Emilio Salgari. Intervista a Luciano Curreri

INTERVISTA A LUCIANO CURRERI (ULIEGE) promossa dalla rivista «ILCORSARONERO», a cura di ROBERTO FIORASO e MICHELE ZIVIANI, e pubblicata su «RETROGUARDIA 3.0» per festeggiare in anteprima il 160° anniversario della nascita di EMILIO SALGARI (1862/2022).

(Propositi raccolti tra la fine di luglio e l’inizio di agosto del 2021 dal giovane amico Michele Ziviani, che ringraziamo di cuore).

di Luciano Curreri e Michele Ziviani

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Lei è attualmente Professore Ordinario all’Université de Liège; ci può raccontare il percorso sia formativo, sia lavorativo, che l’ha portato in Belgio?

Diciamo che non c’è distinzione, per quanto mi riguarda, tra percorso formativo e percorso lavorativo, nel senso che ho sempre lavorato (e il lavoro forma!). Insomma, anche quando facevo (e seriamente affrontavo) la specializzazione e il dottorato, alternavo il percorso formativo degli studi con l’insegnamento in licei e università (ma pure con l’attività di scarica bancali – per dire – di libri in offerta nei primi grandi magazzini periferici: così facevo la spesa, la mattina presto, e finivo per comprare io stesso le ‘perle’ dei remainders che avevo appena scaricato col muletto e disposti per la vendita). Ecco, direi proprio che, dopo il Liceo, non ci sono stati momenti in cui ho solo pensato alla formazione. All’epoca si potevano già fare supplenze, con la sola maturità, via una classe di concorso cui iscriversi al Provveditorato, se ricordo bene. Attenzione: non sto dicendo che a 19 anni io fossi già così autonomo e intraprendente in assoluto. Dietro c’era mia madre, la cultura della mia famiglia, la fede, oserei dire, basata sul lavoro. Ma è anche vero che io, da solo, se non avessi avuto il problema del militare, avrei trovato lavoro subito dopo la maturità presso una bella Libreria del centro di Torino, la Zanaboni, che all’epoca frequentavo e cercava un ragazzo come me da formare! Ecco, queste plurali spinte formative sono state un bene! Lavorare e studiare è meglio che studiare e basta (come studiare e lavorare è meglio che lavorare e basta): diventi, in genere, meno snob, meno prezioso. Certo, può capitare un attimo di smarrimento, mentre scrivi una tesi di dottorato di più di 600 pagine in una lingua che non è la tua e dai in media, all’anno, 300 ore di lezione, e stai pure dietro a tout ce qui va avec… Ma ho avuto fortuna e alcuni amici, colleghi (da Guido Baldi, Dario Cecchetti e Pierpaolo Fornaro a Carlo Alberto Madrignani, a Vittorio Roda, da Anna Dolfi e Aurore Frasson-Marin a Jacques Dubois e ai Suoi diversi allievi, Jean-Pierre Bertrand in primis) che, senza ricoprire il ruolo del famoso (o famigerato) «maestro», mi hanno aiutato, accolto, sostenendomi in quella che è stata – penso ora di poterlo dire – una piccola ‘carriera’ all’americana in Europa, fra Torino, Chambéry, Grenoble, Vercelli, Firenze e Liège: sei città e tre stati dell’UE, una comunità che dovrebbe essere più concreta, a portata del cittadino, a misura di donna e d’uomo, ma in cui voglio ancora credere (permettendomi di rinviare in tal senso, anche solo in parentesi, a un mio testo abbastanza recente: La Comune di Parigi e l’Europa della Comunità? Briciole di immagini e di idee per un ritorno della Commune de Paris, Quodlibet 2019). E poi quando sei giovane è ancora più facile e giusto credere ed è bello ricominciare. Oggi, più di trent’anni dopo, farei fatica, ovvio, ma avendo alle spalle il duplice percorso formativo-lavorativo poc’anzi rapidamente evocato, forse potrei ancora avere una chance (e dico «forse» perché il nostro mondo è cambiato parecchio e le condizioni non sono più quelle della metà degli anni Ottanta, ne sono ben cosciente, anche se, dove sono nato io, dalla seconda metà dei Sessanta in poi, si è sempre e solo sentito parlare di «crisi»).

I ragazzi della sua generazione sono stati tutti spesso degli appassionati lettori di Salgari, è anche lei tra questi? Se non fosse così, quando ha letto per la prima volta Salgari?

Da torinese, per quanto periferico, ero un piccolo ‘einaudiano’ (passatemi la non parca definizione tra apici, les Amis), cresciuto con tante «Letture per la Scuola Media» Einaudi, per l’appunto, che, insieme agli «Struzzi», ai «Nuovi Coralli» o alle «Centopagine», collane tutte nate, se non erro, tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, erano più che disponibili a chi tra elementari e medie, anche (ripeto) in periferia, leggesse già per davvero, via la biblioteca di classe, d’istituto e quella che pian piano si stava facendo a casa, dove biblioteca, inizialmente, non c’era; e all’epoca si usava leggere per davvero, come si usava ‘sbiciclettare’ fino al centro – e quando pioveva c’era il tram: bref, piccoli lettori ecologici, se non fosse stato per la carta degli alberi non ancora riciclata, n’est-ce pas? Quindi per me Emilio Salgari fu innanzi tutto l’antologia di Daniele Ponchiroli, quelle bellissime Avventure di prateria, di giungla e di mare, del 1971, ma già nella quarta edizione del 1976, et pour cause… Un po’ come Giuseppe Garibaldi fu l’antologia delle Memorie, a cura dello stesso Ponchiroli, uscita a metà anni Settanta. Quasi nello stesso senso, proverei a dire una cosa che a molti sembrerà strana e/o dispiacerà. A me non sono mai piaciuti i grandi formati, illustrati, per l’infanzia (e non solo). Anche i «Libri per ragazzi» dell’Einaudi non mi attiravano: parevano libri ‘vintage’ prima del ‘vintage’, già ‘stirati’ per i futuri collezionisti, ed erano libri per l’infanzia e, a un tempo, quasi libri d’arte per le illustrazioni che li introducevano e accompagnavano in modo pulito, ‘pulitino’, finanche ‘troppo pulitino’, quasi libri non da leggere ma da riporre con cura in uno scaffale. Ecco, in tal senso, son sempre stato un fan del formato tascabile, del poche. Non è che non riuscissi a vedere, leggendo, ma un’arte che si sovrapponeva a un’altra mi distraeva e, come dire, si permetteva di ‘tradurre’ al mio posto in immagini. E le immagini (come, poi, le idee) ho sempre voluto trovarle da solo. Lo so, lo so. È una spiegazione sublime ed è giusto riderne, pur tenendola in conto. Di fatto, non avevo un’educazione artistica. Tutto qui. In seguito, ho capito la mia ‘miopia’, visitando con la prof. d’arte qualche museo e facendo letture di sociologia (e non solo). E ho cercato anche di porci rimedio, in seno a quella ricerca che si è sempre più chiamata «interdisciplinare» e che prevedeva in qualche modo che mi ‘allontanassi’ da ciò che vedevo bene, ‘da vicino’, per provare a vedere ‘da lontano’. E alla fine della fiera (pardon, à la fin de l’expo !), pare sia diventato più in gamba a veder da lontano che da vicino (encore que…).

Come e quando nasce invece il suo interesse “scientifico” per Salgari?

Al primo esame universitario di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea, con Marco Cerruti, autore soprattutto, per me, in quegli anni, del densissimo Notizie di utopia (1985), una delle migliori raccolte di saggi lette dal sottoscritto, dove c’era e c’è un bellissimo pezzo su La Bohème italiana (1909), che risaliva al 1980 (cfr. qui sotto il rinvio al convegno torinese su Salgari di quell’anno). Anche grazie a Cerruti, compresi che era meglio scegliere qualche entrée en matière discosta, lontana dai celeberrimi cicli (e da quelli indo-malese e dei corsari soprattutto). All’epoca si poteva – ed era cosa buona e giusta – far leggere di tutto e di più agli studenti, quindi nella parte istituzionale del corso, quella tesa a far acquisire competenze sulla letteratura italiana degli ultimi tre secoli, dal Settecento al Novecento, bisognava leggere tutte le parti, manualistiche e antologiche, della Storia letteraria inerente (e solamente un Dio della Bibliografia sa quante guide allo studio, introduzioni all’Italianistica e storie letterarie non banali fosse capace di produrre Torino nei tre lustri di fine secolo!). Poi, prima ancora di accedere alla parte monografica (con almeno un paio di volumi del docente e altri testi sparsi), bisognava scegliere quattro scrittori o scrittrici, leggerne quattro libri e almeno uno di critica a supporto. La critica, per me, era già importante al Liceo, che feci con Guido Baldi, in compagnia di Il materiale e l’immaginario di Remo Ceserani e Lidia De Federicis, ma a questo punto lo diventò ancora di più, per mettere in comunicazione letteratura e para-letteratura, cultura alta e cultura bassa, maggiori e minori, storie e geografie, testi e contesti, e per suggerirmi che i migliori contesti che potevamo ‘veder da lontano’ erano sempre figli di testi minori ‘visti da vicino’. Scelsi allora, in quest’ordine (scavandomi già una piccola ‘trincea’ otto-novecentesca ma temendo ancora d’invertire il notorio canone con l’ordine cronologico), Gabriele d’Annunzio (1863), Emilio Salgari (1862), Giuseppe Borgese (1882), Bino Sanminiatelli (1896). E del Nostro lessi La capitana del Yucatan (1899), Gli orrori della Siberia (1900), Gli scorridori del mare (1900), La Bohème italiana (1909) e tutte le 490 pagine del celebre Convegno Nazionale tenutosi a Torino, nel marzo del 1980, e intitolato Scrivere l’avventura: Emilio Salgari. Quasi tutti gli studiosi/saggisti mi parlarono, come ho già avuto occasione di dire, da Stefano Jacomuzzi a Nicolò Mineo, da Claudio Magris a Mario Tropea, anche se per un legame più astuto con Gabriele d’Annunzio fu Giuseppe Zaccaria, con l’incipit ‘straniante’ del suo lavoro, a sedurmi e a farmi intuire una pista, che provai a tracciare più tardi, con l’edizione quasi critica di Cartagine in fiamme (quella in rivista, «Per Terra e per Mare», del 1906, e non quella in volume, del 1908, perché banalizzata da Donath), uscita per Quiritta nel 2001, dopo la tesi di dottorato dedicata a d’Annunzio (edizione che fu anche polemica, argomenti – concreti – alla mano, con chi, all’epoca del famoso convegno, se n’era occupato, di questo péplum salgariano, con una certa leggerezza, a mio modo di vedere). Ma mi affascinavano – è proprio il verbo giusto – il setaccio, il taglio e il modo di scrivere di Cerruti, ripeto, e, oggi lo posso dire con consapevolezza maggiore, lo spoglio e lo stile di Rinaldo Rinaldi, i cui fantasmi salgariani, riempiti – quasi colmati – con le idee dell’avventura subita, della mancanza di fiato, del turismo schizofrenico, e con le immagini (ancora attuali e inattuali) del corpo esploso di eroi esagitati, compressi fra titanismo e impotenza, mi hanno sicuramente aiutato; anche se poi ho cercato soprattutto, nel bene e nel male (per carità), di puntare sulle immagini prima che sulle idee (‘alla Gaston Bachelard’) e nello stesso tempo di dar credito al Salgari coscritto popolare di d’Annunzio, sostenendo le ‘intuizioni’ (concretate o meno) di entrambi gli scrittori sui ‘vuoti’ del romanzo italiano e tentando d’evadere quanto troppo facilmente ritornava a parlarci ‘seriamente-seriosamente’ di ‘superuomo e inetto’ a partire da una iterata e monolitica griglia critica basata sugli anni Ottanta del XIX secolo e, ancor di più (e retroattivamente), sui diversi decenni successivi, tra Otto e Novecento. Certo, questa è un’altra (e forse più complicata) storia! Ma lasciatemi almeno dire, una volta ancora, che ci si diverte e financo si impara maggiormente a leggere Le vergini delle rocce (1895 e 1896) dannunziane con un pensiero al récit antiquisant francese e finanche al péplum salgariano sopra rapidamente evocato, piuttosto che a predisporre la solita spola critica, ideologica, scientifica, tra ‘superuomo e inetto’, per l’appunto.

Lei è stato nel 2005 tra i fondatori di Ilcorsaronero. Rivista salgariana di letteratura popolare. Quali sono state le motivazioni che l’hanno mosso a partecipare al progetto?

Fare scrivere gli altri, specie i giovani, anche e soprattutto provenienti da orizzonti diversi. Lo prova il fatto che io ho scritto pochissimo sulla nostra rivista e non ho mai sollecitato incarichi in seno alla stessa. Certo, a parte pagare la mia quota di socio fondatore, fare un po’ di promozione e suggerire via via qualche pista, magari attraverso un paio di articoli di un giovane studioso, per l’appunto, non è che abbia fatto granché, il Curreri Lucio. Anzi, celiando, più di recente, con gli Amici di sempre, Claudio e Roberto, mi son pure lamentato perché non mi hanno mai dato un premio che fosse uno, magari inventandosene uno di sana pianta, uno apposta per me. Scherzavo e scherzo, encore que… Più seriamente, sono fiero di essere tra i fondatori di una rivista che, in mezzo a tante difficoltà, è riuscita sempre, in qualità e quantità, a migliorarsi, ad aumentare il suo raggio d’azione, in senso comparato e interdisciplinare, innanzi tutto, ma anche in una prospettiva critica plurigenerazionale, che finirà per assicurare la continuità di cui ogni rivista ha bisogno. Non si mettono insieme decine di numeri senza un minimo di gioco di squadra, anche se un rematore o due restano più importanti. Ho provato la stessa cosa con le mie collane, prima da Nerosubianco, poi da Quodlibet. Non arrivi a fare trenta o più uscite da solo, ma ti accorgi che se non remi tu, la barca ha la triste tendenza a rallentare, fors’anche a fermarsi.

Nel 2009 invece c’è stato il Convegno Salgariano di Liegi intitolato Un po’ prima della fine? Ultimi romanzi di Salgari tra novità e ripetizione (1908-1915) di cui ha curato anche gli Atti (editi con l’omonimo titolo per i tipi di Sossella nel medesimo anno) insieme a Fabrizio Foni. Cosa l’ha maggiormente interessato degli ultimi romanzi e quali sono, secondo lei, le caratteristiche che meglio distinguono l’ultima produzione salgariana rispetto a quella precedente?

L’idea era già espressa nell’ampio saggio – «quasi un vero e proprio “libro nel libro”», lo definiva Emanuele Trevi nell’aletta – che accompagnava la mia edizione, sopra già citata, di Cartagine in fiamme (1906 in rivista, 1908 in volume, ricordiamolo, ché la cronologia è importante, in assoluto e ancor più in questo caso, che è quello di un testo-frontiera-cerniera, potremmo dire). Posso citarmi anch’io, con tanto di virgolette, per una volta? Se sì, citerei dalla mia parte di Premessa del 2009, comprensiva dei rinvii a quanto già dicevo nel 2001, una quindicina di righe rilancianti l’idea che «in Emilio Salgari è ravvisabile il destino dell’uomo-libro, ovvero l’essere il libro che si scrive; e il libro che Salgari scrive – nel caso di Cartagine in fiamme ma anche in molte altre testualità che si situano un po’ prima della sua fine e/o della fine, della caduta di antiche e gloriose città o di imperi – è come se fosse l’ultima cosa che scrive1. E ciò avviene nonostante il mercato non ne contempli e ne inquini, al contrario, lo sforzo: lo sforzo quasi titanico di una vita e di una scrittura che non si specchiano ma si fondono – anche perché non ci sono antichi e raffinati miroirs a far da filtro e tramite, come in d’Annunzio. Si tratta di una scrittura dove ogni ciclo, romanzo, capitolo, episodio possono e devono essere utilizzati e riutilizzati, e quasi bruciati, consumati. Tanto che la scrittura sembra ormai coincidere con la lettura che l’autore fa del suo stesso testo come lettore mentre lo produce […] In questa prospettiva, gli ultimi romanzi salgariani sono, forse, più significativi degli altri: il glissement dell’enciclopedico e/o quasi di una semiosi illimitata, con parole che sono programmi narrativi potenziali, verso l’autoreferenzialità di una trinità, un po’ troppo serrata, di ‘autore-eroe-lettore’, non può che produrre ripetizione. Il ‘lettore-eroe-autore’ legge e invita a leggere “partout la même histoire” mentre la vive e la scrive. Difficile non scorgere in questa deriva, specie nell’alveo di testualità che si situano un po’ prima della fine, il tragico destino di più inquietanti affabulazioni storiche del secolo breve. Ma stiamo già rileggendo Salgari, ovvero rilanciando quella “relecture” che “sauve le texte de la répétition” e che “n’est plus consommation, mais jeu (ce jeu qui est le retour du différent)”. E al fine di ottenere “non le ‘vrai’ texte, mais le texte pluriel: même et nouveau”2».

Nel 2010 e nel 2011 ha curato per l’editore Greco e Greco rispettivamente Le Aquile della Steppa e Cartagine in Fiamme (di cui aveva già curato l’edizione critica per Quiritta nel 2001). Per quali motivi ha scelto di curare proprio questi due romanzi? Trova che le due opere sopracitate possano considerarsi per quanto concerne lo stile narrativo in parte differenti rispetto alla tradizionale produzione salgariana?

Di Cartagine in fiamme abbiamo detto (e forse diremo ancora, se ho letto bene tutte le domande). Quindi direi un paio di cose di Le Aquile della Steppa, che è il romanzo che precede su «Per Terra e per Mare» la pubblicazione di Cartagine in fiamme, tra il 1905 e il 1906, ed è in volume per Donath nel 1907. Anche qui un testo da guardare da vicino, meno corrotto in rivista che in volume, anche se la banalizzazione del volume è meno importante, encore que: i rapporti con l’editore si stavano già incrinando e stavamo davvero nell’anticamera dell’«un po’ prima della fine» salgariano… Siamo nuovamente di fronte a un testo minore3, a un testo-frontiera-cerniera che è quasi un unicum, a una entrée en matière discosta, poco conosciuta, che poteva funzionare per ridisegnare un contesto largo e lontano, come fatto in precedenza per Cartagine in fiamme, ma seguendo sempre più l’idea che i migliori contesti – che tu, come lettore avvertito, possa ricostruire – sono tutti Figli di un testo minore, come provo pure a far capire (con più pratica che teoria ma con argomenti, esempi, puntelli dalla duplice natura) in un saggio del 2013, scritto per un Amico morto troppo presto, che si può leggere qui: https://orbi.uliege.be/bitstream/2268/173165/1/FigliTestoMinore.pdf. Detto questo, il risultato non fu lo stesso. Lavorai di corsa. Da potenziale «lettore modello» divenni un «lettore monello». Certo, al primo non ho mai creduto: Eco smise di sedurmi proprio tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, ben prima di I limiti dell’interpretazione e Dire quasi la stessa cosa, e con Booth e Culler riconobbi sempre più che può essere molto importante e produttivo farsi domande che il testo non incoraggia. In tal senso (e non solo), son sempre stato un lettore monello o, come mi piace maggiormente dire, birichino, con un aggettivo che è quasi diventato, per me, un ‘sostantivo-senhal’. Detto questo – cioè riconosciuto a posteriori il mio ‘buon senso’ poco modaiolo da ‘bastian contrario’ peraltro poco introdotto nel mondo dell’editoria (le grandi case editrici, come contentino, mi hanno sempre detto che le mie proposte erano fin troppo preziose [sic]: da Cartagine in fiamme a Pinocchio in camicia nera, da Le farfalle di Madrid a L’elmo e la rivolta, ecc.) –, va denunciato che l’edizione delle Aquile fu un’occasione in parte mancata e che la colpa fu esclusivamente mia, non dell’editore, Nicola Greco, che, tengo a dirlo, non fu soltanto un editore affettuoso e premuroso ma mi pagò anche il lavoro e non lesinò mai le copie.

Tra i suoi interessi critici c’è anche la figura e la produzione di Gabriele d’Annunzio (citiamo soltanto a modo esemplificativo D’Annunzio come personaggio nell’immaginario italiano ed europeo (1938-2008). Una mappa, Atti del convegno internazionale di Liège, a cura di L. Curreri, P.I.E. Peter Lang, Brussels, 2008; Metamorfosi della seduzione. La donna, il corpo malato, la statua in d’Annunzio e dintorni, ETS, Pisa, 2008). In più occasioni ha negato un rapporto diretto (si veda ad esempio l’interessantissimo articolo pubblicato in Ilcorsaronero, n. 4, Marzo 2007, “Per sfuggire alle fiamme bisogna affidarsi al mare – ovvero saper nuotare”) tra il kolossal Cabiria (1914), le cui didascalie furono curate proprio da D’Annunzio, e il romanzo salgariano Cartagine in Fiamme (1906 e 1908). Pensa però che possano esistere dei punti di contatto e delle influenze salgariane nell’opera di d’Annunzio?

Per certe cose sono stato letto male, un po’ di corsa (si va tutti un po’ di corsa, n’est-ce pas?). Io ho sempre sostenuto che sintetizzare e irrigidire la salgariana Cartagine in fiamme tra la flaubertiana Salammbô (1862) e la Cabiria (1914) di Pastrone – che è il cinema, mentre d’Annunzio non è che un autorevole e ben pagato adjuvant che trova da par suo i nomi dei personaggi, è vero, ma scrive didascalie un po’ pesantine, pur finendo per ‘portare’ il film grazie alla sua fama… obiettivo primo, del resto, di Pastrone4 – significava rinunciare a leggere il romanzo di Emilio Salgari per davvero. E proprio per evadere questi due monoliti che, perdonatemi, non fanno che ‘schiacciare’ il Nostro e il suo vero e diverso apporto, ho preferito puntare – per rilanciare il dialogo e le scelte critiche sopra descritte – su una commedia musicale hollywodiana come entrée en matière e tuttavia ricostruendo una volta di più e senza far polemica alcuna – quando nel 2007 «Ilcorsaronero» me ne ha dato la possibilità – tutto un contesto che spazia per cinquant’anni, in seno al Novecento e alla fortuna del nuoto nell’immaginario del secolo, fino, per l’appunto, a Jupiter’s Darling (1955) di George Sidney e con la mitica Esther Williams. Ed è questo che penso faccia dire ancora oggi che il breve articolo è «interessantissimo», bontà Vostra, ovviamente. Insomma, se il fuoco, se le fiamme salgariane, finiscono per esaurirsi – da un punto di vista storico-critico (e non solo: ma per me non è così!) – in alcune, notissime scene del film di Pastrone, scegliamo l’acqua e chi ci sa sguazzare da eroe, o da eroina, e ricominciamo a leggere facendo al testo domande che il testo non ci incita a porgli ma che è altamente interessante fargli. In questa seconda lettura, il contesto, pur nella brevità della stessa, ne è esaltato, insieme al testo salgariano in sé (oltre che a Cabiria…). Invece, in quella sostenuta da chi si ostina a cogliere delle influenze di Salgari su d’Annunzio, magari per dare la palma a Emilio, contesto e testo sono come annebbiati entrambi, a partire da quel ‘canone-impero’ che con le lenti di Flaubert, d’Annunzio, Pastrone non ci permette di vedere ‘da vicino e da lontano’ e di valutare per bene il lavoro delle colonie nella sua, del tutto legittima e sacrosanta, differenza: una differenza, si badi, non da ‘medaglione’. Il ‘medaglione’, in effetti, è quello che si vuole forgiare a tutti i costi incastonando autonomamente Salgari come pietra preziosa nella triade citata ridotta ad addizione, a somma, quasi ‘alla Croce’ (e non certo ‘alla Gramsci’, anche lui comunque distratto nei confronti del Nostro per via del noto argomentare circa l’assenza nazionale di un feuilletton degno di questo nome nella nostra letteratura – non popolare – e del ‘ratto’ fattone da certa produzione ‘cattolico-pedagogica’, fine polemico del ‘pensatore prigioniero’): Flaubert+Salgari/+/d’Annunzio+Pastrone. Certo, Salgari, del 1862, resta quasi un alter ego del Vate (nato nel 1863) e una sorta di popolare coscritto dello stesso, teso a dar corpo a quelle tentazioni che il ventenne Gabriele confessa in una lettera a Enrico Nencioni del 6 settembre 1884 a proposito di «un romanzo con moltissimi fatti e poca analisi, un romanzo a fondo storico». Ma noi sappiamo che d’Annunzio ha poi scelto e scritto altrimenti un lirico diario parnassiano che risponde al titolo di Il Piacere (1889), mentre il Nostro pubblica, fin dalla primavera del 1884, su «La Nuova Arena», La favorita del Mahdi, in volume nel 1887. Un passo avanti? No, un passo diverso! E tuttavia possiamo suggerire che il fiuto del giovane Salgari vale, in tal senso e all’altezza cronologica del 1884, quello del giovane d’Annunzio, magari pure anticipandolo (Emilio nasce anche un anno prima e il fiuto è fiuto, è una pratica, non è una teoria e non dipende dall’aver fatto o non fatto le ‘scuole alte’).

Pinocchio, come Salgari, è stato utilizzato durante il Ventennio Fascista con scopi propagandistici, snaturandone la figura originaria e gli scopi originari dell’autore (cfr. L. Curreri, Pinocchio in camicia nera: Quattro “pinocchiate” fasciste, Cuneo, Nerosubianco, 2008 e 2011). Qual è il suo pensiero critico sull’opera di Collodi e l’impatto che ha avuto sulla cultura di massa italiana?

Vedete, les Amis, anche qui, per me, si trattava di aver individuato una bella entrée en matière: con una mezza decina di «pinocchiate» – cioè di testi che prolungano la vita del personaggio Pinocchio fin dalla fine dell’Ottocento, subito dopo la morte del Suo papà, il Signor Carlo Lorenzini, in arte Collodi – son riuscito a rileggere il Ventennio da un altro angolo visuale e in un modo semplice – lo disse anche Claudio (Gallo), che talora mi trovava (e mi trova) giustamente un po’ ‘complesso’ – al fine di ricontestualizzare e di rimettere in scena i momenti più culminanti del fascismo storico (lo squadrismo punitivo degli inizi e la presa del potere; lo stato totalitario e le organizzazioni che ne inquadrano la popolazione, a partire dai Balilla, che indicano un percorso in virtù del quale bisogna rientrare tutti e tutte nei ranghi, senza discutere; il colonialismo africano e il razzismo disteso che lo nutre; la guerra civile e la fine di quel fascismo con la Repubblica Sociale Italiana di Salò; ma anche gli interessi orientali del Duce in Cina… che invia Galeazzo Ciano – appena diventato suo genero dopo aver sposato Edda, la figlia prediletta – come console a Shanghai, a inizio anni Trenta). Ciò che poi finisce per ‘intrigare’ non poco è che queste «pinocchiate» son racconti creati, fra testo e immagini, da una frangia goliardica che sapeva pure far ridere e che nel bene e nel male, per carità, va forse a nutrire una parte del nostro immaginario, transitando in maniera più o meno esplicita per una certa commedia all’italiana degli anni Sessanta, La marcia su Roma (1962) per esempio, e approdando finanche a Fascisti su Marte (2003), e passando dal grande Dino Risi (1916) all’altrettanto grande Corrado Guzzanti (1965). E qui sta il mio ‘peccato’: cioè l’aver pensato che le «pinocchiate» avessero parlato al di là delle loro date di pubblicazione, comprese tra inizio anni Venti e Quaranta, e che il loro valore documentario relativo alla ricostruzione dell’insana parentesi fascista della Storia italiana potesse spingersi fino ai giorni nostri, che ridono solo per finta – quasi sempre senza carica e distanza critica – e che non vogliono si tocchi – in seno al rinato idealismo e purismo del politicamente e del culturalmente corretto – Pinocchio e Collodi: quando noi peraltro sappiamo che il fascismo ha toccato entrambi (e tanti altri personaggi e autori, come è noto, come il nostro Emilio Salgari). Detto questo, due edizioni da un piccolo editore, per 1500 copie vendute nel giro di tre anni – mi assicurò la buon’anima di Bruno Ferrero, il mitico papà di Nerosubianco – e con oltre 30 segnalazioni e recensioni critiche in tutto il mondo e ispirazioni molto diverse, tra veri e propri plagi e saccheggi (‘accademici’) e usi invece più opportuni via x citazioni e ringraziamenti, fanno intendere che la strada era giusta. Certo, pubblicata da un grande editore, quest’antologia particolare ma curata, hanno detto molti lettori avvertiti, a dovere (e senza l’ombra di revisionismo) avrebbe fatto faville, probabilmente. E tuttavia c’è da chiedersi perché editori, redattori, ricercatori (non dico volutamente: intellettuali) si scoprano e si declinino come antifascisti, memorie storiche, partigiani, resistenti, soltanto quando si tratta di affossare o sfumare un curatore e un editore piccoli, che stanno già ai margini della strada e per cui basta una piccola spinta vigliacca e sono nel fosso, per l’appunto, o nel (manifesto) macero. Insomma, a mio umile avviso, se Collodi e Pinocchio, nell’ultimo ventennio nostrano, son retaggio (in ostaggio) dei film di Benigni e di Garrone (si legga almeno, on line, una delle poche altre voci davvero e giustamente critiche a tal proposito, quella di Stefano Jossa), possiamo anche dire che la loro influenza è ridotta a ‘zero’, perché siamo al – mi vien da dire con mie parole recenti (https://retroguardia.net/2021/07/28/per-un-dante-dappertutto-e-fuori-posto-encore-que-saggio-di-luciano-curreri/) – ripristino di un’angolazione – suggerirei quasi di una inquadratura – ‘strapaesana’, provincial-nazionale, che, come è noto, non ci predispone a una ‘libera appartenenza’ ma – e lo sappiamo bene (anche se pare lo si dimentichi sovente) – a una già peraltro sperimentata e ‘sofferta schiavitù’. Ecco, il parco degli «Amici» di questo o quell’autore si può anche allargare ma resta sempre e soltanto un parco, più o meno vasto, niente di più: non è, spesso e volentieri, una vera «comunità». Molti ripetono, e lo fanno sovente, che è tutta colpa degli «Accademici». Io, invece, starei più attento a come si muovono i presunti «Amici». Che Collodi e Salgari siano davvero di tutte e di tutti, io non sono sicuro. Della «massa», poi, come dei «bagni di folla», specie se ricorrenti (e spacciati pure per coerenti), io non riesco a non diffidare (mentre la «comunità» la cerco ancora e l’ho cercata fin dall’inizio: per cui si scorra almeno Una bibliografia ragionata per il nuovo Millennio, nella mia edizione, sopra citata, di Cartagine in fiamme, alle densissime pagine 404-410, dove nessuno resta fuori ed il lavoro di tutte/i è ricordato e presentato in maniera puntuale e ‘comunitaria’; una bibliografia ragionata cui seguono i Ringraziamenti di cui sono uno ‘specialista’). Ma è proprio questo che mi ha permesso e mi permette, nel mio piccolo e nel rispetto degli altri, di leggere e di studiare, con tagli ‘inattuali’, autori, testi, contesti, personaggi, revenants che ai più non vengono in mente o vengono in mente solo secondo le regole del già citato canone o dell’ideologia (mai morta e più diffusa di quanto in genere si pensi, anche nelle più recenti ‘avanguardie’ culturali o supposte tali). Nell’esprimermi così, non cerco lo scranno, il successo ma la libertà: una libertà collettiva che mi sembra bene espressa nel Convegno salgariano di Liège del 2009, prima ricordato. La presunta autorevolezza e visibilità dello scranno, del successo, non deve essere un luogo assoluto cui tendere e in cui magari ‘restare’ il più a lungo possibile, magari tutta la vita. Specie se modesto, il successo può aiutarti a rendere più libero il tuo essere e fare, ma tu non glielo devi poi consegnare tutto, mani e piedi legati, o finisci per fregartene, del tuo essere e fare; e, per essere un vero antifascista, tu non puoi fregartene, a meno che tu non sia un ‘antifascista estivo’, uno di quei non pochi intellettuali che scoprivano, qualche estate fa per l’appunto, che pubblicare da Einaudi significava essere ‘collaborazionisti’ e che farlo addirittura da Mondadori significava essere del tutto ‘compromessi’. Bene, io accettai – un po’ prima e un po’ dopo tale profonda ‘rivelazione’ – di pubblicare una postfazione per Einaudi e un’altra per Mondadori a due Pinocchî, e con la seconda la feci grossa, perché finii nella «Biblioteca dell’Utopia» (ma già targata Mondadori, non Berlusconi, come era fino a poco tempo prima). Mi chiamarono in tutti i modi, da «mafioso» (per via del coordinatore di collana, mai visto né sentito) in giù, diciamo. Detti una scorsa agli altri curatori, relativi ai 19 volumi che precedevano Le avventure di Pinocchio. Non faccio i nomi (e qualcosa mi dice che saprei trattenermi anche sotto tortura, io) ma fatemi dire che c’era il fior fiore dell’intellighenzia italiana! Mi dissi: «Senti, Curreri, pensala così, tu che sei figlio di due operai socialisti delle Vallette e di Madonna di Campagna: negli Indici hai la fortuna di venire dopo Italo Calvino, nell’edizione Einaudi, e dopo Pietro Pancrazi, in quella Mondadori. Sei ancora in migliore compagnia…».

Lei è anche scrittore; ci racconta la sua esperienza con la narrativa? La sua attività di docente e critico l’ha influenzato? Quali autori hanno maggiormente influenzato la sua scrittura?

Se io potessi scegliere uno scrittore a cui assomigliare, direi subito, per restare alla «S» del Nostro, Sciascia e non Salgari. Ma devo dirVi anche, e subito, che io non voglio assomigliare a nessuno. Ho tanto stimato e stimo moltissimi archivisti e bibliotecari, colleghi universitari e giornalisti, editori e redattori, critici e scrittori, storici e filosofi, illustratori e fumettisti, sceneggiatori e fotografi, registi. E dimentico sicuramente almeno due o tre categorie, tra cui, per esempio, quella degli organizzatori culturali che non vendono né si vendono e sono dei grandi appassionati! Penso a chi è riuscito a stare dietro, per davvero e per decenni, ad alcuni festival culturali più o meno noti. Ma penso anche a certi direttori degli Istituti italiani di cultura, a certi ambasciatori… C’è poco da fare, dipende sempre dalla donna o dall’uomo che incontri, non dalla carica, dal mestiere, dalla notorietà (vero è che quest’ultima un po’ «inquina e uccide i sentimenti»). E tutte e tutti possono essere grandi donne e uomini prima di essere grandi professioniste e professionisti. Ecco, ho provato a fare anche lo scrittore per tentare di intercettare maggiormente la vita! Purtroppo, non penso di esserci riuscito. La mia narrativa, poi, parla di morti (A ciascuno i suoi morti, Nerosubianco 2010, ma sono racconti che arrivano da più lontano, da un po’ prima e da un po’ dopo la morte di Tondelli, per intenderci), di cose che non sono o non sono più, di elaborazioni più o meno intime del lutto (Quartiere non è un quartiere, Amos 2013, ma la molla sono i primi anni Duemila), di scacchi conoscitivi pubblici e privati (Volevo scrivere un’altra cosa, Passigli 2019), di clamorose ed étranges défaites (Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis, InSchibolleth 2021). D’accordo, come l’ultimo sottotitolo citato in parentesi lascia intendere, si esorcizza e lo si fa anche ridendo. Detto questo, mi sono reso conto che, a volte, la mia attività di docente e di critico mi ha un po’ separato dalla vita: quanto meno da quella vita che sognavo più larga e più ricca di incontri. In parte sarà colpa anche mia (diciamo al 50%), ma oggi posso dire che la mia vita è stata più stretta e più ricca di scontri. Quindi, come dire, non riuscendo a mentire – o a dire quello che non so – neppure in un testo creativo, in un racconto, ho optato gioco forza per una narrativa più stretta e scontrosa. E non è un merito: è andata così. Certo, volevo che andasse così, ma non ho mai potuto fare altrimenti (per la mancanza di tempo, di denaro, per un minimo di talento non propriamente allenato, per i contatti che non avevo in passato e tutt’oggi non ho). E non così paradossalmente, mi sento più libero nelle vesti di uno ‘storico della cultura’ che mi sono ‘inventato’ via via, tra spinte comparate e interdisciplinari, che non in quelle di ‘narratore’. Perché? Ma perché come ‘storico della cultura’ penso di aver imparato un po’ a ‘fare all’amore’, per capirci. Mentre come ‘narratore’ mi esercito ancora troppo da solo, diciamo. Quel che non riesco ancora a capire è se il mio dettato ‘narrato-saggistico’ sia sempre stato consapevolmente tale. Io penso di sì, ma non ne sono sicuro. Da un lato ho sempre voluto – e cercato di – raccontare la storia della cultura e della vita, e sempre accettandone la complessità. Dall’altro è anche vero che più conoscevo e provavo a raccontare la letteratura, la cultura tutta, la storia… e più mi sembrava di perdere la vita, in un certo senso. Il problema, se volete, è sempre il solito: per conoscere tanto, devi leggere e studiare tanto. E queste ultime sono attività che impongono, più nel male che nel bene, un continuo isolamento. Non sei a spasso per il mondo quando leggi e studi per davvero: le poche ‘lezioni all’aperto’ del nostro presente sono state sostituite (per la pandemia e forse, e purtroppo, non solo) dall’insegnamento a distanza, che aspettava la sua occasione migliore per uscire – esso sì – allo scoperto. E lo sei solo in senso figurato, a zonzo per il mondo, quando leggi e scrivi: è retorica, ragazzi, e, si sa, funziona anche come una ‘droga’. Puoi, cioè, diventarne dipendente. C’è chi fa finta di ‘uscirne’ andando al caffè per esercitarci come ‘maître à penser’, c’è chi va nelle comunità di scrittori, quasi fossero ‘comunità di recupero’, c’è chi apre una scuola di scrittura e/o va in televisione, in radio e ci resta, magari al posto del presentatore, e c’è poi, al fondo di una lista che potrebbe più o meno facilmente continuare e continuare, chi sta a casa (in affitto) o in un qualche ufficio di una qualche istituzione – ed è forse il più onesto – e lì confessa a sé stesso, ovvero a nessun analista o prete, che è a casa o in ufficio, da solo, e sta leggendo, studiando e/o scrivendo. Punto… e a capo!


NOTE

1 Curreri, Luciano, Il Fuoco, i Libri, la Storia. Saggio su Cartagine in fiamme (1906) di Emilo Salgari, in Salgari, Emilio, Cartagine in fiamme, nell’edizione pubblicata in rivista nel 1906. Romanzo, a cura di L. Curreri, Quiritta, Roma 2001, pp. 315-403; in particolare pp. 377-378 e 403 per le note).

2 Barthes, Roland, S/Z. Essais, Seuil, Paris 1970, pp. 22-23; citazione da p. 23.

3 A suo modo, anche Gli scorridori del mare, che esce per Donath nel 1900, firmato con lo pseudonimo di Romero, è un testo minore, un testo-frontiera-cerniera che è quasi un unicum, una entrée en matière discosta, poco conosciuta, e quindi utile a disegnare di nuovo e a problematizzare un più largo contesto di negrieri e pirati, per cui cfr. Curreri, Luciano, «Il pirata! Giammai!: parola di negriero». Una causerie sull’universo piratesco salgariano a partire da “Gli scorridori del mare” (1900), «Retroguardia 3.0», 24 gennaio 2022 (per cui cfr. https://retroguardia.net/2022/01/24/il-pirata-giammai-parola-di-negriero-una-causerie-sulluniverso-piratesco-salgariano-a-partire-da-gli-scorridori-del-mare-1900/).

4 Si guardi ora il pluripremiato (et pour cause) film documentario Pastrone!, Regia di Lorenzo De Nicola, Clean Film – Lab 80 film, Italia 2019 e magari pure la puntata di «Passato e Presente», andata in onda su RAI 3, il mercoledì 29 gennaio 2020, ora visionabile su Rai Play via il link seguente: https://www.raiplay.it/video/2020/01/Passato-e-Presente—Pastrone-e-lalba-del-cinema-7e910a08-8bd4-4423-b236-1cdefc1c7a74.html

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.