“Chi sei tu?”

(Di seguito pubblichiamo il discorso introduttivo di Vittorino Curci letto durante l’incontro organizzato dalla Bottega della poesia nell’ambito dei Dialoghi di Trani 2022)


“CHI SEI TU?”

Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo.

Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò

di Vittorino Curci

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La poetessa tedesca Marion Poschmann ha dichiarato che il suo libro di poesie del 2004 Grund zu Schafen (Terreno per pecore) in cui compaiono molti elementi naturali (alberi, piante, animali) è stato composto mentre abitava vicino a un cantiere. “Di quel tempo”, dice, “ricordo soprattutto il rumore del martello pneumatico e la vista delle travi di acciaio”. Poschmann dice che in quel periodo della sua vita cercava “di immettere nel presente qualcosa di assente”. Sì, la poesia consente di fare questo tipo di operazioni e spesso si spinge anche oltre. Ci sono parole comuni per esempio che non hanno lo stesso significato per tutti. Un giovane che in primavera è felicemente innamorato non penserà mai che aprile sia il più crudele dei mesi, come diceva Eliot. E c’è anche il caso contrario, e cioè che parole diverse dicano la stessa cosa, come accade in questi versi di un altro poeta tedesco, Oswald Wiener (1935-2021): “Il mio colore preferito è il verde, il tuo il viola; ci piace lo stesso colore perché, se potessimo confrontare le nostre sensazioni, il mio verde sarebbe il tuo viola. Ma per termine di confronto abbiamo solo la lingua”.

Ecco: proprio perché come termine di confronto abbiamo solo la lingua, partiamo da qui, dall’esperienza concreta che ognuno di noi fa della lingua. In questa esperienza noi attribuiamo continuamente alle parole significati che vanno ben oltre le definizioni che troviamo in un vocabolario. Quando Paul Celan dice che “solo abbiamo un incontro / con singole parole” esprime un concetto potentissimo: l’importanza che hanno per noi le parole già nel momento in cui le scegliamo. Una cosa che spesso dimentichiamo è che il nostro lessico di base è formato da parole spaziose che accolgono un gran numero di significati e sfumature. Col passare del tempo queste parole si arricchiscono sempre più, non solo per le nostre esperienze di vita ma anche grazie alla letteratura. Restando a Celan, c’è un verso di una sua famosissima poesia, “Todesfuge” (Fuga dalla morte), che dice: “così avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto”. Una tomba nelle nubi può sembrare un’assurdità. Ma se consideriamo che i genitori del poeta furono uccisi dai nazisti in un forno crematorio, possiamo capirne benissimo il senso. Per Celan le nuvole non significano la stessa cosa che significano per noi.

Faccio un altro esempio con le parole “grasso” e “feltro”. A molti di noi queste parole sicuramente non dicono nulla. Ebbene, vi racconto una scena di Opera senza autore, un film del 2018 di Florian Henckel von Donnersmarck (il regista di Le vite degli altri).

Il film racconta di un pittore nato e cresciuto nella DDR il quale, nel 1961, riesce a rifugiarsi nella Repubblica Federale Tedesca. Riducendo all’osso la trama, questo pittore sceglie di andare a vivere a Düsseldorf dove frequenta l’Accademia di belle arti. Non ci vuole molto a cogliere dietro questo personaggio la figura di Gerhard Richter e nel suo insegnante all’Accademia Josef Beuys. Un giorno il maestro va a vedere le opere dell’allievo che è ancora in una fase di ricerca e non ha ancora trovato il suo linguaggio. Dopo aver dato un’occhiata ai diversi lavori distribuiti nella stanza, dice:

«Durante la guerra ero telegrafista della Luftwaffe. Ero veramente pessimo come radiotelegrafista e il mio pilota era un pessimo pilota: appena un mese di addestramento. Alla nostra seconda missione siamo stati abbattuti sopra alla Crimea. Il pilota è morto all’istante. Io invece sono stato estratto dalla carcassa da alcuni nomadi tartari con delle ustioni che normalmente sarebbero state letali. I contadini, proprio quei contadini che avrei dovuto bombardare, mi hanno tirato fuori e mi hanno curato con quello che avevano a disposizione. Hanno massaggiato le mie ferite con il grasso e mi hanno avvolto in coperte di feltro. Sono rimasto un anno con loro. Poi mi sono consegnato come prigioniero agli americani. Quando mi chiedo che cosa so veramente, che cosa ho realmente sperimentato nella vita, che cosa posso affermare senza alcun dubbio, la risposta è quel grasso sulla mia pelle. Ecco l’origine del grasso e del feltro. Quando gli altri mi raccontano dell’amore verso le donne, verso i figli, o del sesso, riesco a capire che cosa intendono solo perché ho sentito quel feltro e quel grasso sulla mia pelle. Prima non avevo vissuto nulla. La mia infanzia è stata felice e protetta: un paio di ceffoni, non di più. I miei insegnanti mi volevano bene. Volevo fare il commerciante come mio padre. Non avevo un talento artistico. E poi da allora non è successo granché e sono sempre stato felice. L’ultima fase della guerra l’ho passata in un lazzaretto circondato da infermiere gentili, molto gentili. E poi ho avuto un successo piuttosto rapido e mi hanno dato questa cattedra. Ma il grasso e il feltro mi sono penetrati dentro, profondamente. Proprio come Cartesio ha compreso di esistere: “Penso, dunque sono”. Lui metteva in dubbio qualunque cosa. Tutto, tutto poteva essere un’illusione, un abbaglio, un’immaginazione. Ma poi ha capito che c’era qualcosa che generava questi pensieri e che di conseguenza qualcosa doveva pur esistere. E questo qualcosa, sai come lo chiamò? Lo chiamò “io”… Ma chi sei tu? Che cosa sei tu?» Il maestro dà ancora un’occhiata alle opere sparse nella stanza e, indicandole, dice: «Tu, non sei questo!»

In queste parole io trovo una rappresentazione perfetta di quell’arco millenario che unisce il pensiero occidentale e che va dal “conosci te stesso” degli antichi greci al “diventa ciò che sei” di Nietzsche.

“Chi sei tu?” Nessun artista può sfuggire alla perentorietà di questa domanda. Il 5 novembre 1942 Cesare Pavese scriveva nel suo diario che “la vita non è ricerca di nuove esperienze, ma di se stessi. Scoperto il proprio strato fondamentale, ci si accorge che esso combacia con il proprio destino e si trova pace”. Pace. “Pensate come è raro questo termine in Pavese!” dice Milo De Angelis. E ha ragione.

Io non ho dubbi che un poeta diventa ciò che è nel momento in cui trova se stesso e, conseguentemente, le sue parole. E il fatto incredibile è che, in quel momento, riesce a comprendere veramente anche gli altri – ovvero, come diceva Oswald Wiener, l’esatta corrispondenza tra “il mio verde” e “tuo viola”.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.