ESERCIZI DI LETTURA: Il canto del mondo e il pensiero della vita

In che senso si può parlare di una semantica della musica? Un confronto tra Susanne K. Langer e Arthur Schopenhauer.

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di Gustavo Micheletti

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Una delle domande più frequenti e spontanee che ci si può porre intorno alla musica è se essa esprima qualcosa, se sia espressione di pensieri e sentimenti e se possa essere paragonata sotto questo riguardo all’immagine poetica, alla raffigurazione pittorica o all’azione drammatica. Come ricorda Massimo Negrotti, “accanto a Chopin, che asseriva di non poter concepire una musica che non esprimesse nulla, c’è la nota posizione di Stravinsky, secondo la quale l’espressione non è mai stata una proprietà importante della musica; accanto alla posizione di Richard Strauss che si rifiutava di credere ad una musica astratta, c’è la tesi di Hanslick che sosteneva drasticamente come la musica non significhi altro che se stessa”.1

Negrotti ricorda anche come lo stesso Stravinskij paragonasse “la sensazione generata dalla musica” a “quella evocata dalla contemplazione del gioco incrociato delle forme architettoniche”, citando a sua volta Goethe, che definì l’architettura come “musica pietrificata”, ed evidenziando così implicitamente l’aspetto formale e strutturale di ogni composizione musicale come fondamento del suo valore estetico.2 Negrotti evidenzia poi la centralità della questione attraverso le parole di Aaron Copland, che la pone in questi termini: “se mi si chiede ‘c’è significato nella musica’? la mia risposta sarà . Se poi mi si chiede ‘puoi descrivere con quante parole vuoi di che significato si tratta?’, allora la mia risposta sarà no”.3

Se l’evocazione, implicita nelle parole di Copland, delle considerazioni di S. Agostino sul tempo potrebbe forse suggerire che la questione è tanto cruciale quanto irresolubile, le parole di Goethe sembrano invece sollecitare ulteriori chiarimenti e possibilità. In effetti, se la forma musicale può evocare, come ritengono Goethe e Stravinskij, una forma architettonica, perché non dovrebbe poterne evocare molte altre? Questa stessa possibilità non allude forse al fatto che la musica possa essere espressione di qualcosa, e cioè di molte altre strutture dotate di una forma, come ad esempio, non ultima, quella del pensiero? Che possa quindi, in questo senso, costituire un’espressione dinamica di qualcosa che accade nell’anima umana, magari per il semplice fatto di farlo accadere?

 

Se il linguaggio ha anche il compito d’istituire una comunicazione tra gli stati mentali degli esseri parlanti, un tale accordo dovrebbe innanzi tutto essere istituito tra ciascun essere umano e i suoi stati interiori: “tali stati, dunque, devono precedere, nel loro formarsi, la fase dell’emissione vera e propria del messaggio”.4 Ora, sebbene siano in molti a considerare il pensiero essenzialmente costituito da eventi linguistici, Negrotti pensa anche che esso non prescinda dalla formazione di “immagini mentali, spunti, intuizioni e sentimenti”,5 come attesta “la difficoltà che spesso l’uomo incontra nello ‘spiegare con parole’ alcuni stati particolarmente complessi”, difficoltà che a sua volta suggerisce “che la ‘materia’ mentale originale sia altra cosa da quella linguistica”.6

La controversia che ha coinvolto musicisti, filosofi, psicologi e musicologi circa il carattere ‘espressivo’ della musica, tanto da indurre i cognitivisti a ricercare una sorta di “semantica universale della musica”, conferma che il problema è ancora aperto, sebbene l’orientamento prevalente non sembri propenso a ipotizzare l’esistenza di una “semantica” della musica. Il problema della semanticità esiste del resto anche in altre arti. Enrico Fubini per esempio si chiede: “è forse più chiaro il significato dell’Infinito di Leopardi, che quello di un quartetto di Beethoven? L’abbondante bibliografia critica sia musicale che letteraria sta a testimoniare la difficoltà o ambiguità interpretativa per entrambe le arti”.7

Per Fubini “parlare di significato della musica è sempre equivoco, e non pochi di coloro che negano il potere semantico della musica, in realtà si riferiscono consciamente o inconsciamente al modello verbale. La Susanne Langer con molti altri, ha sostenuto giustamente che la musica non possiede un vocabolario; tuttavia anche i formalisti puri, non escluso il capostipite di essi, Hanslich, ammettono, forse un po’ a malincuore, che in un modo o nell’altro la musica trasmette pur un qualche messaggio, indeterminato, magari inesprimibile o intraducibile in parole; il discorso musicale se non ha un significato è pur significativo per noi che l’ascoltiamo”.8

Il punto, dunque, per Fubini è questo: “affermare che la musica non significa altro che se stessa e che la sua rilevanza estetica va cercata concretamente nelle sue strutture sonore non vuol ancora dire che non significa nulla, ma piuttosto che i suoi significati non sono verbalizzabili puntualmente; tuttavia, della musica si può parlare, come dimostrano i critici”.9

Parlare, certo, fino al punto che, come sostiene ancora Fubini, il parlare intorno alla musica, il teorizzarne l’estetica pare diventato una sua parte integrante: oggi, infatti, e “in misura ben maggiore che nel passato, i musicisti e gli artisti in generale sentano un impellente bisogno di giustificare sul piano critico, tecnico e spesso filosofico il loro operato, spiegando, illustrando, sviscerando le loro opere, svelando i più riposti segreti della loro bottega artigianale; ma a ben vedere questa produzione critica non si pone accanto alla loro produzione musicale, ma ne costituisce una parte integrante, sino al punto che pare legittimo chiedersi quale delle due venga prima e sia più rilevante”.10

Questo fenomeno avviene in misura massiccia almeno dai primi anni del Novecento, quando si assiste a un predominio delle teorie formaliste e le rispettive tecniche compositive diventano inscindibili dalla loro giustificazione teorica. Giovanni Piana, nel suo Filosofia della musica, ci ricorda per esempio che Stravinskij non è il solo a considerare l’espressione una proprietà immanente della musica: anche Schönberg sembra concordare con lui quando afferma che la musica consiste essenzialmente “nella relazione reciproca delle note: il musicista non essendo altro che una sorta di filosofo i cui pensieri hanno forma musicale”.11

La musica basta quindi davvero a se stessa? Non bisogna andare alla ricerca di uno scenario a qualche titolo “semantico” che sta al di sotto o al di sopra della superficie sonora? Piana pensa di no: “di fronte a uno sviluppo tematico, non bisogna chiedersi quale sia il pensiero che sta alla sua base e che esso porta all’espressione, dal momento che lo sviluppo tematico stesso è quel pensiero. Ciò che dal musicista è stato pensato sono proprio questi suoni, i suoi pensieri sono appunto pensieri musicali, cioè pensieri fatti di suoni”.12

Affermazioni come queste richiedono tuttavia secondo Piana qualche parola di commento: ad esempio “esse negano forse che sentimenti o pensieri possono in qualche modo essere fonte di ispirazione per il musicista?” o “che vi siano suggerimenti e suggestioni prima dell’opera e che in qualche modo sono connessi nella mente del compositore all’origine dell’opera”? In realtà, Stravinskij non intende negare “che il compositore si esprima nell’opera, quanto piuttosto affermare che questa circostanza è irrilevante rispetto alla realtà della composizione musicale dal momento che ‘una nuova composizione musicale è una nuova realtà’. L’accento deve dunque cadere sulla dimensione d’essere dell’opera, su questo suo tirarsi fuori dalla concatenazione dei vissuti nella quale essa è stata generata, potendo così pretendere di essere considerata nella sua pura oggettività”.13

Piana ritiene dunque che sullo sfondo del problema vi sia, da parte di Stravinskij come di molti altri, “una presa di posizione anti-psicologistica, che intende esaminare l’opera musicale nel suo essere più che nella sua origine e nella sua destinazione. Una presa di posizione che naturalmente non vale solo nella direzione della produzione, ma anche in quella dell’esecuzione, dell’ascolto e del discorso critico.

«Ciò che vorrebbero sapere – spiega ancora Stravinskij – è se le note ripetute dei clarinetti bassi alla fine del movimento della mia sinfonia in tre movimenti possono essere interpretate come una risata. Supponiamo che io concordi a intendere che sia una risata, che differenza fa per l’esecutore? Le note non vengono toccate, esse non sono simboli, ma segni».

Qui si concede addirittura che il compositore – continua Piana – abbia proprio voluto conseguire l’effetto espressivo e abbia voluto imitare una risata. Ma le note, i suoni scritti sul foglio di carta restano comunque esattamente quello che sono e il bravo clarinettista resta con il suo specifico problema esecutivo che è anzitutto un problema tecnico. Dovrebbe dunque pensare a una risata? Forse è meglio che non lo faccia”.14

Da questo tipo di considerazioni si evince che il simbolismo – almeno nel senso suggerito dalle considerazioni di Stravinskij – può essere tutt’al più una componente accessoria; ma non si ricava che la musica non possa avere una capacità evocativa, e pertanto anche simbolica. Questa dipende dal fatto che vi sono stati d’animo che scandiscono e modulano il tempo e che nel tempo si svolge ogni pensiero, che v’è cioè uno sfondo temporale comune a cui la musica può fare in qualche modo riferimento. Il movimento del pensiero è infatti sempre accompagnato da stati d’animo, da una scansione, da una punteggiatura che gli fornisce un ritmo, che gli fornisce delle accentuazioni e delle strutture implicitamente musicali. Il pensiero, sotto questo profilo, è musicale, perché è accompagnato da stati d’animo che si succedono e sviluppano gli uni dagli altri. In ogni movimento del pensiero ci sarebbe in questo senso un movimento musicale in grado di percepire e rilevare la risonanza profonda di pensieri passati, presenti o futuri, di stati d’animo che sono in grado di accompagnare e sviluppare pensieri potenziali, o ancor meglio di generarne la forma virtuale in qualche luogo della vita dello spirito.

Tra le tesi prese in esame da Piana nel suo saggio quella riconducibile a Susan Langer contiene forse una tesi simile a quella che abbiamo appena accennato. La tesi della Langer può essere considerata come “una elaborazione filosofica approfondita di premesse formalistiche. Soprattutto l’idea che il sentimento abbia una forma sembra fornire un chiarimento decisivo e indicare la strada giusta. In essa dovrebbe consistere la chiave per spiegare in che modo una pura oggettività governata da regole interne e che certamente non dice nulla sia tuttavia in grado di apparire ricca di significato e attrarre così il nostro ascolto. Nelle forme musicali si coglierebbero i nessi della vita interiore, il sentimento stesso nella sua fluente indeterminatezza. Ciò avverrebbe – secondo la Langer – «per via del fatto che le strutture sonore che noi chiamiamo musicali hanno una stretta somiglianza logica con le forme del sentimento umano». Così che la relazione con l’affettività s’impone non tanto come una pura possibilità a disposizione dell’espressione musicale, ma come una caratteristica essenziale della musica stessa”.15

Per la Langer la musica è senz’altro “«un corrispondente sonoro della vita emotiva». Sullo sfondo di affermazioni come queste vi è anzitutto – secondo Piana – un’impostazione semiologica del problema. Ben inteso, la musica non è un linguaggio, e ciò significa propriamente che il linguaggio verbale rappresenta essenzialmente un punto di confronto negativo, un riferimento che può essere interessante per stabilire un’opposizione. Tuttavia la musica è in ogni caso un sistema di segni, così che viene chiamata in causa la nozione generale di segno”.16

L’accezione con cui si può usare il concetto di segno in riferimento al pensiero della Langer suona tuttavia a un tempo generica e riduttiva, dato che sia rispetto all’arte in generale sia rispetto all’ambito musicale la filosofa americana fa riferimento piuttosto al concetto di simbolo, usando peraltro anche questo termine in un’accezione molto particolare. Per la Langer infatti “la musica è ‘forma significante’ e la sua significanza è quella di un simbolo, un oggetto sensibile altamente articolato, che in virtù della sua struttura dinamica può esprimere le forme dell’esperienza vitale che il linguaggio è particolarmente inadatto ad esprimere. Sentimento, vita, moto ed emozione costituiscono la sua portata”.17

La Langer tende a inquadrare la sua teoria musicale all’interno di una teoria dell’arte in generale, il cui concetto fondamentale sta per lei “nella forma articolata, ma non discorsiva, con una portata ma senza riferimenti convenzionali, e tale perciò da presentarsi non come simbolo nel senso ordinario, ma come ‘forma significante’. […] Le forme o sono vuote astrazioni o hanno un contenuto; e le forme artistiche ne hanno uno del tutto particolare, che è la loro portata. Esse sono forme logicamente espressive, o forme significanti. Sono simboli dell’articolarsi del sentimento, e manifestano gli schemi elusivi e tuttavia familiari del sentire. E come forme essenzialmente simboliche esse vivono in una dimensione diversa da quella degli oggetti fisici in quanto tali. Appartengono alla stessa categoria del linguaggio, per quanto la loro forma logica sia diversa, e alla stessa categoria del mito e del sogno, per quanto diversa sia la oro funzione”.18

Nello scenario di queste premesse, il riferimento alla psicologia della Gestalt risulta abbastanza esplicito: “una forma articolata – scrive – deve essere tuttavia chiaramente data ed intesa prima di poter esprimere la sua portata, specialmente quando non vi sia alcun riferimento convenzionale per cui le sia assegnata una portata come significato scevro da equivocità; ma la congruenza fra la forma simbolica e la forma d’una qualche esperienza vitale deve essere direttamente percepita in forza della sola Gestalt. Di qui l’enorme importanza del fatto di astrarre la forma, eliminando ogni elemento secondario che possa oscurarne la logica, e soprattutto spogliandola di tutti i significati consueti in modo che possa aprirsi a significati nuovi”.19

Da un lato, dunque, la teoria musicale della Langer è di tipo formalista, e pare richiamarsi a quella classica di Hanslick, d’altro lato però fa esplicito riferimento a un significato della musica, a una sua semantica, ma in un senso originale e non incompatibile con il suo formalismo. Gli elementi costituenti della musica non sono infatti per lei “i suoni di una determinata altezza, durata e intensità, né gli accordi e le battute; sono, come tutti gli elementi artistici, qualcosa di virtuale, creato soltanto per la percezione. Giustamente Eduard Hanslick li definì ‘tönend bewegte Formen’ ‘forme risonanti in movimento’. Questo movimento è l’essenza della musica: un movimento di forme, non visibili, offerte all’udito invece che alla vista.”.20

A questo punto, però, il problema cruciale che ci siamo posti può essere riproposto nei termini seguenti: vi può essere una sorta d’isomorfismo fra pensieri e stati d’animo da un lato, o se si preferisce pensieri accompagnati o scanditi da stati d’animo, e le forme in movimento di cui parla la Langer, ovvero quelle strutture sonore in grado di evocare un corrispondente movimento di pensieri, emozioni e stati d’animo in generale?21

Secondo Piana, se così fosse dovremmo ammettere non solo “la possibilità di distinguere tra ciò che opera la simbolizzazione e ciò che viene simbolizzato, ma che gli elementi in questione possano scambiarsi questa funzione. E ciò sarebbe nel nostro caso privo di senso: abbiamo bisogno di dire che le strutture sonore simbolizzano sentimenti, fissando questa relazione nella sua asimmetria: appare allora chiaro che non vi è alcun passaggio conseguente tra il fatto che due strutture siano isomorfe e l’interpretazione che fa dell’una – e proprio di questa – il simbolizzante dell’altra. In tutta evidenza si ripresenta, con la distinzione fra simbolizzante e simbolizzato intesa in questo modo, il problema del rapporto rappresentativo che si era cercato di scongiurare con il tema della corrispondenza”.22

Piana ha ragione, ma in realtà, anche nel suo ragionamento, è la categoria del simbolo usata impropriamente rispetto all’uso che ne fa la Langer a immettere in un circolo vizioso. Non si tratta infatti di una questione di simbolizzazione nel senso logico-discorsivo del termine: il fatto che esista un isomorfismo può consentire di parlare di una sorta di reciproca evocazione o di reciproca allusione, o di corrispondenza intrinseca laddove un piano, quello per esempio del movimento di pensieri e stati d’animo, può evocare un andamento musicale, o viceversa. Questa circostanza non significa però che un piano simbolizzi l’altro, a meno che non si intenda il termine “simbolo”, e con il verbo relativo, semplicemente ciò che è in grado di evocare o suggerire, di far nascere una forma evocandone o simulandone un’altra, creando cioè una forma sonora simile a qualcosa che si svolge sul fondo dell’anima, o che potrebbe comunque sorgervi durante la sua composizione od esecuzione.

In ogni caso, è certamente poco verosimile che si possa arrivare ad una sorta di corrispondenza tra due ordini o forme paragonabile a quella che caratterizza secondo Louis T. Hielmslev il rapporto semiologico tra “forma del contenuto” e “forma dell’espressione”.23 In maniera metaforica o allegorica, quanto si svolge su uno dei due piani in questione potrebbe invece alludere in maniera verosimile a quanto avviene nell’altro, svilupparne la sostanza sonora, riproducendo tra due ordini apparentemente eterogenei una sorta di dialogo e di reciproca evocazione simile a quello che avviene su un terreno più omogeneo e diacronico all’interno di una sonata per strumento solista e orchestra, dove la voce dello strumento sembra ripartire ogni volta dal punto in cui l’orchestra l’ha lasciato, e viceversa, in un fitto dialogo di rimandi e di richiami che sembra fondere due discorsi in uno.

Lo sfondo, il piano semantico, non sarebbe in questo senso simbolizzato; i suoi elementi non sarebbero simbolizzati cioè uno ad uno, fotografati insieme alle loro relazioni, ma la forma complessiva del discorso musicale avrebbe la capacità di evocare quella del pensiero in senso lato, ovvero in senso cartesiano. Per Cartesio l’Io è infatti una cosa pensante, ovvero “una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente”:24 da questa definizione si può dedurre che, in quanto è per essenza cosa pensante l’Io (o la mente) non può mai cessare di pensare, perché le proprietà essenziali non sono mai separate dal loro soggetto.25 Ma se pensare è anche volere, immaginare e sentire, e se il pensiero è un continuum, se è essenzialmente nel tempo, allora non è inverosimile che si sviluppi con una scansione implicitamente musicale. Non a caso nell’Opera questa struttura del pensiero è stata evidenziata e i recitativi costituiscono un esempio di come si possa cogliere e accentuare questa vocazione musicale del pensiero umano in generale, anche nelle sue manifestazioni più quotidiane e colloquiali.

Ora, si è visto che la tesi avanzata dalla Langer intenderebbe valorizzare ciò che definisce forma del sentimento: proprio tale forma avrebbe infatti un sostanziale isomorfismo con quella musicale. Secondo Piana, tuttavia, il ragionamento della Langer può essere sottoposto a critica proprio in relazione alle perplessità sollevate da tale nozione di forma del sentimento: “non già – scrive – che si possa negare che anche nell’ambito della vita affettiva ci siano delle forme, quindi delle relazioni e dei nessi strutturali – al contrario, si tratta di un’idea della massima importanza sotto più riguardi, che rimanda a un’articolazione dell’esperienza affettiva, e quindi anche a una sua possibile dominabilità conoscitiva. Come abbiamo rammentato in precedenza, questo motivo non è affatto estraneo alla posizione delle Langer: si può notare tuttavia che l’idea di una forma del sentimento si riduce anzitutto a quella di un mero andamento che può certamente essere comune, ad esempio, alla gioia come al dolore: la gioia può infatti crescere a poco a poco, e poi svilupparsi tumultuosamente fino a un punto culminante per andare poi via via decrescendo sino a estinguersi. Ma così anche il dolore, con una dinamica e un movimento che può essere molto simile. E non vale forse anche per l’ira o la disperazione o altri tipi di sentimenti? Dove si trova il tipo di sentimento il cui movimento non può essere descritto proprio in questo modo?”.26

Abbiamo dunque buone ragioni, secondo Piana, per parlare di un impoverimento proprio nella direzione di una perdita di articolazione delle differenze tra diversi stati d’animo. Le forme del sentimento cui la Langer fa riferimento rischiano cioè “di diventare tanto prive di differenze interne da convertirsi infine nel più indifferenziato e oscuro dei sentimenti, della cui esistenza non possiamo nemmeno essere sicuri, tanto che potremmo sospettare che sia un’invenzione dei filosofi”,27 o di quel sentimento della vita di cui infine ci parla la Langer. Tutta la musica avrebbe il sentimento della vita il suo unico senso simbolico: “questa è la conclusione a cui si perviene coerentemente ed essa non è certo in grado di suscitare i nostri entusiasmi”.28

Le riserve di Piana sono probabilmente riconducibili a domande come le seguenti: cos’è questo sentimento della vita di cui la musica dovrebbe costituire un’espressione simbolica? E più in generale: di cosa dovrebbe essere simbolo la musica? Come può la Langer attribuirle una propria simbolicità intrinseca?

Secondo Lucia Demartis, che asseconda in questo una tesi di Morpurgo Tagliabue, la Langer trae da Cassirer, dal quale fu molto influenzata, “il concetto dell’attitudine umana come disposizione simbolizzante, intendendo ‘simbolo’ in senso estesissimo, equivalente a astrazione (‘ogni mezzo attraverso cui siamo resi capaci di fare un’astrazione’)”.29 In effetti, ciò che Cassirer chiama simbolo non è solo uno strumento fondamentale del pensiero, ma anche un medium che permette di accomunare diverse forme spirituali in un’unica forma logica. Le forme simboliche proprie dell’arte, della scienza o della religione sono per lui forme culturali diverse che però sono in relazione tra loro e in condizione di comunicare proprio in quanto si tratta comunque di forme simboliche.

Sulla scia di Cassirer la Langer giunge poi alla conclusione che la conoscenza procede anche per relazioni logiche di tipo gestaltico. Mondo sensibile e mondo intellegibile, intuizioni e concetti, risultano così legati dal medium di gestalt che sono in grado di rendere le prime non cieche e i secondi non vuoti. Per questo, accanto al simbolismo logico-discorsivo ve n’è secondo la Langer uno di tipo intuitivo, che definisce presentazionale. Questo si basa su gestalt percettive che sono presenti e attive sia nell’ambito della percezione sia nell’ambito dei sentimenti, per esempio in quelli che la musica è in grado di suscitare, permettendole così di farsi, in questo senso presentazionale, manifestazione simbolica del flusso di sentimenti che accompagna la vita e il pensiero.

Ma oltre all’influenza di Cassirer, nell’opera della Langer è decisamente rilevante anche quella di Whitehead, secondo cui “«la mente umana opera sul piano simbolico quando alcuni componenti della sua esperienza suscitano consapevolezza, credenze, emozioni e abitudini, in rapporto ad altre componenti della sua esperienza. Il primo insieme di componenti è costituito dai ‘simboli’, mentre l’altro concerne il ‘significato’ dei simboli»”.30 Anche in questo caso, è evidente però che si parla di simbolizzazione solo in senso lato, intendendo con tale termine un piano espressivo in grado di evocarne un altro, costituito da stati d’animo e da emozioni.

Come osserva ancora la Demartis, “la musica offre per Langer un caso particolarmente evidente di «simbolo inconsumato (unconsummed)»: oggettivazione di una significanza che trascende quella dei significati e non è riducibile alla loro somma. Nel simbolo presentazionale «l’articolazione è la sua vita, l’asserzione, l’espressività lo è, non l’espressione. La vera funzione del significato, che richiede contenuti permanenti non è adempiuta, dato che mai si compie esplicitamente L’ASSEGNAZIONE ad ogni forma di uno piuttosto che un altro possibile significato». Ma come può un simbolo privo di significato fisso, un simbolo ‘unconsummed’, contenente in sé una molteplicità di significati, essere compreso? L’artista – dice la Langer – coglie la forma del sentire e la obbiettiva in qualcosa di percepibile, senza che ciò implichi che a una determinata forma artistica corrisponda un preciso significato: il simbolo artistico è ‘inconsumato’ e proprio perciò capace di sempre nuove significanze. L’opera presenta delle forme significanti, pur non rinviando a una oggettività in sé. Se ci si affida «solamente all’opera, non si ha più l’impressione di trovarsi di fronte ad un simbolo ma ad un oggetto dotato di particolare valore emotivo»; allora l’opera si dà come vivente ed è grazie alla percezione di questo senso di vita che una forma viene colta come bella. L’opera d’arte è dunque dotata di una propria vita”.31

Nell’opera della Langer sono però cruciali anche i riferimenti al pensiero di di Bergson e di William James: proprio sviluppando la nozione di tempo vissuto introdotta da Bergson, la Langer “distingue tra il divenire reale della coscienza e la concettualizzazione del tempo ‘oggettivo’ della scienza, cui sfuggono «le caratteristiche apparenze di transizione» peculiari dell’esperienza della temporalità. Diversamente da Bergson, secondo cui la filosofia deve cercare di afferrare intuitivamente l’interiore senso della durata, Langer ritiene che la conoscenza intuitiva sia perfettamente razionale, poiché trova espressione in simboli. In realtà più che a Bergson, esplicitamente citato, Langer si riferisce a William James, che a proposito del sentimento di durata scrive: «c’è un certo sentimento emozionale (emotional feeling) che accompagna gli intervalli di tempo, così come è ben noto in musica»”.32

Ma se la capacità della musica di esprimere quanto avviene su un altro piano è legata alla sua capacità di cogliere delle forme del sentimento – come la Langer ritiene – allora, se si può in questo senso lato parlare di una sua simbolicità, che la accomuna anche ad altre arti, si può dire che, pur non avendo un significato in senso stretto, essa è costituita tuttavia da espressioni simboliche, nonostante non rimandino a qualcosa di altro da sé, né siano legate a un significato per convenzione. Esse sono infatti in grado – osserva la Demartis – “di articolare una forma”.33

Anche alla luce di queste considerazioni, non si può non riconoscere nell’impostazione teorica della Langer anche l’influenza più o meno diretta, oltre che di Bergson, anche di Schopenhauer.34 Quando la Langer evidenzia come la musica sia capace di rendere “udibile il tempo, e sensibili la sua forza e continuità”, di “offrire all’udito una parvenza di movimento” in cui non è difficile riconoscere lo scorrere della vita stessa, non si può non riconoscere questa doppia influenza e, dietro il filosofo francese, quello tedesco. “Effettivamente durante l’esecuzione di un brano musicale – scrive la Demartis – non vediamo alcuna realtà in movimento, ma cogliamo una durata, immagine «di quel che si potrebbe dire tempo ‘vissuto’ o ‘esperito’: il procedere della vita che noi sentiamo quando l’aspettazione diventa una ‘ora’ e l’‘ora’ si muta in fatto inalterabile. Questo procedere è misurabile solo in funzione di sensibilità, tensioni ed emozioni; e non ha soltanto una diversa misura, ma una struttura completamente diversa da quella del tempo pratico o scientifico». La musica riesce a rappresentare questo tempo vitale, esperito nel suo darsi come durata e reso percepibile all’udito”.35

La musica ha dunque a che fare con qualcosa che viene prima di qualsiasi senso, qualcosa che prima della nostra interpretazione di un moto dell’anima come gioia e come dolore è espressione della stessa volontà di vivere, ne costituisce una manifestazione diretta, intuitiva e priva di mediazioni, ed è forse proprio a questo elemento che fa riferimento anche la Langer.36 La volontà di vivere, il desiderio e l’inquietudine che sempre accompagnano la vita scorrono per entrambi dentro la musica, per entrambi sussiste una sorta d’isomorfismo e di parallelismo tra il movimento della vita e del pensiero e quello della musica.

Il fatto che Schopenhauer tenda a considerare la felicità come una trasfigurazione del dolore, può forse permettere di comprendere meglio perché la musica si protende oltre il pensiero, è indipendente dal mondo esterno ed è una copia diretta della volontà di vivere: “la musica è infatti, della volontà un’oggettivazione, una copia, tanto immediata quanto lo stesso mondo, quanto le stesse idee, il cui fenomeno multiplo costituisce il mondo degli oggetti individuali. La musica non è dunque, come le altre arti, una riproduzione delle idee, ma è una riproduzione della volontà stessa, una sua oggettivazione al pari delle idee. Perciò il suo effetto è più potente, più penetrante di quello delle altre arti: queste ci parlano dell’ombra, quella dell’essenza. Siccome peraltro la volontà, che si oggettiva nelle idee, è una e identica con quella che si rivela nella musica (la differenza tra i due casi essendo soltanto di forma), segue che fra la musica e le idee, i fenomeni multipli e imperfetti delle quali costituiscono il mondo visibile, debba necessariamente sussistere, se non una somiglianza diretta, certo un parallelismo e un’analogia”.37

Come spiega sempre Giovanni Piana in un altro suo saggio sulla metafisica della musica in Schopenhauer, per il filosofo tedesco “la melodia ci racconta la storia più segreta della volontà, «dipinge ogni impulso, ogni slancio, ogni movimento della volontà, tutto ciò che la ragione abbraccia sotto il vasto e negativo concetto di sentimento e che essa non riesce a riassumere nelle sue astrazioni». In questo modo il motivo del rapporto tra musica e sentimento, così importante nell’ambito della cultura romantica, riemerge in Schopenhauer secondo inclinazioni direttamente suggerite dalla sua impostazione filosofica generale”.38

La musica nella sua totalità è per Schopenhauer “la melodia di cui il mondo è il testo”;39 e “la melodia con un testo è un canto”. Si tratta di affermazioni che secondo Piana potrebbero essere parafrasate così: “la musica nella sua totalità è il mondo che canta. La musica è il canto del mondo. L’essenza della melodia consiste nella sempre nuova separazione conciliazione tra il suo elemento ritmico e quello armonico». Per comprendere agevolmente il senso di questa frase converrà parlare, con terminologia nostra, di fasi di tensione e distensione armonica fasi di tensione e distensione ritmica”.40

Tra melodia e desiderio vi è infatti secondo Schopenhauer un legame interno: “della melodia dobbiamo essere sempre in grado di ritrovare la struttura del desiderio. Questa si dispiega in due fasi fondamentali: la tensione del desiderio inappagato e la distensione dell’appagamento.41

Attraverso queste due fasi fondamentali la musica ci ridesta al principio metafisico della volontà, all’incessante trasfigurazione del dolore in gioia; dalla volontà non scaturisce infatti solo il dolore, ma attraverso il dolore anche la gioia. Secondo Piana ciò che colpisce “è soprattutto il fatto che alla volontà si attribuisca la gioia, e che alla gioia della volontà venga connesso il piacere che ci procura la musica. Questo piacere non deriva per nulla dal fatto che essa eleverebbe il nostro spirito facendoci sognare «mondi diversi e migliori dal nostro»; la musica ci tiene presso il mondo. Come abbiamo detto prima: essa è il suo canto. Nel suo movimento questo canto che sgorga dalla volontà ammalia la volontà stessa, che da esso viene lusingata in quanto rappresenta la promessa permanente dell’appagamento. La gioia che la musica produce in noi deriva da questa immagine continuamente riproposta realizzarsi nel vedere che la musica, la quale solleva spesso così in alto il nostro spirito da farci credere che essa parli di mondi diversi e migliori del nostro, non faccia altro di fatto, secondo la presente metafisica, se non lusingare la volontà di vivere, in quanto ne rappresenta l’essenza, ne illustra e le illustra il futuro successo e, alla fine, ne esprime l’appagamento e la soddisfazione.

La gioia che ci viene comunicata attraverso la musica è in realtà una particella della gioia della volontà stessa, nella quale si agitano i drammi infiniti delle esistenze singole, drammi che di continuo vengono trascesi in un gesto di affermazione perennemente rinnovato. Si tratta dunque della gioia ambivalente della vita stessa che continuamente si ricrea e può farlo soltanto attraverso il dolore, la distruzione, la morte. In essa vi sono le lusinghe dell’appagamento, ma sono proprio queste lusinghe che ci mantengono invischiati nel desiderio. La musica ci invita a cantare, insieme ad essa, il canto del mondo. La gioia che essa genera non è dunque soltanto un risultato della finzione artistica, ma deriva dal fatto che attraverso la musica ci sentiamo partecipi della vita cosmica”.42

Se la volontà di vivere produce dolore, essa produce anche la gioia, e la musica è espressione di entrambi questi stati d’animo, e non solo, in tempi diversi, nei diversi movimenti, lenti o veloci, di un concerto o di una sinfonia, ma anche contemporaneamente, nell’esecuzione o nell’ascolto dello stesso brano musicale, dello stesso tema, perché essi sono entrambi espressioni della stessa sostanza, dello stesso desiderio contrastato di vivere. Ecco perché l’influenza della musica è più potente e penetrante di quella delle altre arti: il compositore ci svela l’intima essenza del mondo perché non esprime mai il fenomeno, ma l’essenza intima del pensiero in quanto esso riesce ad essere, attraverso la musica, direttamente meditatio vitae, e può esserlo in quanto tra la musica e il pensiero esiste un parallelismo, un’analogia profonda.

In quanto meditatio vitae, la musica può costituire un’espressione, nello stesso tempo, di stati d’animo diversi, tanto che dal suo punto di vista la gioia, l’afflizione e tutte le altre emozioni possono risultare delle mere astrazioni, perché sono innanzi tutto conseguenze e modulazioni della volontà di vivere, sue dirette manifestazioni ed espressioni. Per questo possono risultare indistinguibili quando si ascolta un brano musicale: tanto la gioia quanto il dolore costituiscono la colonna sonora emotiva della vita senza soluzione di continuità.43

Già Platone sosteneva che la melodia imitasse i moti dell’anima.44 Ogni moto dell’animo, prima di essere identificato e riconosciuto in termini positivi o negativi come gioia o come dolore è comunque un’espressione musicale di vita, ha un suo ritmo o un suo slancio, un suo andamento, ha una sua struttura intrinsecamente musicale,45 e non è affatto un caso che proprio quando ascoltiamo della musica sia spesso impossibile distinguere se il tipo di commozione che è in grado di provocare sia più prossimo a uno stato d’animo malinconico o gioioso: ciò dipende dalla prossimità tra diverse accentuazioni o sfumature di uno stesso sentire che prende le mosse da uno stesso sfondo di dolore, quello stesso dolore che anche secondo Leopardi costituisce l’unico elemento non “arcano” dell’esistenza umana.46 Per questo tali stati d’animo contigui non sono facilmente differenziabili, risultando spesso non catalogabili in uno dei due sensi.

Da un lato, come evidenzia Filippo Bergonzoni, la musica è per Schopenhauer un’espressione diretta della volontà, e per questo si trova sullo stesso piano delle idee; dall’altro, attraverso le sue melodie, essa esprime il desiderio dell’uomo, “il suo inarrestabile movimento di tensione e distensione”.47 Per Schopenhauer infatti “è naturale all’uomo concepire desideri, soddisfarli, vagheggiarne di nuovi, e così di seguito all’infinito; anzi, l’uomo non è contento e felice che in quanto il passaggio dal desiderio all’appagamento, e da questo al nuovo desiderio, si effettui con la più grande rapidità possibile; perché il ritardo nella soddisfazione produce sofferenza, e la mancanza di desiderio è fonte di sterile rimpianto, di languor, di noia. Ebbene: altrettanto si dica della melodia, che va errando su mille strade e si allontana incessantemente dal tono fondamentale; né procede soltanto per intervalli armonici, come la terza e la dominante, ma fa salti di ogni grado, e sale alla settima dissonante o agl’intervalli aumentari, terminando sempre con un ritorno al tono fondamentale. In tutti questi suoi slanci, la melodia esprime le forme diverse del desiderio umano e, con il suo ritorno finale ad un suono armonico, o meglio ancora al tono fondamentale, ne simboleggia la soddisfazione”.48

Alla luce di queste considerazioni di Schopenhauer, si comprende bene come il desiderio umano, così come ogni pensiero e ogni vissuto, abbia sue dinamiche e scansioni, una sua punteggiatura, un ritmo e una cadenza propri, e che da questi non possa prescindere, tanto da far sospettare che il joyciano stream of consciousness sia solo un’espediente letterario e in fin dei conti una mera astrazione. Il simbolismo in questo senso è davvero solo una componente accessoria: ciò che la musica evoca non è il simbolo, ma al massimo la riproduzione o simulazione dello stato d’animo dinamico che accompagna il pensiero. Ciò che la musica sembra riprodurre in quanto struttura formale e dinamica che si svolge, articola e sviluppa nel tempo, ciò di cui è imitazione, o simulazione, o che è comunque in grado di evocare, è un vissuto altrettanto dinamico, uno stato d’animo in movimento, sia che questo sia uno stato d’animo di gioia o di tristezza, di disperazione, di rabbia o di entusiasmo: qualsiasi stato d’animo ha in questo senso una struttura e un andamento musicali, e ciò perché la musica coglie l’andamento della tonalità emotiva che accompagna sempre il pensiero in senso lato, e quindi il pensiero in quanto fatto di immagini e di stati d’animo, fatto di pensieri e ragionamenti che si succedono gli uni facendo leva sugli altri e ciascuno evocandone altri, come altrettante frasi musicali o come altrettanti “giochi linguistici”.49

Questo è il senso in cui si può parlare di espressione in musica. Non si tratta di farsi simbolo di qualche cosa di extramusicale: è chiaro che il piano espressivo della musica è assolutamente autonomo. Si tratta invece di configurare una struttura dinamica capace di evocare altre gestalt, altre forme che su un altro piano possono risultare riconoscibili tanto dal compositore quanto dall’ascoltatore perché possono essere vissute parallelamente da entrambi e riportate alla luce o create proprio in virtù di una sorta di movimento inerziale,o più precisamente di evocazioni e trasfigurazioni analogiche di forme in movimento.

Queste sono rese possibili dal fatto che quando si compone o si ascolta della musica è come se si procedesse all’espressione della colonna sonora degli stati d’animo che accompagnano una serie di pensieri, includendo tra questi tutti le tipologie che previste da Descartes. Non esiste pensiero, non esiste frase, non esiste singolo accento o singola espressione che non abbia in sé una struttura musicale e ogni enfasi, ogni accentuazione, ogni drammatizzazione rivela la musica che è sottesa al pensiero. Del resto, come si è accennato, è quanto accade con la recitazione, e soprattutto è quanto accade nel teatro musicale: la parola fa leva in modo esplicito sulla sua risonanza musicale, evidenzia quella che è la sua vocazione musicale, la sua intrinseca musicalità e lo fa in modo esplicito, in modo dichiarato. Non è un caso che i recitativi in qualche modo riescano a cogliere la musicalità latente che è sottesa ad ogni discorso.

Nelle arie, e più in generale nelle melodie, questo contenuto, questo riferimento musicale diventa più esplicito e si comprende bene come il pensiero possa essere accompagnato da successioni di forme musicali, ovvero da strutture di note e di accordi in sequenza. Possono così nascere melodie risonanti e significative, capaci di evocare stati d’animo che scorrono in profondità anche trascendendo completamente il significato delle parole che accompagnano la musica. Ecco che allora la musica rivela direttamente la volontà di vivere, l’assoluto che si trova all’interno del pensiero e, ancor prima della vita, il desiderio contrastato che sempre l’accompagna in quanto essenzialmente nel tempo, in quanto vissuto articolato nel tempo: la musica rivela cioè l’assoluto che sta prima anche dei giudizi che noi possiamo fornire sul nostro vissuto, prima di qualsiasi sua classificazione come gioia o dolore.

Prima di essere riconosciute e classificate come tali la gioia e il dolore sanno infatti già trasfigurarsi a vicenda perché sono parte di un flusso di pensieri e stati d’animo senza soluzione di continuità, e sanno farlo in molti modi e forme diverse: lo attesta ciò che si definisce comunemente bellezza, lo stato d’animo indecidibile che si prova guardando, leggendo o ascoltando certe opere d’arte, il tipo peculiare di commozione, malinconica e gioiosa a un tempo, che accompagna la nostra percezione di ciò che ci pare bello o sublime.50 La catarsi aristotelica, l’esperienza autenticamente estetica grazie alla quale uno stato d’animo angosciato o doloroso può depurarsi in uno rasserenato, talora addirittura gioioso e comunque trasfigurato riflette quest’ambiguità essenziale dell’esperienza estetica.

La gioia e il dolore sono in questo senso lo stesso, perché sono due momenti di uno stesso sviluppo musicale: ciò che cambia è la nostra valutazione di certi stati d’animo, ma la gioia e il dolore, il loro moto, il loro slancio, così come l’entusiasmo, la contrizione o la melanconia che accompagnano sempre il pensare parlano un unico linguaggio, che è essenzialmente musicale. O se vogliamo, tutti questi stati d’animo hanno una colonna sonora musicale, in grado di trasfigurare incessantemente gli uni negli altri anche indipendentemente dalle cause o ragioni delle loro trasfigurazioni. C’è un movimento di fondo dell’anima che ha la medesima forma risonante e che soltanto differisce per sfumature, per tonalità, per accenti, per piccoli dettagli cruciali, come un accordo maggiore o minore, che fanno la differenza sul fondo dell’anima. Ma, appunto, si tratta di differenze che solo la musica è in grado di cogliere e generare insieme, portandole alla luce direttamente dal canto del mondo e dal pensiero della vita che più o meno consapevolmente o sordamente sempre ci accompagnano.


NOTE

1 M. Negrotti, L’osservazione musicale. L’artificiale fra soggetto e oggetto, Franco angeli editore, Milano, 1996, p. 23.

2 Ivi, p. 56.

3 Ivi, p. 24.

4 Ivi, p. 59.

5 Ibidem

6 Ibidem

7 E. Fubini, Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, Einaudi, Torino, 1973, p. 38.

8 Ivi, p. 65.

9 Ivi, p. 66.

10 Ivi, p. 117.

11 G. Piana, Filosofia della musica, Guerini e associati editore, 1991; ed. cit. 2013, p. 256.

12 Ivi, p. 257

13 Ibidem.

14 Ivi, p. 258.

15 Ivi, p. 265; S. K. Langer, Sentimento e forma, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1975, p. 43: “forme – continua la Langer – di sviluppo e decrescenza, di flusso e di accumulo, di conflitto e soluzione, di rapidità, arresto, somma eccitazione, calma, o attivazione sottile e cadute nella sfera del sogno; non gioia o dolore, forse, ma il mordente dell’una o dell’altro o di entrambi; la grandezza e brevità e l’eterno trascorrere di tutto ciò che è vitalmente sentito” (ibidem).

16 Ibidem.

17 S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., p. 48.

18 Ivi, p. 68.

19 Ivi, p. 76.

20 Ivi, p. 127: “Ma che cosa sono queste forme? Non sono oggetti del mondo reale, come le forme che vengono normalmente rivelate dalla luce, perché il suono, per quanto venga propagato nello spazio, e variamente assorbito o respinto, cioè riecheggiato dalle superfici che incontra, non è modificato da esse tanto da dare un’impressione della loro forma, come fa invece la luce. […] In tutti i movimenti progressivi che noi udiamo – movimento veloce o lento, arresto, attacco, melodia crescente, armonia che si amplia o restringe, affollarsi degli accordi e fluire delle figure – non c’è in realtà nulla che si muova. Giungerà a proposito qui una parola che chiarisca un errore diffuso, cioè la supposizione che il movimento musicale sia reale perché le corde o gli strumenti a fiato e l’aria ad essi circostante si muovono. Ma ciò che noi percepiamo non è questo movimento. La vibrazione è minima, velocissima; e se si arresta, il suono semplicemente scompare. Le variazioni di tonalità, viceversa, sono ampie e dirette verso un punto di relativo riposo, che è non meno udibile della progressione che conduce ad esso” (ivi, p. 128). Sebbene gli elementi della musica siano “forme di suono in movimento”; secondo la Langer “nel loro movimento nulla si muove. La sfera in cui le entità tonali si muovono è una sfera di pura durata. Come i suoi elementi, tuttavia, questa durata non è un fenomeno effettivo. Non è un periodo – dieci minuti o mezz’ora, una frazione d’una giornata – ma qualcosa di radicalmente diverso in cui si svolge la nostra vita comune e pratica” (ivi p. 129).

21 Cfr. G. Piana, Filosofia della musica, cit., p. 258.

22 Ivi, p. 267.

23 Louis Hielmslev, I fondamenti della teoria del linguaggio, trad. it. Einaudi, Torino, 1968, in particolare pp. 56-60.

24 R. Descartes, II meditazione, Oeuvres, ed.  Adam Tannery, Paris 1897-1913, vol. IX, pagg. 21-22.

25 A. Arnauld, in Descartes, Oeuvres, ed. cit., vol.  V, pag. 193: “Atqui necessaríum videtur ut mens semper actu cogitet: quia cogitatio constituit eius essentiam”.

26 G. Piana, Filosofia della musica, cit., p. 268.

27 Ibidem.

28 Ivi, p. 269.

29 L. Demartis, L’estetica simbolica di Susanne Katherina Langer, in Aesthetica Preprint; periodico del Centro internazionale Studi di Estetica, 70, Aprile 2004, p. 31.

30 Ivi, p. 16; cfr A. N. Whitehead, Simbolismo, trad. it. Cortina, Milano 1998, p. 8.

31 Ivi, pp. 30-31; cfr S. K. Langer, Sentimento e forma, Feltrinelli, Milano, 1974, p. 49. In Philosophy in a new key la Langer aveva definito la musica come simbolo ‘incompiuto’ (S. K. Langer, Philosophy in a new key, Harvard University Press, 1942, p. 240), e riprende la trattazione di questa definizione anche in Sentimento e forma, spiegando che “il significato, nel senso consueto che la semantica gli attribuisce, implica la condizione del riferimento convenzionale o il compimento della relazione simbolica. La musica ha una portata, e questa è la struttura della vita stessa, com’è sentita e direttamente conosciuta. Chiameremo dunque la significanza della musica la sua ‘portata vitale’ non come vago termine elogiativo ma come aggettivo qualificativo che limita l’ambito di ‘portata’ al dinamismo dell’esperienza soggettiva” (S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., p. 48). Come evidenzia anche Enrico Fubini “il simbolo musicale è stato felicemente definito dalla Langer come auto-presentazionale, o ancor meglio «simbolo non consumato». Il simbolo del linguaggio discorsivo si esaurisce, si consuma completamente nella trascendenza rispetto all’oggetto designato; il simbolo discorsivo è completamente trasparente: assolve alla sua funzione solo quando si risolve senza tracce nella sua totale trasparenza; il simbolo musicale è «iridescente». Il suo significato è implicito ma mai convenzionalmente fissato: il suo riferimento non è mai esplicito e predeterminato. Il simbolo musicale si autopresenta: lo godiamo per se stesso e non si esaurisce in un riferimento esterno a se stesso. «La sua vita è l’articolazione pur senza asserire nulla; la sua caratteristica è l’espressività ma non è l’espressione» (E. Fubini, Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, cit., p. 76. Per la Langer “ogni forma artistica simbolica s’intuisce: «non soltanto la forma, ma il significato formale, il valore, può essere colto solo intuitivamente»” (E. Fubini, Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, cit., p. 80. Questo “solo intuitivamente” costituisce secondo Fubini un limite della concezione della Langer: “il problema rimane aperto: non esiliare l’arte nell’irrazionale, nell’alogico, nell’intuitivo, nell’ineffabile, e nello stesso tempo darle una sua autonomia; fondare la comunicabilità dell’arte su basi intuitive significa evitare il problema, non risolverlo” (ivi, p. 83). Ma l’equiparazione da parte di Fubini dell’«intuitivo» alla sfera dell’«irrazionale» e dell’«alogico» è molto opinabile. Nella storia del pensiero occidentale (da Platone ad Aristotele, da Pascal a Spinoza e a Leibniz) la facoltà dell’intuizione è infatti riconducibile al Nous, così come quella della razionalità è riconducibile al Logos, e la prima dimensione si contrappone solo in parte alla seconda, dato che essenzialmente la integra e completa.

32 L. Demartis, L’estetica simbolica di Susanne Katherina Langer, cit., p. 26.

33 Ivi, p. 50.

34 La Langer menziona Schopenhauer in una sola occasione all’interno di Sentimento e forma, affermando che egli è il primo responsabile dell’idea di uno stato completamente disinteressato, di pura discriminazione sensibile, come atteggiamento proprio verso le opere d’arte”, ma precisando poi che “egli non fece di questa idea il punto di partenza, ma una conseguenza del suo sistema” (S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., p. 51). Nonostante questa occasionale apparizione all’interno della opera maggiore, le affinità tra la concezione che della musica hanno la Langer e Schopenhauer, fatte salve le pur notevoli differenze riconducibili ai diversi contesti filosofici da cui prendono le mosse e ai diversi apparati lessicali e concettuali che utilizzano, sono notevoli e forse non ancora del tutto chiarite ed evidenziate.

35 Ivi, pp. 26-27; S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., p. 129. La teoria musicale di Langer – scrive in nota la Demartis (ivi, p. 38) – è stata ripresa da molti autori, che l’hanno utilizzata per analizzare diversi testi musicali. Si vedano ad esempio: A. Cutler Silliman, Mozart’s Symphony in G Minor, K 550: an aesthetic analysis, in “Journal of Aesthetic Education”, 7, 1973, pp. 9-19; S. K. Saxena, Imaging Time in Music Langer’s View and Hindustani Rhythm, in “Journal of Indian Council of Philosophical Research”, 16, 3 maggio-agosto 1999, pp. 69-98; Id., Aesthetical Essays: Studies in Aesthetic theory, Hindustani music and Kathak Dance, Chanakya, Delhi 1981. Un’interessante applicazione al canto corale si trova in John Hoaglund, Music as expressive, in “British Journal of Aesthetics”, 1980, Fall, 20, pp. 340-48. Pur riconoscendo il debito della sua concezione della musica verso Bergson, la Langer osserva però “che mentre la ‘pura durata’ per Bergson deve essere intuita senza simboli, direttamente, escludendo quindi qualsiasi fattore simbolico. «il desiderio di escludere qualsiasi struttura spaziale lo condusse a negare alla sua ‘durata concreta’ una qualsiasi struttura… ma il tempo musicale ha forma e organizzazione, volume e parti distinte” (E. Fubini, Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, cit., p. 81; cfr., S. K. Langer, Sentimento e forma, p. 116 e 129).

36 Secondo Fubini, in questo modo “l’arte che era stata bandita dal regno della filosofia perché non rientrante per i positivisti nell’attività logico-linguistica dell’uomo, la ritroviamo di nuovo alla fine dello studio della Langer relegata in una sfera privata, incomunicabile, intuitiva; questa teoria ricade quindi inavvertitamente nelle posizioni neopositiviste” (E. Fubini, Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea, cit., p. 82). Anche qui, il fatto che l’arte sia ricondotta all’intuizione, come nella tradizione dell’idealismo tedesco, non comporta affatto che riveli una dimensione essenzialmente privata e incomunicabile, tant’è vero che proprio nell’epoca in cui l’arte era ritenuta caratterizzata dal medium dell’intuizione è riuscita a comunicare forse più che in ogni altra, e al più eterogeneo insieme di persone cui si fosse mai rivolta prima. In ogni caso, le ragioni della sua incapacità a comunicare sarebbero le stesse della filosofia, e pertanto egualmente infondate. Sia la filosofia sia la musica sono state infatti per secoli, con le loro rispettive modalità, eccellenti comunicatrici.

37 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. Mondadori, Milano, 1989, p. 373.

38 G. Piana, Teoria del sogno e dramma musicaleLa metafisica della musica di Schopenhauer, Guerini e associati editore 1997 (ed. digitale cit – 2005) p. 44; cfr, A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 376.

39 Ivi, p. 48: «Die Musik im Ganzen ist die Melodie zu der die Welt der Text ist». Questa frase compare in Nachlass, Ip. 485, oss. 698 (datata 1817) e anche nelle lezioni berlinesi, cfr. A. Schopenhauer, Metaphysik des Schönen, III, cit., 1985, p.222 e viene ripresa in PP, II, cap. XIX, p. 569 (dalla nota di G. Piana, Teoria del sogno e dramma musicaleLa metafisica della musica di Schopenhauer, cit., ibidem).

40 Ivi, p. 58.

41 Ivi, p. 54.

42 Ivi. p. 63.

43 Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., pp. 376-377.

44 Ivi, p. 376; cfr. Platone, Le leggi, libro VII, 812 c.

45 Come scrive Ludwig Wittgenstein, “«non vi è alcun paradigma al di fuori del tema. Eppure un paradigma al di fuori del tema c’è. È il ritmo del nostro linguaggio, del nostro modo di pensare e sentire» (L. Wittgenstein, Grammatica filosofica, trad. it. a cura di M. Trinchero, La nuova Italia, Firenze, 1990, p. 79; e Pensieri diversi, trad, it. a cura di G. H. von Wright, Adelphi, Milano, 1980, p. 99. La comprensione della musica non è un frammento separato dal resto della nostra vita. La musica è un mondo e costituisce “la manifestazione della vita e dell’umanità” (A. G. Gargani, Wittgenstein, musica, parola, gesto, Raffaello Cortina editore, Milano, 2008, p. 15; cfr. L. Wittgenstein, Pensieri diversi, cit, p. 130.

46 G. Leopardi, L’ultimo canto di Saffo, “Incaute voci / Spande il tuo labbro: i destinati eventi / Move arcano consiglio. Arcano è tutto, / Fuor che il nostro dolor”.

47 Cfr. F. Bergonzoni, La metafisica della musica in Shopenhauer, sta in: https://www.jstor.org/stable/45075042?seq=1#metadata_info_tab_contentsttps://www6.jstor.org/stable/45075042?seq=1#metadata_info_tab_contents; pp. 231-232.

48 A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit. p. 376.

49 La nozione di “gioco linguistico”, quale è reperibile nelle Ricerche filosofiche di Ludwig Wittgenstein, ci ricorda uno degli equivoci più diffusi circa le “unità di base” di una composizione musicale. Contrariamente alle apparenze, non è semplicemente una combinazione di note: essa è invece costituita di accordi e di frasi, di strutture elementari e meno elementari di pensiero musicale, cioè di pensiero, nel senso lato e cartesiano del termine, dato che ogni pensiero è anche musicale. In altre parole, così come il linguaggio umano non ha la struttura atomistica che Wittgenstein gli attribuiva nel Tractatus, ma è piuttosto paragonabile a un insieme di usi, o giochi, o frasi, analogamente ci pare che quello musicale abbia in accordi e in combinazioni di note e accordi le proprie unità sintagmatiche, e non tanto nelle singole note, dalla cui semplice combinazione o successione non è detto che esca alcuna musica. È tuttavia proprio nel Tractatus inizia a delinearsi quella futura concezione del linguaggio che designerà la fine di quella atomistica, e ciò avverrà proprio a partire da alcune considerazioni sulla musica. Per Wittgenstein infatti “«la notazione musicale non è simile alle note, come la notazione fonetica non è simile ai fonemi; e questo perché sia le note sia i fonemi, essendo suoni, non assomigliano a nulla. L’essenza della relazione raffigurativa tra i segni fonetici e i suoni risiede nell’esistenza di regole per derivare gli uni dagli altri»” (L. Wittgenstein, Tractatus logico-Philosophicus e quaderni 1914-1916, trad. it. a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino, 1964, proposizioni 4.014 e 4.0141). Si potrebbe tuttavia aggiungere che così come i fonemi non sono le unità sintagmatiche fondamentali, le note non sono le unità fondamentali del discorso musicale. Dodici note disposte in serie, equivalgono a tutti i fonemi di una lingua disposti in serie: non danno cioè origine ad alcun discorso. Ma se anche equiparassimo le note a dei monemi la situazione non sarebbe molto diversa. In entrambi i casi, ciò che risulta decisivo sono “le regole per derivare gli uni dagli altri”, non essendo sufficiente una loro combinatoria istituita in base a regole imposte arbitrariamente a generare senso, o musica.

50 La Langer ravvisa per esempio questa sorta di coincidentia oppositorum o questa loro interscambiabilità nella musica popolare: “i canti popolari e i motivi di inni sono esempi di questo tipo di musica vocale isolabile. L’aria in quei casi non è né triste né lieta, ma il modo in cui assumere questa specifica coloritura a seconda delle diverse parole su cui può essere cantata mostra quanto da vicino tristezza e felicità, esaltazione ed ira, soddisfazione e melanconia, possano in realtà somigliarsi nella loro essenza. Lo stesso motivo può essere un canto conviviale o un inno nazionale, una ballata o una canzonetta popolare. Ma anche dove possono essere liberamente variate, le parole vengono assimilate dal motivo come elementi che rendono la musica più leggera o più profonda, lanciata o trattenuta, addolcita, rallentata” (S. K. Langer, Sentimento e forma, cit., p. 178).

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Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.