Contro la solitudine e sterilità delle creature

Considerazioni (relativamente) sparse e disseminate a partire da Simona Micali, Creature. La costruzione dell’immaginario postumano tra mutanti, alieni, esseri artificiali, Milano, Shake («cyberpunkline»), 2022, 256 pp.


QUASI UN TENTATIVO DI RECENSIONE.

di Luciano Curreri (ULiège, Traverses, Cipa)

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A chi milita nella terza schiera.

Di questo coraggioso, denso e intelligente volume esisteva già una versione inglese, et pour cause. In certi paesi anglofoni, o di cultura anglofona, muovendosi tra più dispiegate e meno separate distese di arte, letteratura e cinema (e non solo) e ispirandosi all’antropologia, alla psicologia e alla psicanalisi, alla sociologia e alla sociopolitica e alle scienze e alle rivoluzioni scientifiche tutte (almeno da Copernico a quel Darwin che è un vero filo rosso del saggio, con una decina di citazioni significative dall’inizio alla fine dello stesso), i critici della cultura e gli storici delle idee e dell’immaginario hanno sdoganato e legittimato da tempo questa tipologia di studi.

Qui da noi, in Italia, tali studi vanno ancora, in qualche modo, ‘giustificati’ e soprattutto quando entrano in Accademia, cioè all’Università; e in genere, come è noto, sono stati e sono rilegati, in fanzine anche e ormai storiche come «Yorick Fantasy Magazine», a cura di Massimo Tassi, che quest’anno festeggia 35 anni di vita – 1987-2022 – o in riviste di «letteratura popolare» come «Ilcorsaronero», che in circa 18 anni ha fatto uscire 33 numeri. E sono solo due esempi cui sono affezionato. Restano poi le iniziative di singoli, come quelle promosse e talora insieme curate, tra fantastico e fantascienza (e per la protofantascienza passando), da, soltanto per fare un altro paio di esempi, Fabrizio Foni e Claudio Gallo, mal recensite da chi in Accademia si è posto da sé a una specie di salvaguardia del Canone, con la C maiuscola; quel Canone che in tal caso in particolare ma anche in tanti altri è una sorta di Indice ‘laico’, encore que.

In questo senso è significativo che l’autrice suggerisca fin dall’inizio la (lunga e duplice) portata della sua «scommessa»: «Questo libro nasce da una doppia scommessa. La prima l’ho fatta con me stessa quasi vent’anni fa: riuscire a occuparmi di fantascienza come studiosa italiana, che lavora e fa ricerca in Italia. Sembrerà un obiettivo banale, ma in Italia non lo è affatto: nei paesi anglosassoni la letteratura e il cinema di fantascienza si studiano da almeno quarant’anni, anche nelle università e nelle collane accademiche più prestigiose; mentre in Italia l’unico campo della letteratura di genere che fino a qualche anno fa era ritenuto meritevole di considerazione “seria” era quello del giallo; e semmai il fantastico, genere praticato da alcuni scrittori eccentrici come Calvino, Buzzati e Landolfi, e studiato da diversi critici di rilievo, magari in una prospettiva psicanalitica o narratologica. La fantascienza assolutamente no, e infatti gli scrittori “seri” italiani magari l’hanno anche praticata, ma senza dirlo esplicitamente: Landolfi, Volponi, Morselli, Levi, Cassola e vari altri hanno scritto degli ottimi libri di fantascienza, ma mai esplicitamente presentati come tali. E di saggistica sulla fantascienza, specialmente quella letteraria, in italiano fino a pochi anni fa c’era poco e nulla – con l’eccezione di pochissimi editori illuminati o dichiaratamente anticonformisti (come quello che oggi ospita questo mio volume)».

Non c’è piaggeria in quest’ultima frase. Anzi, nella prospettiva aperta dalla stessa si va al di là del sempre più piccolo campo editoriale aperto alla sperimentazione e al rischio che ne può pure conseguire, in termini di facili etichettature (più che di rischi commerciali). Ecco, in questa prospettiva, ripeto, il libro di Simona Micali è un libro generoso che dice fin dall’inizio la verità: «generoso» (e «condiviso», partagé fin dalla dedica) perché, pur sapendo di andare (ancora) controcorrente, mira alla costruzione di un immaginario postumano la cui legittimazione critica (cioè fantascientifica) non è inferiore al riconoscimento (non snobistico) che l’umanità sempre avrebbe dovuto riservare ai famosi altri, ovvero anche a quelle altre creature che sono invece e sovente declinate come mostri e mutanti, alieni, esseri artificiali, per citare il sottotitolo; ed è «veritiero», il volume in questione, perché chiaramente indica nella solitudine e sterilità del mostro postumano la proiezione di una volontà di solitudine e sterilità che è già (e tutta) umana, nonostante gli apparentemente buoni propositi di tanta, attualissima e tautologica umanità… Perché? Ma perché questo è un libro che ha pure molto da dire sul mondo e sul mondo reale, nostro (e lo dico pensando a un testo di Maurizio Ferraris che apre un bel volume dedicato al cinema di fantascienza di qualche anno fa).

In effetti, prima che l’Europa cedesse un suo primato anche fantastico e mostruoso all’America del Nord in particolare, cioè a un’industria culturale più originalmente (giovanilmente, in senso anche positivo e reale) avventurosa e avveniristica e sempre più altalenante fra testi letterari e cinematografici in seno al Novecento, la giovanissima Mary Shelley, nel famoso ma poco letto Frankenstein (1818), ebbe a ‘partorire’ sostanzialmente da sola (anche perché era circondata da uomini impazienti di morire…) «una coppia formidabile di gemelli, destinati a segnare l’immaginario moderno: il dottor Frankenstein e la sua spaventosa Creatura. Il primo è una variante dell’eroe faustiano nel regno della scienza positiva, geniale e intraprendente, ma molto carente quanto a umanità e ironia; il secondo è il mostro classico in versione romantica, trasformato cioè nel reietto, il maledetto da Dio e dagli uomini, che si vota al Male per disperazione, la cui indegnità è segnalata simbolicamente fin dalla mancanza di un nome proprio».

La disperazione contro la quale noi tutte e tutti lottiamo (ancora) tutta una vita è quella di essere Creature e non necessariamente Creatori, nonostante il sistema ci spinga a pensare il contrario ogni giorno, mutando la libertà dell’immaginazione e dell’invenzione (al limite anche dell’ansia di totalità) dell’umanità in accelerata e autoprodotta schiavitù di creatori a scartamento ridotto e tuttavia spendibili e visibili per un lustro o due (ma anche solo per qualche mese, il più delle volte). Se il problema del Creatore è restare, quello delle creature è meno avido, bramoso.

Alla fine della fiera (o anche alla fine tout court, con tutte le sue icone, e penso a Tagliapietra citato da Micali), a molte/i di noi basterebbe forse essere una nominata creatura, riconosciuta non soltanto dai buoni (sic) uffici anagrafici di interposta e altolocata, magistrale ‘presenza’: a molte/i di noi basterebbe essere una donna o un uomo, anche dalla Bibbia in su (se volete), o magari e pure un meno scontato mix dei due sessi, un mélange o altro ancora, ma senza dover sentire cotidie sulla schiena la supponenza (snobistica) di un Creatore, divino e/o umano, che ci perseguita dal mattino alla sera e reclama sempre (anche con cattivo gusto ma con senso dello spettacolo in anticipo sui tempi via il rilievo del corpo dato in pasto, del sangue in cui placare la sete… del sacrificio) la sua paternità e il suo diritto su di noi, trasformandoci di fatto o in più o meno docili schiave/i o in ribelli, o anche in zombies tutti uguali o in assassini seriali la cui ‘via crucis’ dovrebbe avere come più felice esito la morte, per l’appunto, del Creatore, non della Creatura inverata in una vita di solitudine e sterilità peggiore di quella che l’ha messa al mondo. Anche perché al «trionfo della morte» del Creatore e della Creatura, che ha pure una certa e significativa tradizione nella modernità otto-novecentesca (anche nostrana, italiana), si è finito per preferire l’immagine (e l’idea) dell’«ultimo uomo» e/o del «postumano», et pour cause.

Certo, c’è ancora parecchio Romanticismo con la emme maiuscola in questo tipo di elezione individuale, non solo perché si può ancora partire da Mary Shelley e dal suo The Last Man (1826), ma anche perché si può approdare all’immagine di un sopravvissuto che, di fronte alla moltiplicazione (alla maggioranza) dei mostri (vampiri ma di fatto zombies), uccide come Creatura/Creatore le creature altre e finisce per diventare «l’Altro minaccioso e distruttivo», ovvero la leggenda (e la cattiva coscienza) della specie umana, ormai scomparsa, cui appartiene: penso a I am legend di Richard Matheson, del 1954, se non erro. Ma per fortuna c’è una donna, Ruth, che è simile e dissimile all’eroe – perché fa «parte di un gruppo di mutanti che si sono adattati e stanno ricostruendo una società» – e che gli fa capire che «non ha più alcun senso difendere la priorità dell’umano se non c’è più l’umanità: è lui, ora, “quello anormale”, perché “la normalità [è] un concetto legato alla maggioranza”».

Interessante, in tal senso, la manipolazione operata dall’«adattamento hollywoodiano del 2007 a opera di Francis Lawrence», che fa sì che il protagonista trovi «una cura, grazie alla quale salva la donna – perfettamente umana – che è arrivata a casa sua»: «e nel finale la cura viene consegnata ai sopravvissuti di una base militare in Vermont. Insomma, la specie umana ne viene fuori malconcia, ma si salva in extremis, ed è pronta a riprendere il controllo del pianeta».

Simona Micali, citata qui sopra a più riprese, evidenzia bene questa apparentemente prospettica parabola positiva (di fatto uguale a sé stessa): lo fa sia nel testo che nelle note e in una di queste fa pure valere le osservazioni consegnate da Slavoj Žižek in Vivere alla fine dei tempi (2011), sottolineando con brio quanto tale «declinazione ottimista e rassicurante» garantisca «al film un ottimo e duraturo successo di pubblico».

A me verrebbe solo da aggiungere una considerazione di Enzo Traverso, dal suo Rivoluzione (2021) ma non solo. In effetti, un po’ come le creature di cui abbiamo cercato rapidamente di dire in questo breve e birichino articolo (che è quasi un tentativo di recensione, non so quanto riuscito), le rivoluzioni non sono più nominate come tali e spesso sono battezzate altrimenti, da altri e paternalistici media occidentali, americani in testa, tra politologia plaudente tautologiche rinascite e riferimenti dubbi a un passato rivoluzionario che in quel passato si vuole configgere (non certo «realizzare» come «pensieri del passato», in seno al famoso «sogno di una cosa»): per fare un esempio solo ma significativo, citerei la «primavera araba», tra fine 2010 e inizio 2011. E vi lascerei immaginare…


POSTILLA

Questo lavoro di Simona Micali mi ha fatto venire in mente altri lavori che ho apprezzato in un passato più o meno recente. Ne cito solo alcuni seguendo lo scheletro del mio pezzo: Fabrizio Foni, Alla fiera dei mostri. Racconti pulp, orrori e arcane fantasticherie nelle riviste italiane 1899-1932, prefazione di Luca Crovi, Postfazione di Claudio Gallo, Latina, Tunué, 2007; Luca Bandirali, Enrico Terrone, Nell’occhio, nel cielo. Teoria e storia del cinema di fantascienza, preceduto da L’ontologia degli ET di Maurizio Ferraris, Torino, Lindau, 2008; Dominique Lecourt, Prométhée, Faust, Frankenstein. Fondements imaginaires de l’éthique, Le Plessis-Robinson, Synthélabo («Les Empêcheurs de penser en rond»), 1996; Jon Turney, Frankenstein’s Footsteps. Science, Genetics and Popular Culture, New Haven/London, Yale University Press, 1998 (trad. it. di Rosaria Trovato, Torino, Edizioni di Comunità, 2000); Danilo Arona, Selene Pascarella, Giuliano Santoro, L’alba degli zombie. Voci dall’Apocalisse: il cinema di George Romero, con un’intervista esclusiva a George Romero a cura di Paolo Zelati, Roma, Gargoyle, 2011; Zoos humains. De la Vénus hottentote aux reality shows, sous la direction de Nicolas Bancel, Pascal Blanchard, Gilles Boëtsch, Éric Deroo, Sandrine Lemaire, Paris, La Découverte, 2002 (trad. it. di Stefania De Petris, Verona, Ombre corte, 2003); Mike Davis, Ecology of fear. Los Angeles and the Imagination of Disaster, New York, Vintage, 1999 (specie il capitolo sette, che ho letto in francese, nella traduzione di Arnaud Pouillot: Mike Davis, Au-delà de Blade Runner. Los Angeles et l’imagination du désastre, Paris, Allia, 2006); Christian Chelebourg, Les écofictions. Mythologies de la fin du monde, Bruxelles, Les Impressions Nouvelles («Réflexion faites»), 2012.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.