me souviens encore de l’air… j’ai jamais su les

paroles… La voix s’élevait tout doucement, elle ondoyait dans la vallée… Elle revenait sur nous… L’atmosphère au-dessus du fleuve, ça résonne, ça amplifie… C’était comme de l’oiseau sa voix, ça battait les ailes, c’était partout dans la nuit, des petits échos…» (p.759)

«Scorgevamo bene le navi, da quel posto lì, gli arrivi, gli incontri nel porto… Era proprio come un magico gioco… sull’acqua che tremolava di mille riflessi… tutti gli oblò che vanno, che vengono, che scintillano ancora… La ferrovia che infiamma, che fa tremolare, che incendia passando le minuscole arcate,,, Nora, lei era sempre lì a suonare il pianoforte aspettandoci… Lasciava la finestra aperta… La sentivamo bene dal nostro nascondiglio… Cantava anche, un pochetto… sottovoce… Accompagnandosi… Non cantava mai a voce spiegata… Era insomma un murmure… una breve romanza… Ne ricordo ancora il motivo… Le parole non le ho mai sapute… La voce si alzava dolcemente, vagava per la valle… Tornava a noi… L’atmosfera sul fiume faceva da cassa armonica, l’amplificava… Era come un uccello, la sua voce… batteva le ali, si svegliavan dappertutto, nella notte, piccoli echi…» (p. 234)

La musica, dicevamo: lì c’è il ritmo dei versi, qui i tre puntini… entrambe cullano, come una ninna nanna…

«Le parole non sono niente se non sono le note di una musica dell’anima. La magia non sta nelle parole sta nel giusto tocco, come nel piano – arie – Chopin – note – Tu lo sai» (così Céline in una lettera a Albert Paraz, febbraio 1948, da Copenaghen).

A Guerra ci arriviamo, tra un attimo. Presentare il traduttore-poeta mi sembrava necessario.

Céline lo conosciamo e, nel caso degli inediti pubblicati ora (Guerre, Londres, La volonté du Roi Krogold), non dobbiamo pensare a lui com’era negli ultimi anni a Meudon, malato, stanco, deluso, pieno di rabbia e rancore, ma al quarantenne, medico di banlieue, certo, ma anche un poco dandy, che ha amiche ballerine, ginnaste, pianiste che praticano l’alpinismo, donne insomma che hanno cura e passione per il proprio fisico, atletico, elegante, (musclé), altro che misoginia! Verso di loro ha un affetto sincero e spesso un atteggiamento protettivo e paterno (come avrà Cantaloup nei confronti di Lady in Londres) e di sua figlia bambina si occupa e ne sarà geloso quando, adulta, sposerà un tale Turpin che lui non vorrà nemmeno conoscere e con questi farà cinque figli. Céline è contrario all’aborto, scrive alle amiche di stare attente, a volte spiega come non restare incinte. Ricordiamo certo l’episodio della ragazza che muore dissanguata in Voyage per un aborto ‘casalingo’ e la desolazione nell’animo del dottor Bardamu costretto ad assistere impotente perché i genitori si rifiutano di farla portare all’ospedale… Ma Céline, il dottor Destouches, medico e uomo, non può essere indifferente alla procreazione irresponsabile, in un mondo in cui gli uomini si massacrano l’un l’altro, da una guerra all’altra, che sembra non aver mai fine. Perché mettere al mondo? In ‘questo’ mondo? Ai suoi nipotini da Copenaghen farà portare in regalo cioccolata dagli amici in Francia, ma i bambini che descrive nei romanzi sono quasi sempre vittime, degli adulti, delle circostanze, della guerra, animati da una grandissima forza interiore («Hardi petit!») ma spesso soccombenti.

Posso? Tiro in ballo un altro nostro poeta contemporaneo, Valerio Magrelli. È inevitabile quando si tratta di Céline, al suo fianco stanno poeti, non romanzieri. Non ha avuto seguaci, Céline, lui l’aveva previsto: «Prenderanno un pezzetto qua, un pezzetto là, non altro… E’ troppo dura» e Carrère, in una recente intervista lo conferma: «Questa è una cosa che mi colpisce molto. Céline non ha avuto una discendenza. Tanto meglio. Certo, ci sono stati autori che ne hanno subito l’influenza, ma non c’è stato niente di significativo in questo ambito. Céline è un ‘hapax’ . Non possono esserci due Céline».

Il traditore

«Ho infettato i miei figli trasmettendogli vita.

Per tollerarla, l’ho disseminata,

alimentando ciò da cui fuggivo,

gettando su questi incolpevoli il peso

che da solo non riuscivo a portare,

e pur di sopravvivere li ho dati alla luce, alla gogna.

Staffetta dell’infamia: ho suddiviso il carico,

ho riprodotto sherpa».

Questa poesia mi è tornata alla mente quando qualche settimana fa ho trovato su uno degli inserti culturali dei quotidiani, una lettera di Carl Gustav Jumg alla sua collaboratrice Aniela Jaffé. La lettera è del 20 0ttobre 1959 e dice, fra l’altro:

«Soffrire è stato, in un modo o nell’altro, inevitabile. Ma io voglio soffrire per le cose che mi appartengono davvero. Un motivo decisivo per seguire questa via è stato sapere che se io non realizzo pienamente la mia vita, essa passerà in eredità ai miei figli e su di loro incomberà, oltre alle loro proprie difficoltà, anche il peso della mia vita non vissuta. Sono consapevole di quale gravoso peso abbia dovuto prendermi

dai miei genitori. Non si può semplicemente scrollarselo di dosso. Con esso ci si trova investiti di un’eredità che siamo obbligati ad accettare e a portarci dietro, così come una lumaca si porta appresso la sua casa».

Come al solito, la poesia appare più incisiva, più ‘vera’ della scienza, tuttavia…

E veniamo al dunque. Su Guerre ho già scritto qualche tempo fa su questo foglio.

Guerra l’ho letto come si legge un libro nuovo, sconosciuto. Volevo vedere cosa avrei provato alla fine. Quale emozione. È stata, ricordo, la stessa, identica, che avevo provato dopo aver letto l’originale.

Avevo pensato, all’inizio, di leggere con il testo a fronte, non ci ho nemmeno provato. Per quale motivo farlo? Non sono un traduttore, e poi cosa avrei dovuto cercare? Soluzioni o errori? Tradimenti? Dissonanze? Non ha senso. Però ricordavo benissimo alcuni punti e come li trovavo in italiano andavo a guardare l’originale.

Immagino non siano queste le cose che contano. L’importante è il tono generale, lo spirito del libro, l’anima dell’autore.

Ma per raggiungerla e porgerla al lettore bisogna passare per un lavoro ‘di fino’:

«Una musichetta sghemba, spiritata, tutta sua, calata nelle acque dello stile, dove la gioia delle sillabe balla il ballo più magico, più macabro, e sfuma in allegretto; e se il farnetico esonda in balbettio, in singhiozzo, anche quello avrà un suo ritmo, e leggerezza, e fluidità. Piccole cose, sì, piccole cose sono, e piccole rimangono, non facili da rendere, però». (Lost in translation, p.56)

Anche se alcuni commentatori affermano che Guerra è a tutti gli effetti un romanzo, noi sappiamo che non lo è. È una prima stesura, quante ne avrebbe fatte, in seguito, Céline? Sappiamo – è lui che ce lo dice – che per arrivare a un libro di 500 pagine ne

scriveva 80.000, fra stesure successive, dattiloscritti ricorretti, variazioni infinite… Chi lo conosce non si sbaglia. È solo l’inizio, il lavoro è tutto da fare. Lavoro che non verrà mai fatto; si riconosce tuttavia l’anima di Céline: Guerre è lui.

Il francese, al contrario di quanto alcuni pensano, è lingua totalmente altra dall’italiano. Fatica mi ha fatto notare come in francese i termini che attengono la vita militare sono molti di più: non ci sono corrispondenze in italiano. Io stessa mi sono meravigliata di un verbo che ho trovato in La légende du Roi René, una versione precedente e per molti aspetti diversa di La volonté du Roi Krogold , che descrive un’ azione per cui l’italiano ha bisogno di una frase. Si tratta di japper, che significa abbaiare con latrati acuti e chiari. Una frase al posto di una parola manda il ritmo a farsi benedire.

Cose delicatissime e importanti, quelle che Fatica con empatia e intelligenza chiama ‘piccole cose’.

Fatica non è caduto nella trappola: non ha preso Guerre come un romanzo, ma come un primo abbozzo, una specie di traccia, di elenco di fatti e situazioni da raccontare, un promemoria.

Come scrive il Céline giovane? Quello che ha pubblicato il Voyage – un trionfo – e vuol andare avanti.

«Dirò tutto un giorno, se vivrò abbastanza per raccontare tutto» (Voyage au bout de la nuit, p. 244), «Se ne sono andati tutti, lontano, lontanissimo per dimenticare, per rifarsi un’anima.[…]Potrei dire tutto il mio odio, lo so. Lo farò più avanti, se non tornano. Preferisco raccontar storie. Ne racconterò di tali che torneranno, apposta, per ammazzarmi, dai quattro angoli del mondo. Allora sarà finita e io sarò contento». (Mort à crédit, p. 512)

Il primo getto non è ‘trasposto’ ovviamente, non parliamo di style… per arrivarci, anche solo all’idea di style, ci vorranno anni, per lo meno Mort à crédit.

A suo tempo, anni fa, quando cominciavo a studiare Céline, ho pensato che per tradurlo bisognava diventare lui, che si esprime nella nostra lingua. Pensavo a un italiano démodé, perché Céline scrive tra gli anni ‘30 e i ‘60, e soprattutto perché quello di oggi non è italiano, pieno zeppo di parole ed espressioni anglosassoni (basta leggere i giornali).

Fatica non ha scritto in italiano démodé, ma per scrivere Guerra è diventato Céline, di questo sono certa. Ha realizzato il suo desiderio di ragazzo: «Volevo scrivere come lui. Ma non è vero, volevo assai di più: volevo essere lui». (Lost in translation, p.52)

Ho trovato molto strano (ma perché stupirsi?) che i commenti siano stati così evasivi, incentrati più sulla faccenda dei manoscritti che sul testo, sulla traduzione. Sì, quasi tutti parlano di ottimo lavoro, ma non spiegano perché, non entrano nel merito. Tranne Ernesto Ferrero, da traduttore di Céline qual è, e penso sì anche a Voyage, ma soprattutto a Casse-pipe, dove ha dovuto diventare un acrobata come quelli delle poesie di Fatica.

Questo mi propongo di fare. Entrare nel merito. No, niente testo a fronte. Alcune ‘piccole cose’.

Per esempio: molti di più in Londres ma anche in Guerre ci sono «Bien» e «Bon», a segnare una conclusione, un punto fermo. Non sono usuali in Céline, direi che nei romanzi non ci siano proprio mai. Ero curiosa di sapere cosa ne avrebbe fatto Fatica. Li ha tradotti con «Vabbé», come ha reso «Top» con «Evvai». È il polso della traduzione. Il battito del polso. Ecco che arieggia un tono ‘parlato’, ‘colloquiale’, quello che Céline dirà di voler raggiungere, negli Entretiens avec le Professeur Y di modo che il lettore abbia la sensazione che qualcuno gli parli dentro la testa, nell’intimità dei suoi nervi, nel suo sistema nervoso. Il famoso stile emotivo.

Confessa, Fatica, di aver avuto questa «sensazione esaltante, perturbante, quasi di dolore fisico» fin dalle prime letture di Céline. (Lost in translation, p.55).

Un commentatore, purtroppo non ricordo più dove né chi, l’avevo letto in internet e non sono stata capace di ritrovarlo, ha criticato i c’aveva, c’ha e simili nella traduzione, in quanto scorretti nella grammatica italiana. Evidentemente non ha visto, nell’originale, i t’as, t’es, ecc. Avrebbe dovuto chiedersi come avrebbe agito il traduttore. Non se l’è chiesto. Forse non ha letto l’originale? Ecco, così ha reagito: sgrammaticatura per sgrammaticatura: non è detto debbano essere negli stessi posti. Non credo di sbagliarmi.

Invece, non critico però mi dispiace, ad un certo punto (p.70) dell’originale troviamo «en allant d’une porte l’autre», che diventa in italiano (p.64) «mentre passava da un portone all’altro». Molto più tardi e addirittura in un titolo questa forma che elimina la seconda preposizione per accelerare il movimento, si ripresenterà: D’un château l’autre è frase cara a chi ama e studia Céline, è un ritrovarcisi, sentirsi a casa… Trovarla qui, in un brogliaccio, scritto al principio del suo lavoro di scrittore, mi ha fatto sussultare. Perché non osare «da un portone l’altro»? Credo che Fatica possa capirmi, qui sta tutto il mio disagio, la destabilizzazione, il sentimento che qualcosa manca…una specie di zoppía…, ma lo stesso gli chiedo scusa…

Piccole cose’ sono anche le frasi lunghissime, dalle quali l’autore sarebbe fuggito come dalla peste in seguito.

Per esempio – ma ce ne sono altre – a p.107 dell’originale (Fatica, p. 94) lì dove Ferdinand racconta l’ipocrisia del non parlare mai del suo orecchio, ma molto della ferita al braccio. Tutta la sequenza (Céline non divide mai i romanzi in capitoli) è incentrata sul pranzo a casa di Harnache, per festeggiare la medaglia al valore di Ferdinand, e culmina nella lite tra Angèle e Cascade, che ricorda proprio da vicino quelle fra Irène e Courtial in Mort à crédit. Ricordiamo tutti come anche Irène rivela che Courtial ha un altro nome, come del resto lei stessa, che in pratica la loro stessa esistenza è una frode. Anche Angèle fa analoga rivelazione sulla doppia vita e falsa identità di Cascade. Il meccanismo è il medesimo. Solo che qui non c’è come ci sarà lì l’amore della donna per il proprio uomo. Angèle odia (?) Cascade.

Anche sulla lunga frase di cui sopra Fatica non ha nessun imbarazzo, quasi l’avesse ritenuta a memoria e riscritta in italiano. Questa almeno è l’impressione che ha dato a me.

L’altra sequenza affascinante è la 5 (Guerre p. 117-129; Guerra p. 102-112) (Ma perché non c’è un indice delle sequenze? bisogna farselo da sé…)

Céline è uno specialista nel raccontare tragedie che funestano quanto sta accadendo, basti pensare alle disgrazie del piccolo Ferdinand, apprendista, in Mort à crédit: perde regolarmente il posto. Qui si tratta dell’arresto e della fucilazione di Cascade, ma sono preparati con straordinaria abilità: le vincite al gioco (lui che non vinceva mai), il rifiuto di Méconille di amputargli il piede (lui che non perdeva occasione per intervenire chirurgicamente), il buffo vano tentativo di suicidio, la lettura compulsiva (lui che non leggeva mai) e tutto questo contrappuntato da rumori, suoni, voci, come una campana a morto o una marcia funebre. È questo contrappunto che ho cercato -trovandolo – nella traduzione, accompagnato da luci, bui, penombre, ore che scorrono inesorabili…

Dubito che Céline l’abbia studiata: ha messo sulla carta ricordi, emozioni di suono e luce… Cosa ne avrebbe fatto in seguito? Certo che Guerre/Guerra è suggestivo.

Ricopio in ordine.

La nuit est venue, On a éteint le gaz.

E’ venuta le sera. Hanno spento le luci.

J’ai entendu les cloches de neuf heures et puis y a eu un coup de canon pas très loin et puis un autre, et puis plus rien. Sauf le train habituel des roulements de camions et puis la cavalerie ei le chuchotage énorme des pieds de biffins qui monte le long des murs quand un bataillon passe. Un sifflet à la gare.

Ho sentito le campane delle nove e poi c’è stata una cannonata non tanto lontana e poi un’altra, e poi più niente. A parte la solita processione dei camion in transito e poi la cavalleria e l’enorme scalpiccio dei piedi dei fantaccini che sale lungo i muri quando passa un battaglione. Un fischio alla stazione.

Le matin il y a eu une accalmie. Des échos d’éclatements, c’est tout.

Al mattino c’è stata bonaccia. Echi d’esplosioni, tutto qui.

= On va aller du côté de la campagne. […]

La paix quoi. Le canon de là on l’entendait presque plus. On s’est assis sur un remblai. On a regardé. Loin, loin c’était toujours du soleil et des arbres, ce serait le plein été bientôt. Mais les taches des nuages qui passaient restaient longtemps sur les champs de betteraves. Je le maintiens c’est joli. C’est fragiles les soleils du Nord.

= Andiamo verso la campagna. […]

Che pace. Da lì il cannone non si sentiva quasi più. Ci siamo seduti su un argine. Abbiamo guardato. Lontano, lontano c’erano sempre il sole e gli alberi, tra poco arrivava l’estate. Ma le chiazze delle nubi di passaggio rimanevano a lungo sui campi di barbabietole. Lo ribadisco è bello. E’ fragile il sole del Nord.

Je m’éloigne tranquillement, je suis dans mes pensées. J’entends derrière moi un grand pflouc! dans la flotte. Avant même de me retourner j’ai compris. Je me retourne. Là-bas à l’écluse le paquet qui s’éclaboussait c’était Cascade forcément. Y avait que nous sur le canal.

Io mi allontano tranquillamente, c’ho i miei pensieri. Sento dietro di me un grande pluf! nell’acqua. Prima ancora di girarmi ho capito, Mi giro. Laggiù alla chiusa il fagotto che sguazzava era Cascade, chi altro? C’eravamo solo noi sul canale.

Nota a margine, con affezione:

« […] questo riflesso plumbeo

d’inospite malinconia lacustre

d’isola asserragliata dalla terraferma

aspetta solo non senti? il pluf! Di un rospo.>>

(Ottavio Fatica, Le omissioni, p. 75)

reminiscenza mia, d’accordo, ma chi l’ha detto che bisogna sempre essere solo logici, scientifici, deduttivi??? Le omissioni è del 2009, quando Guerre era ancora sottratto al mondo dal signor Thibaudat, ma in mano al lettore c’è tutto contemporaneamente, e in lui rivive in un senza tempo né spazio…

A’ six heures le jour tombe.

Alle sei cala la sera.

On avait la nuit devant nous. Et une nuit qui s’annonçait bien épaisse et bien traître. La soupe d’abord comme d’habitude. Mais voilà Cascade qui voulait pas se coucher. Il allait des chiots à la fenêtre du couloir. L’Espinasse faisait son tour, au moment où la concierge baissait le gaz en vieulleuse elle est passée derrière lui sans avoir l’air de le voir et puis devant moi elle est restée plantée un moment.

= C’est bien vous, que j’ai dit. C’est bien vous?

Elle a pas répondu. Elle est demeurée là encore une minute peut-être et puis elle a comme glissé dans la pénombre.

Alors la nuit a vraiment commencé.

Avevamo la notte davanti a noi. E una notte che si annunciava molto fitta e molto traditora. Prima la minestra come al solito. Ma Cascade però non voleva andare a letto. Continuava a fare su e giù dal cesso alla finestra del corridoio. L’Espinasse faceva il suo giro, nel momento in cui la portiera abbassava le luci gli è passata dietro senza aver l’aria di vederlo e poi si è piazzata davanti a me per un po’.

= E’ lei, vero? ho detto. E’ lei, vero?

Non ha risposto. E’ rimasta lì forse un minuto e poi è come scivolata nella penombra.

Allora la notte è cominciata sul serio.

Il s’est assis sur le lit au lieu de se coucher Cascade. Il a commencé à lire […] Il s’éclairait avec une bougie. […] L’infirmière de nuit est venue lui souffler sur sa bougie. Il l’a rallumée. Il était bien onze heures déjà […]

Alors c’est vrai Cascade est allé aux chiots puisque c’était l’endroit où le papillon était allumé toute la nuit.

Il devait être une heure du matin.

Anziché coricarsi Cascade si è seduto sul letto. Ha cominciato a leggere […] Si faceva luce con una candela. […] L’infermiera di notte è venuta a soffiare sulla candela. Lui l’ha riaccesa. Erano già le undici passate. […]

Allora, è vero, Cascade è andato a sedersi al cesso perché era il posto dove il lume a gas era acceso tutta la notte.

Doveva essere l’una.

= Dis, Ferdinand, t’as rien encore à lire.

J’ai cherché dans la pièce des infirmières. Je savais où ils cachaient les bouquins, un carton à chapeau. C’était “Les Belles Images”. Y en avait des volumes entiers. Il a tout pris Cascade. Il s’est passionné c’est le cas de le dire.

= Ferme la porte, que j’ai fait, s’il vient quelqu’un …

Il a refermé la porte. Une heure et puis deux one encore passé.

«Di’ Ferdinand, non hai nient’altro da leggere».

Ho cercato nella stanza delle infermiere. Sapevo dove nascondevano i libri, una cappelliera. Era “Les Belles Images”. Ce n’erano interi volumi. Ha preso tutto Cascade. Si è appassionato è il caso di dirlo.

«Chiudi la porta,» ho fatto «metti che viene qualcuno…».

Ha chiuso la porta. E’ passata un’ora e poi altre due.

Enfin un tout petit jour s’est avancé au-dessus du toit d’en face… celui qu’avait plein de dentelles de zinc…

Et puis c’est une voix qu’a fait tout le monde sursauter, une voix bien douce pourtant, une drôle de voix pour un gendarme, presque une voix de femme, mais bien précise, qui savait ce qu’elle voulait […]

= Vous avez bien ici le soldat Gontran Cascade, du 392 régiment d’infanterie, n’est-ce-pas?

= Il est aux chiots a côté d’vous gendarme, qu’a répondu de tout son organe l’artilleur, l’autre a côté près de la porte.

La porte s’est ouverte.

Cascade est sorti. Tac, tac on a entendu les menottes.

Alla fine le primissime luci del giorno hanno fatto capolino dal tetto di fronte… quello pieno di merletti di zinco.

E poi una voce che ha fatto sussultare tutti, una voce peraltro pacata, una voce curiosa per un gendarme, quasi una voce da donna, però bella chiara, che sapeva quello che voleva […]

«Si trova qui vero il soldato Gontran Cascade, del 392° reggimento di fanteria?».

«È dentro il cesso affianco a lei gendarme» si è spolmonato a dire l’artigliere, l’altro accanto alla porta.

La porta si è aperta.

Cascade è uscito. Tac, tac abbiamo sentito le manette.

Io non so, e non posso saperlo se non chiedendoglielo, se Fatica si è sentito come me altrettanto vulnerabile, indifeso di fronte a questi contrappunti, né se la sequenza lo ha commosso come ha profondamente turbato me.

Anche a lui probabilmente la voce femminea del gendarme avrà ricordato quella delle ‘suorine’ che vanno a portar via i bambini dal Familistère di Courtial, nel sottofinale di Mort à crédit, gentili e perentorie, atroci.

E avrà fatto caso ai tre puntini. Céline, mentre scrive Guerre e Londres sta già lavorando a Mort à crédit.

Non li so i sentimenti che ha provato lavorando su Guerra, non penso sia uno freddo -mente lucida – professionista della traduzione come lo si è dell’idraulica, o almeno mi piace pensarlo altrimenti.

Se apro Guerra a caso non provo il solito disagio, o forse sì, non credo lo rileggerò mai più, e tornerò ancora su Guerre, sfasciatura della rilegatura permettendo. Sono sicura che Fatica è diventato Céline, per scrivere quasi assieme a lui.

Adesso lo aspetta Londres, che è un’altra musica. Sempre musica però.


Note

Guerra è edito da Adelphi, 2023

La citazione di Giorgio Caproni in esergo è tratta da “L’arte del tradurre”, reperibile sul sito nuoviargomenti.net, quella successiva da “Problemi di traduzione”, il Verri n.26. Gen-feb. 1968

Le poesie di Ottavio Fatica sono tratte dalle raccolte

Le omissioni, Einaudi, 2009

Vicino alla dimora del serpente, Einaudi, 2019

Il traditore” di Valerio Magrelli sta in Le cavie. Poesie 1980-2018, Einaudi, 2018

Lost in translation di Ottavio Fatica è edito da Adelphi, Microgrammi, 2023

Sempre Adelphi è Il dottor Semmelweiss, di L-F- Céline, 1975

La citazione da Mort à crédit porta l’impaginazione dell’edizione Gallimad, La Pléiade. Quella della traduzione di Caproni è Garzanti, 1992

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.