Due scrittori svizzeri, Hohl e Walser

Ludwig Hohl, Sentiero notturno , Casagrande editore, 1991, trad. di Giusi Valent.

Robert Walser, La passeggiata, Adelphi, Milano 1976, Trad. di Emilio Castellani

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di Domenico Carosso
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Un uomo ne vede un altro davanti a sé, in una notte d’inverno; la stradina di una piccola cittadina, completamente addormentata, è percorsa da un’aria gelida, e la vicinanza della locanda sembra però proporre una sosta calda e accogliente.

Tutti i racconti di Hohl sono come occupati da un’aria tagliente, percorsi «dall’algida forza della limpida notte invernale» che si abbatte, come nel «Sentiero notturno», sul protagonista come qualcosa di inevitabile, di fatale, un fato tutto umano, dunque tanto più invincibile del divino, invalicabile.

I testi del «Sentiero notturno», scritti tra il 1931 e il 1938, descrivono paesaggi, montagne, solitudini, con una prosa secca e ruvida che come un blocco di granito sfocia in pianure impossibili, meno ospitali delle altitudini, occupate al più da una vuota eternità.

Alcune donne in un paese di montagna, in cima ad un pendio infinitamente irsuto, nero, sconfinato, altissimo, tanto che l’occhio che lo percorre non può che perdersi nelle profonde fenditure che spaccano il paese in tanti abituri sostenuti da un rudere pericolante, sembrano visitate da qualcuno che vuole conoscere il passato, e si trova invece di fronte tre figure (passate, presenti o future?) che si ergono nitide sullo sfondo.

L’uomo invece, da sempre addetto alla distribuzione del latte col suo paiolo di rame, aria simpatica, viso di pergamena, gambe così storte che in mezzo ci si poteva infilare una pecora, all’improvviso è morto. La stanza una volta abitata si trova a circa un metro sotto terra, e prima di scenderci, dagli ultimi gradini si scorgevano gli immensi pendii erbosi.

Una volta la vecchia bevve il suo latte, però lentamente, con devozione; il termine può sembrare troppo forte, però lei tiene il pane in mano con somma devozione. Così facendo esercita ancora una volta una magia non inferiore (di cui forse non è neanche consapevole) a quella suscitata in noi con il suo atteggiamento di fronte alla morte, che subito ci trasmette.

La solitudine, la montagna, la morte sono i tre temi collegati e interconnessi nei racconti di Hohl, e con questi si fa avanti, non in disparte ma come un controcanto, il coraggio di vivere e accettare la realtà, in un corpo a corpo tra l’uomo e le cose che non prevede vincitori né vinti, perché è interminabile e senza via di scampo.

Una cresta di granito rosso segna il confine, in Olanda, col mare, oppure è tale solo nel sogno, «Nel buio inverno, una rilassata eternità, con le rocce irte come candidi altari che solo il cielo ricopre, le forme raggiungono la loro massima espressione, il loro intimo splendore»1.

Di anno in anno l’autore perde di vista la montagna, coi suoi giorni oscuri e interminabili, coi suoi ricordi di giorni eterni e immutabili, torna in Svizzera, si stabilisce a Ginevra ma in una cantina, dove vivrà il resto dei suoi giorni.

Un gesto anticonformista ma non autolesionista, solo una scelta di ripensare al mondo verticale in modo più completo e totale, e come capovolto.

Due uomini camminano dunque lungo il Danubio, che «un muretto separava dalle acque: cataste di legno verticali, qua e là ricoperte di neve, di diverse altezze; sembrano case, senza finestre e con gli angoli tutti retti, e con le loro numerose stradine, strette, fonde, i loro innumerevoli spigoli, le loro ombre, creavano labirinti regolari e sconfinati fantastici eppure erano impregnate di un silenzio particolare.

I due camminando coprono e insieme rivelano i propri segreti, sono l’uno alla ricerca dell’altro, oppure, più probabilmente un Io diviso in due, estraneo od ostile alla vita.

Qui, in questa scrittura, non c’è alcun riferimento ad un paesaggio idillico austro-boemo, con la cupola a cipolla della chiesa del villaggio e la quieta della casa, diurna e nottturna.

«La pace domestica – scrive Magris nel suo Danubio – è un idillio, una conciliazione dei dissidi raggiunta in una sfera ristretta e limitata». Lungo il fiume, la catasta di legna della segheria diviene e si trasforma in forme geometriche sempre nuove, con un ritmo così veloce da sembrare imprendibile dal singolo individuo.

Da parte sua Hohl non propone alcuna via d’uscita dal sogno o meglio dall’incubo del fiume e del sentiero, che sono vie segrete e in fondo sconosciute a chi le percorre, perdendosi in esse.

In ogni caso, trasportata nel sogno, la situazione umana diventa per sé angosciosa.

Per Hohl anche le idee, le immaginazioni poetiche nascono dalle mani e devono conservare il loro senso manuale, come succede nella vicenda delle tre vecchie, specialmente l’ultima, la spaventosa. E gli uomini senza mani “che non sanno fare i pacchi” trapassano nello spiritualismo, il limbo di una separazione però non definitiva dalla realtà. In ogni caso Hohl non è un’esteta, non cerca la salute nello spirito puro: il fiume respinge ogni definizione che gli sia estranea, si accontenta di scorrere col proprio ritmo comunque indefinibile.

Costeggiandolo i due camminano con andature diverse ‒ il primo lentissimo, l’altro ne è il sogno, adesso e in seguito ‒ l’incertezza della notte e l’asimmetria del percorso fanno riscoprire che l’esistenza è un viaggio e trasmettono, come già detto, un’eventuale sorpresa: ma tutto vive nel sogno, dell’Io o dell’altro, ed ogni possibilità rimane aperta.

L’altro che il sognatore immagina, un mendicante, un disperso, una guardia notturna? forse aveva raggiunto un tale grado di necessità interiore da non essere più capace di alcun movimento esteriore.

«Qui a riva l’acqua del Danubio scorreva nel verde chiaro, notturno, glaciale, colpiva e poi tirava dritto, all’infinito, una bestia verdognola».

Come posso darvi un’idea del paesaggio scrive sempre Hohl «Ho visto tanti chiari di luna in zone rigogliose… mentre mi dirigevo verso la cittadina passando lunga la riva, la strada si allontanava nuovamente dal fiume e portava verso campi senza fine, un po’ ondulati, pallidi, un bagliore che prima salì verso l’alto poi restò tranquillo, e infine vidi una capanna, come un rifugio ultraterreno»2.

Chi racconta però si chiede (nel sogno) in quale direzione il suo uomo si muova. «Dovevo tornare indietro, verso la piazza, e la corrente di aria fresca proveniente da dove si parte per andare avanti, mi avvolse… Cominciai anche a pensare al giorno che stava venendo, al mio lavoro, alla mia vita – intendo dire alla vita fatta di tanti singoli giorni. Era una vita difficile – lavorare era difficile…».

Il nostro torna dunque all’osteria, con la voglia di descrivere il paesaggio appena visto: un albero si stagliava alto sulla strada, la luna ondeggiava alta e fluida, come un blando fuoco che si stesse smorzando, guizzante e frettoloso…»3.

La luna illumina lo notte e, col suo bagliore, il corse del fiume, su cui posa uno scintillio terrificante. Di nuovo un albero si stagliava alto sulla strada, la luna ondeggiava rapida e fluida, come un blando fuoco che si stesse smorzando…

Una casa, apparsa dopo un avvallamento, sembrava una capanna di quel mondo terreno e ultraterreno. Sì, perché tutto è reale e tutto si svolge nel sogno di un solo viandante, che ne sogna altri due, e talvolta inserisce se stesso nel sogno, come un incubo facilmente manipolabile.

E la terra attraversata è l’eterna magnificenza dello spirito…

Non si parli di altri, in cammino notturno – non c’era nessun altro. Chi parla però rimprovera ad un presunto altro di essere ostile alla vita, forse la sofferenza che lo occupa, che tutti ci occupa.

Il finale del SN è la constatazione della debolezza dell’uomo, che non molto può fare se non soffrire, e i due non riconciliati ma sereni, per così dire, si stringono la mano.

Partenza e ritorno, o il camminare per lo più vicini, sono le voyage de la vie. Nel racconto che ci ha proposto passione e luce, grovigli e liberazioni da un io contorto, Ludwig Hohl esprime tutta la sua visione del mondo, sotterraneo o no che sia. Non la pura sensazione, ma i suoi effetti, anche filosofici, ci vengono qui proposti. E la morte, quando occorre, è una rappresentazione della vita, preceduta da un’inevitabile, ma non per tutti uguale, sofferenza.

Due alpinisti, l’uno coraggioso e quasi superbo, leva gli occhi verso la cima, «come attraverso una grande nave che fa rotta non solo per l’oceano delle terre, ma per l’eternità»; l’altro timido e indeciso, fanno una scalata insieme; il primo rimarrà prigioniero della cima, il secondo scivolerà su di una pietra, un inciampo mortale per lui, alla base della montagna.

Così la morte corregge quel che la vita aveva di parziale, ed inverte i ruoli: Ascensione, in tedesco Bergfahrt, it. La scalata , punisce l’orgoglio dell’uno, e abbandona l’altro al suo misero destino.

E la montagna, non l’uomo, ha l’ultima parola, sicché non si può parlare di destino o di fatalità, che sono l’orizzonte umano, ma della scelta di un’attraente eternità, un scelta che poi va oltre le stagioni e le immobilizza nel loro farsi e disfarsi.

Il racconto, dal titolo Bergfahrt, Hohl lo scrisse alla fine degli anni Venti del secolo scorso, per poi lasciarlo decantare fino ai Settanta.

Robert Walser è stato da Musil paragonato a più volte a Kafka e due citazioni sembrano confermare la validità, in entrambi, del rapporto lavoro-scrittura.

Le due citazioni dalle Passeggiate con Robert Walser di Carl Seelig suo amico e tutore a proposito de L’assistente:

«Sotto la cupola del cielo grigio-fumo – nebbie che passano, nessuno che s’incontra, Robert sempre più espansivo. Robert mi racconta: per il romanzo L’assistente presi a modello l’esperienza avevo fatto come contabile a Wadenswil, dall’estate dal 1903 fino ai primi di gennaio del 1904, e che fu pressappoco come la descrissi, in base ai miei ricordi, a Berlino. Ebbi quel posto tramite l’ufficio di collocamento a Zurigo, dove lavorai per un certo tempo alla Kantonalbank dopo la parentesi di Wädenswil».

Sulla via per Gossau: “Non le ho ancora raccontato come feci in fretta a scrivere L’assistente. Come sa, lo Scherl-Verlag di partecipare ad un concorso per un romanzo. Ma l’unico come mi venne in mente fu la mia esperienza di impiegato a Wädenswil. Perciò la raccontai, scrivendola direttamente in bella. In sei settimane avevo terminato.” Ho detto a Robert che un nativo di Wädenswil mi ha assicurato che ogni osteria e ogni personaggio del libro sono riconoscibili. Fra l’altro, un orologio pubblicitario dell’inventore Tobler si troverebbe ancora in una stazione dell’Oberland zurighese, credo Bäretswil. Robert dice: “Tobler, l’ho incontrato a Berna qualche volta dopo il suo fallimento. Era un tipo irascibile, sua moglie di Winthertur, era alta e tranquilla»

Si può leggere molto di Robert Walser, ma nulla o quasi nulla su di lui. I personaggi di RW amano lo scorrere, il fluire della vita… ma in RW non c’è nulla di orgiastico, come spiega Walter Benjamin, nessun abbandono mistico all’indifferenziato, piuttosto la scelta del non-detto del sottaciuto, e poi le fonti esplicite della sua ispirazione sono le vicende normali della vita, i lavori in banca o simili.

Se poi l’autore dice di se stesso di aver visto, provato e sperimentato di aver visto e fatto tante cose diverse, ma di non avere nulla, proprio nulla da raccontare, non bisogna – direi – credergli sulla parola, e piuttosto lasciarsi andare senza schemi predisposti alla gioia che le sue pagine, sempre nuove e fresche, ci procurano sempre.

Nel piccolo libro dal titolo La passeggiata, «le prolisse passeggiate mi ispirano mille pensieri fruttuosi, mentre rinchiuso in casa avvizzirei e inaridirei miseramente. L’andare a spasso non è per me solo salutare, ma anche profittevole, non è solo bello ma anche utile. Ogni passeggiata è piena di incontri, di cose che meritano d’essere viste, sentite. Di figure, di poesie viventi, di oggetti attraenti, di bellezze naturali…». Centrale in Walser è il gusto di muoversi, di passeggiare, per lo più nei paesi lacustri che sono il suo luogo di nascita. Il «Lust zum Wandern» (piacere di passeggiare) gli permette di penetrare a fondo nella sostanza dell’uomo interiore, in cerca di svago o, più pessimisticamente, di un se stesso, di un Io vagabondo e imprendibile, ma sempre aperto alle novità e alle sorprese dell’esistenza. Analogamente il «Lust zum Fabulieren» (la gioia di raccontare) ha modo di manifestarsi, nelle sue infinite possibilità, proprio come gioia del racconto – le due espressioni tedesche sono del traduttore Emilio Castellani – che è tutto presente nelle volute estreme e anche sconnesse, ma proprio perciò attraenti, della scrittura.

Nella misura poi in cui essa è sconnessa, cioè influenzata da un inconscio non sempre sotto controllo, che dà della vita una verità dimidiata (l’espressione è sempre di Castellani), ciò permette all’autore di cogliere, dolorosamente ma efficacemente, la duplicità e caducità delle cose e dell’essere stesso dell’uomo, con un esito a metà tra il comico e il tragico.

Se Kafka costruisce la sua scrittura come uno scontro perenne con la potenza, che è al di là delle sue possibilità, delle possibilità di chi ha deciso di vivere l’altrove della vita, Walser rinuncia subito alla potenza, intesa come possibilità di fare delle cose autonome, di propria iniziativa, e i suoi gesti d’autore, dopo i primi romanzi, L’assistente e I Fratelli Tanner, scritti tra il 1906 e il 1909, sono frutto della decisione di scomparire, senza che nessuno, neanche lui stesso, sia giustificato a prendere atto di ciò. La vita è disintegrata dalla dissociazione, che però gli concede intensi periodi di gioia e di libertà, come succede con la Passeggiata.

Nel resoconto di un viaggio in Svizzera e nell’Italia del Nord, compiuto con l’amico Max Brod nel 1911, con tappe a Parigi e Zurigo, scrive Kafka che «la Svizzera sorprende con sue case isolate, che perciò sembrano particolarmente diritte, in tutte le cittadine e nei villaggi lungo la via ferroviaria. Non formano vie a San Gallo. Espressione, forse, del buon particolarismo tedesco di ciascuna… con l’aiuto delle difficoltà del terreno. Ogni casa con le sue imposte verde-scuro e con molto color verde su travature e ringhiere sembra una villa. Ciò nonostante ha un’unica insegna. Pare non si faccia distinzione tra la famiglia e la bottega. Questo costume di mandare avanti un’azienda in una villa mi fa pensare al romanzo L’assistente di Robert Walser».

L’assistente è il più limpido ma anche il più misterioso dei suoi romanzi: tutto è chiaro, non ci sono complicazioni linguistiche, il Giuseppe Marti è un personaggio trasparente, del tutto adatto a non cogliere l’impegno del lavoro e a vivere senza spessori, senza amore, adattandosi alla libertà domenicale, coi cinque franchi che il titolare della Villa vespertina gli dà, per andare un giorno in treno nella vicina città. Il mistero a sua volta non è tale, è l’espressione del vuoto del mondo e della vita, un vuoto non contrastato né subito, perché nessuno dei personaggi ne ha coscienza.

L’abisso in cui tutti vivono ha suoni che nessuno ode, ed ecco che l’autore non augura a nessuno di essere come lui, di sapere tante cose ma di non avere nulla da dire».

L’eroe di Walser è un solitario e un vagabondo, che trova nel camminate ogni giorno uno sfogo alla propria ansia, che però in questo modo aumenta ed esce per così dire dal limite, diventando la suprema molla poetica del vivere e dello scrivere. La rinuncia a vivere preserva i personaggi dalla disperazione, gli permette di muoversi leggeri nel nulla, senza scogli, senza ostacoli, liberamente accettando la propria condizione.

Per Hohl, in qualunque occasione della vita, la sofferenza riunisce gli elementi diversi e separati, se sono consapevoli che l’unione non è pacifica né definitiva, e se gli uomini non la vivono come un ostacolo insuperabile.

Le tre vecchie in un paese di montagna sono la Possente, la Silenziosa, la Spaventosa, tre emblemi di una vita al limite dell’umano, e tuttavia accettato e perseguito non come un destino ma come una scelta.

La prima, la possente, anche se ha una voce sgraziata, indisponente e un po’ incomprensibile, è la più disposta a ricevere visite cui comunica, con voce roca, «le gambe sono deboli, ma ho uno stomaco di ferro, digerisco tutto; sovente, oltre la voce, parlano le sue mani, di un colore tra il cuoio e il rame ossidato, e la voce come quella di Johan Sebastian Bach, non meno rigida esteriormente, non meno ricca, altrettanto priva di qualsiasi ornamento personal-sentimentale, altrettanto non umana, grande e sicura4. La si definisce la possente, perché è capace di gesti clamorosi, che la mettono in evidenza nel villaggio, come tagliarsi la legna invernale sa sola, cucinare e fare a meno dell’aiuto, d’altronde saltuario, del figlio.

La seconda delle donne è la silenziosa: vive sola, non parla mai, si dedica unicamente al suo orto «cui sembra unita da un legame indissolubile», e l’orto è lungo, accompagna una stradina in discesa, cintata, in fondo chiusa da una porticina fragile, tutt’altro che uno sbarramento.

Gli alberi del giardino sono tutti scoloriti, le foglie pendono in giù innaturalmente, come fossero di piombo. Certe volte qui sembra che tutto sia di latta o di ferro sottile, per esempio il recinto dell’orto con le sue porticine che fanno da sbarramento ai curiosi, li tengono cioè lontani.

In più, la spaventosa, una bambola raccapricciante, ricoperta di stracci, che scende per la sua strada a passi brevi e concentrati, favorisce, più delle altre, la descrizione di Hohl, una scrittura che indugia sulla realtà, dopo abolito ogni fronzolo sentimentale.

Ha scritto infatti F. Dürrenmatt: «Hohl è necessario, noi siamo accessori; noi mostriamo la realtà Hohl la definisce».

Della silenziosa l’autore propone la magia che sembra provenire dall’era glaciale; questa vecchia quando cammina tiene il busto ad angolo retto rispetto alle gambe, quasi orizzontale, e di sé non dice niente, né di giorno né di notte, quando la luna, molto chiara, sembra voler favorire qualche dichiarazione o pensiero – del tipo colloquio con la lanterna magica che sta lassù in cielo, e talvolta illumina il mondo.

La spaventosa è Teresa, vive sola, non possiede niente e talvolta chiede l’elemosina, ma soprattutto è isolata dal mondo da una sordità interiore. In più, «il suo viso non arrossiva, non mutava, sembrava più terrigno che mai, d’argilla o di pietra, e questa pietra parlava, con frasi brevi, semplici, quasi sempre uguali, che ci investivano con un volume di cui è a malapena possibile rendere l’idea».

Con le tre vecchie l’autore costruisce un microcosmo con i suoi movimenti interni ed esterni, insieme causa ed effetto di certe note generative che poi ne generano altre, e tutte confluiscono in un periodare denso e complesso, tanto più esplosivo quanto più tende ad una violenza verbale fatta di contrasti vivaci ma come messi in sottofondo, sotterranei e inesplicabili.

Grida contro i bambini, la spaventosa, ma loro rimangono tranquilli e imperterriti perché ci hanno fatto l’abitudine, e vogliono evitare il rischio di precipitare dall’infanzia nell’esistenza arida, noiosa, insopportabile degli adulti, retti o scorretti che siano.

L’ultima camminata paragona la vecchia ad un albero scompigliato, quando il vento indolente muove le sue braccia fatte di tessuti e di rami, o ad un piccolo mulino affaticato.

Se le tre vecchie di Hohl sono o sembrano tutte esteriori, spaventose e repellenti, e nell’intimo si formano le parole estreme che le definiscono, in Walser «ogni forma esteriore si dissolve, il finora compreso diviene incomprensibile …io non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso. Nella soave luce d’amore credetti di poter capire, o di dover sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore»5.

Il vagabondare tutto il giorno è per Walser il modo migliore di passare il tempo, o, se si preferisce, di riempire il vuoto dell’esistenza, trasformandolo in occasione di incontri, scoperte e sorprese. Così il «Lust zum Wandern», il piacere di vagabondare, come lo definisce il traduttore Emilio Castellani, ha una lunga storia nella letteratura tedesca moderna, e rappresenta l’inquietudine, a volte pacata, a volta ricca di tensioni nervose, non solo tranquillamente razionali, dell’uomo in cerca di se stesso, nell’infinita meraviglia del mondo.

A sua volta il «Lust zum Fabulieren» ne è il controcanto più immediato, e produce una gioia sostanziosa, non effimera, e continuamente replicabile, nei paesi lacustri che costituiscono la geografia dei romanzi di Walser, vicina in questo alla geografia del romanticismo tedesco, rinnovano nelle sue istanze.

Ma torniamo per un momento al Sentiero notturno. L’uomo di Hohl, nel Sentiero notturno, sembra far parte del paesaggio, si muove lentamente, con circospezione, tuttavia più eretto, più naturale e fiero di come in un primo tempo si sarebbe potuto pensare» – ed è comunque oggetto di un sogno impossibile e incredibile; e le persone che intravede Walser sono «povere e grandi, piccole e colme di significato, leggiadre quanto modeste, buone quanto calde e amabili».

L’altro del racconto di Hohl6 ha raggiunto nei suoi lentissimi movimenti, nella sua completa astrazione dal mondo diurno e ancor più notturno «un tal grado di necessità interiore da non essere più capace di alcun movimento esteriore».

Quando si arriva al termine del Sentiero notturno, la tempesta delle parole stridule e sfiancanti sembra attenuarsi, un silenzio senza fondo ha ingoiato folgori e tuoni, e il paesaggio montano evidenzia crepe e fratture, mentre sulla membrana del vuoto galleggia un misterioso scampanio, leggero, argentino, liquido: un armento di ovini acquatici pascola sul lago.

La condensazione che abbrevia il discorso e lo rende più vivo e più sostenuto dà luogo, in Hohl, all’ellissi, un procedimento che indaga, senza dare nell’occhio, attraversando l’habitus esteriore del personaggio e del paesaggio, gli abissi del cuore, con un procedimento insieme manifesto e nascosto, dove l’emendare ha la stessa forza del distruggere.

Un margine d’ombra e di non detto sembra uscire dalle frasi di Hohl, che però non è altro che un procedimento espressivo di soppressione e di condensazione, un effetto di disastro – come lo definirebbe Blanchot – che sceglie, anzi impone la tensione, il potenziale contrastivo della narrazione ellittica, che non dissimula ma al contrario carica la frase delle ferite e lacerazioni della vita presente o passata, già compiuta e dunque intoccabile, irredimibile. Frasi e periodi lunghi e articolati, non laconici né incomprensibili, neanche quando l’autore definisce l’ultima vecchia, la spaventosa, come una bambola ridicola e sfatta, dai capelli arruffati e il viso sconvolto, che si reca al mercato a chieder l’elemosina, oppure dai pastori, che gliela negano oppure la sovvenzionano il meno possibile.

Come già accennato, le frasi sono cariche di un’intelligenza lacerata e discorde, a colloquio con se stessa e con l’enigma dell’altro, dell’osservatore per esempio dei frammenti di vita delle tre vecchie del villaggio di montagna, un luogo che insieme si nega e si esibisce nella sua bruttura.


NOTE

1 Paesaggi, in Sentiero notturno (nel seguito abbreviato in SN), pag.11, Casagrande editore, trad. di Giusi Valent.

2 Op cit., pag. 46.

3 Op. cit., pp.37-38.

4 Hohl, SN cit., pag. 88.

5 Robert Walser, La passeggiata, Adelphi, Milano 1976, p. 73.

6 Hohl, SN, cit., 26.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.