ARTHUR GORDON PYM: UN ALTRO LIBRO PARALLELO? Un esperimento a puntate stagionali

ARTHUR GORDON PYM: UN ALTRO LIBRO PARALLELO?

Un esperimento a puntate stagionali

[estate 2022: bozza di un supposto primo capitolo (I) corrispondente alla «Preface» di A. Gordon Pym di E. A. Poe]

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di Luciano Curreri* (ULIEGE, TRAVERSES, CIPA)

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I

Prefazione

Sono «tornato» a confrontarmi con la letteratura americana ottocentesca «alcuni mesi or sono, dopo un’incredibile serie» (RC, p. 3)1 di letture delle collodiane Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino (1881 e 1883) e, ancor più, dei loro infiniti dintorni, cioè di quell’«altrove», di quei «mari del Sud» (ibid.), che sanno anche essere le “pinocchiate”, i testi che ne discendono in diverse forme narrative (salgariane…) e saggistiche (e non solo) lungo tutto il Novecento, e già dalla fine del XIX secolo e sino ai primi decenni del Duemila2.

Mi sovvenni quasi «per caso» d’aver letto, da cucciolo, Le avventure di Gordon Pym (1837 e 1838) di Edgar Allan Poe e insieme ricordai che, «tra i gentiluomini» incrociati, da grande, come autori di “pinocchiate”, avevo apprezzato oltremodo quel «certo signor» Manganelli, di cui ricorre il centenario della nascita nel 2022 da cui scrivo e che firma Pinocchio: un libro parallelo (1977). Così, mi misi in testa, senza «temere l’incredulità» altrui (RC, pp. 3 e 4), di provare a fare con Pym quello che Manganelli aveva fatto con Pinocchio, ma con una certa differenza: volevo entrare nella storia di Pym più di quanto Giorgio Manganelli fosse entrato in quella di Pinocchio; volevo andare al di là di quella specie di autobiografismo «clandestino», che si affidava a un «semplice pezzo di legno» (GM, p. 13)3 proprio per ‘non-dirsi’ e poi provare invece a dire, in filigrana, quasi un mancato appuntamento con la Storia, da cui discendeva quel disporsi orizzontalmente ontologico di Manganelli, che avanzava via via per categorie aprioristiche e pre-storiche (questo me l’ha detto un amico fidato, esperto, che non cito per pudore: pudore suo, non mio, ovvio).

Muovere sulla scia del lavoro di Giorgio Manganelli, dans le sillage di Pinocchio: un libro parallelo, ma pensare a seguire il Pym di Poe non è scontato, perché è vero che il volume ora citato è iper-manganelliano ma è figlio di un’ontologia parecchio orizzontale anche quando si reca all’Inferno e finisce per stare sempre a galla, come ‘cubo-libro-legno’: ovvero anche quando «una parola violentemente scardina i silenzi acquamarini del profondo, e ne desta squame di pesci, squali, scheletri di navi, coralli, fosforescenze. Due, tre parole imparentate formano un viluppo di disegni e fragori, che nulla varrà a sciogliere» (GM, p. 19).

Io, invece, volevo e voglio che una mia esperienza privata diventasse e diventi quasi un’esperienza paradigmatica. Più che sulla orizzontalità di Manganelli e, in un certo senso, dello stesso Pym, nel suo nascondiglio quanto meno, cerco di puntare su una verticalità che è materiale plurale e stratificato immaginario, inseguendo quell’uomo che Gaston Bachelard, già particolare lettore di Poe4, in L’air et les songes (1943)5, diceva che, proprio perché uomo, non poteva risolversi a vivere orizzontalmente. Ma vivere che cosa? Direi la verticalità di un’avventura che è stata una stagione storica, un vissuto socio-politico, un immaginario del e in movimento, magari un insieme ritmato di miti generazionali, forse filtrati da una educazione sentimental-tipografica (di cui ho già detto un po’ nei racconti di A ciascuno i suoi morti, nel 20106), disillusamente tesa ma non distesa (quanto meno non del tutto) sull’ultima faglia meccanico-umanistica prima della transizione al tecnocapitalismo: forse una ‘stagione di fede assoluta’, un ‘gancio cielo’ alla Kareem Abdul Jabbar… Ecco, credo quasi di essermi ritrovato un po’ come Rob Brown-Jamal Wallace quando Sean Connery-William Forrester, nel film di Gus Van Sant del 2000, Finding Forrester per l’appunto, gli mette sotto gli occhi un pezzo e gli dice di cominciare a copiarlo fino a che non troverà le sue parole e scriverà il suo racconto, la sua storia, la sua narrativa.

Anzi, posso confessare tranquillamente (anche per l’uso delle virgolette e dei rinvii in nota, che evadono il plagio) che sto già facendo così, e fin dal mio incipit, qui sopra, che ricalca ma stralcia e riscrive quello della «Preface» firmata da Pym nella traduzione italiana di Roberto Cagliero, che la battezza «Introduzione»: «Tornato negli Stati Uniti alcuni mesi or sono, dopo un’incredibile serie di avventure nei mari del Sud e altrove, di cui viene fornito un resoconto nelle pagine che seguono, feci per caso la conoscenza di alcuni gentiluomini di Richmond […] Tra i gentiluomini della Virginia che mostrarono grande interesse […] vi era un certo signor Poe […] New York, luglio 1838, A.G. PYM» (RC, pp. 3, 4 e 5).

Sappiate che, proprio come nella «Preface» ora citata, anche in questo mio incipit di «esperimento a puntate stagionali» siamo almeno in due… Sappiate che raccontarla bene, questa storia di essere due, è impossibile, ma non importa (e questo «non importa», anzi tutta l’ultima frase, è un omaggio non virgolettato e non un segno del connotato ‘menefreghismo’ di ieri, d’oggidì e domani).

Sappiate che c’è uno che vive le avventure e che è un autore solo presunto, perché manca di «fiducia» verso le sue «capacità di scrittore» (RC, p. 3), e c’è un altro, un autore presuntuosissimo, che ormai un po’ come fanno tanti gialloneri giornalisti del tempo nostro non chiede neppure «il permesso di raccontare con parole sue» anche soltanto una «parte delle avventure» (ibid.) di chi le ha vissute: entra nella vita, nelle vicende, nelle peripezie dell’ormai più che presunto autore, un po’ come potrebbe fare una vecchia «baleniera» con «tutte le vele» issate, cioè muovendo «in direzione quasi perpendicolare» (RC, p. 12), ben più che parallelamente; lo investe, ecco tutto, e non lo segue certo elegantemente, in parallelo. E il risultato è che quasi sempre l’autore presunto si sente prigioniero di questo tentativo di narrare qualcosa che «il pubblico non [è] affatto disposto a prendere come un romanzo» (RC, p. 4).

Che fare?

Dobbiamo almeno suggerire che ci stiamo già allontando dall’idea manganelliana di libro parallelo e che le poche righe precedenti non hanno comunque la pretesa di introdurre il librino che avete tra le mani anche se stanno sotto il titolo di «Preface» («Préface» in una maledetta e bellissima traduzione francese d’antan, mentre da noi, in Italia, si è spesso usato «Introduzione», «Nota introduttiva», ma anche «Avvertimento»…).

E poi?

E poi possiamo forse proporre un’ipotesi di dialogo fra un autore solo presunto (tondo) e un presuntuosissimo autore (corsivo).

Dialogo fra chi?

Con quell’autore che si presume sia io e quell’autore presuntuosissimo che ogni autore rischia di essere anche se non dice «io» e fa firmare al personaggio la «Preface» di cui sopra ho detto quel poco che so e scritto quel poco che potevo riscrivere, come se si trattasse di una cover, capisci?

No, ma non mi importa. Piuttosto: come fa l’autore presuntuosissimo, se non dice «io», a verbalizzare?

A «verbalizzare»?

Voglio dire: a fare cose, a vedere gente… a verbizzarsi, a darsi e dirsi nella vita, nelle avventure, nei viaggi, nell’azione. Non crederà mica di essere in principio? Un verbo col soggetto sciolto, come l’aspirina nell’acqua? Se sì, capisco perché lo si chiami «autore presuntuosissimo». Si prende per il creatore, anzi il Creatore. Certo che a te, «autore solo presunto», ma chi te lo fa fare di provare a dialogare con un… con uno… con uno come me?!

L’hai capito, alfine! Altro che in principio!

Chi osa indirizzarmi la parola? La parola sono io, una parola senza io: una parola che sta su da sola (era la parola? – un dubbio!).

Sono quello di prima, l’«autore solo presunto», non si preoccupi, e, mi ripeto, sono di ritorno da «un’incredibile serie» (RC, p. 3) di letture di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, dei loro infiniti dintorni, cioè delle «pinocchiate» e di un «altrove» (ibid.) che più altrove non si può ma che al burattino, personaggio di legno, nel bene e nel male, si rifa.

Perché?

Perché è quest’ultimo a sfidarci ancora e ancora e non l’ordinario ragazzino in carne e ossa del più triste happy end della storia della letteratura italiana. Sa quella cosa che si dice, che ciascun uomo ha la sua croce… Ebbene, si potrebbe anche dire che ogni uomo ha il suo pezzo di legno che, sotto forma di burattino, vita natural durante, lo sfida.

Ma chi lo dice?

Lo si dice. Lo dico anch’io.

Ripeto la domanda: chi lo dice?

Direi di farlo dire, se proprio dobbiamo farlo dire a qualcuno, al già citato e mitico Giorgio Manganelli.

Mitico? Vorrà dire falsamente «presuntuosissimo»! Cioè un «autore solo presunto», come Lei, che ha tentato di mettersi al mio livello e – per farsi bello e avere meno paura in un dialogo alla pari (si fa per dire, ché io sono assolutamente superlativo e non ammetto e non temo paragoni di sorta) – tirare in ballo questo Manganelli! Diciamolo, suvvia!

E diciamolo… Ma per me era bravino forte, Manganelli!

Che le garba, lo s’è capito! Ma dove l’ha bofonchiata ’sta storia che conta più il burattino del ragazzino?

Più che bofonchiarla, l’ha scritta.

Ripeto: dove?

Lungo una sua «pinocchiata» critica – la narrazione di un saggio, lo dico per la suspence metodologica dedicata per l’appunto a Pinocchio: un libro parallelo, apparsa nel 1977, ormai quarantacinque anni fa, per Einaudi (l’Einaudi ancora dei «migliori anni») lo dico quasi in verità, comunque con affetto.

Ancora un Pinocchio! (Einaudi, chi era costui? Forse un probabilista d’umore alterno che mangiava, quando se ne ricordava, pescando nel piatto degli altri?) – Ancora un Pinocchio! Ma allora cosa c’azzecca la verità e poi, qui sopra, nel titolo, e anche dopo, come ci entra uno che si chiama Pym? Fino ad ora abbiamo solo sentito parlare di Pinocchio, mi pare. E passi! È italiano e ci sta bene. Ma allora perché mettere Pym nel titolo? Non è che si è sbagliato, questo Curreri (ma chi è?!) e voleva scrivere di Pin, quel bel bambino ligure, orfano anche lui di madre, padre persosi in mare, ché ai marinai capita, messo fuori da Italo Calvino, nel 1947, tre quarti di secolo fa… quello sì che è un bambino adottato da gente seria, che lo tiene per mano di notte, anche quando di notte ci si allontana, pure per sparare (ma non stiamo a cercare il pelo nell’uovo, il contesto era quello che era e all’epoca si sparava).

No, guardi, il mio ragazzo si chiama proprio Pym.

Peccato, perché Pin è un po’ come Pinocchio, è un ribelle, un ingenuo e maleducato saltimbanco… Certo che a fare quel due più due che è uguale a quattro, Lei non ce la fa proprio! Per spararle grosse, tipo il due più due che è uguale a cinque, bisogna avere la patente (come si diceva dalle nostre parti) o, che so, oggi come oggi, una tessera di serio partito, una carta di credito come si deve…

Sarà!

Sarà sì. Ma a chi vuole che interessi un «pezzo di legno» che sarebbe una specie di reliquia cui attaccarsi come Pym s’attacca alla «canoa» quando questa precipita «nell’abbraccio della cataratta» (RC, p. 190)…

Ma allora Lei ne sa davvero qualcosa…

E la «figura umana velata, di proporzioni ben più vaste di qualsiasi essere umano» con «il colore della pelle […] del bianco assoluto della neve» (ibid.) che cosa sarebbe? Il biancore della Fata e della sua casa?

Accipicchia!

Ma la smetta, Curreri! L’ho smascherata subito! Ma cosa crede!? Lei è quel «teppista» del «Pinocchio in camicia nera»!7 Lavoro serio, d’accordo, documentato, ma non poteva farmi un Pinocchio-Pin, un’antologia di «pinocchiate» della Resistenza? Ma cosa vuole farci della sua vita, senza un’identità politicamente e magari culturalmente corretta? E adesso, invece di farmi un bel ‘da Pinocchio a Pin’, dal 1881 al 1947, Lei va all’indietro e mi pesca The narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket, del 1837, di questo americano strano, anche un po’ razzista, quasi sempre ubriaco, per rileggerlo un po’ come Manganelli ha fatto nel 1977 con Le avventure di Pinocchio di quell’italiano provetto che era il Lorenzini in arte Collodi? E poi chi Le assicura che il librino Suo (si fa per dire) non le esca più perpendicolare che parallelo! È per questo che dopo «parallelo», per pararsi il parabile (immagino, anzi lo so), ha messo un punto interrogativo? Insomma chi Le attesta che Lei non faccia la fine dei gialloneri giornalisti? Ma questi ultimi, poi, ma son cinesi, son africani…? Ma mi è razzista anche Lei…?

Sigh… Sigh…

Lasci stare il Signore. Lui non c’entra.

Sospiravo.

Ma cosa mi fa! Il fumetto?

Sob… Sob…

E adesso mi singhiozza? Suvvia, Curreri, possibile che Lei abbia sempre quest’ansia di essere rassicurato?! Ansia per ansia, tanto vale si tenga l’ansia di comunicare, che è molto più in linea, mi sembra, con la stramba idea che Le è venuta questa volta. Confessi la sua colpa e facciamola finita, La prego.

Lei dice.

Dico, dico, ma cerchi solo di farsi capire, per favore. Giuro che non la interrompo più ma Lei si sforzi, per favore. Sappia che volevo solo scuoterLa. Temevo e temo ancora che Lei ne abbia bisogno ma mi taccio. Promesso.

Sono ormai prigioniero di questo tentativo di narrare qualcosa che «il pubblico non [è] affatto disposto a prendere come un romanzo» (RC, p. 4). La «favola» (EV, p. 5), anche e proprio nell’uso deteriore che si fa di questo termine, finisco per essere io. Certo, se fossi nato ai piani alti si tratterebbe di ‘intuizione’, forse e finanche di laica ‘invenzione’ o di sacra ‘creazione’. Per alcuni basta un ‘credo’, poco importa se ‘scientifico’ o ‘misterico’, e hanno subito accesso a un ‘credito’. Io ho dovuto chiedere il «permesso di raccontare con parole [altrui] la prima parte delle mie avventure» (RC, p. 4) di giovane lettore a un editore che non ne voleva sapere che io volgessi una mia esperienza privata in un’esperienza paradigmatica. In una lettera…

[Lo dico piano, in doppia parentesi, ma vorrei gridarlo: (Ma chi sei?, ma chi ti credi di essere? Il Manganelli redivivo o il grande parallelista, per cui tutto era sognato, tutto era documentato? Il Manga cubista remixato con il Vittorini traduttore del Gordon Pym di quel genio di Edgar Allan Poe? E poi, suvvia, Giorgio Manganelli, quando ha scritto Pinocchio: un libro parallelo, non è mica stato ‘autobiografico’... e nemmeno in forma «clandestina», come dice Lei)]

In una lettera, dicevo, ebbi la forza di ribadire, sfruttando una pausa della baia, che quello di Giorgio Manganelli era un autobiografismo «clandestino» proprio perché, ripeto, si affidava a un «semplice pezzo di legno» (GM, p. 13) e non al ragazzino delle mamme italiane, al figlio della lupa, et cetera.

[Ma perché?!, boia d’un mondo!, ma perché?!]

Perché? Perché la resurrezione è una cosa seria, troppo seria, e per pochi. Essere crocefissi è il nostro destino. A una canoa, se non a una croce, magari a un più semplice tavolino di lavoro, da ciabattino o da badilante della penna, o magari a una appena più monda scrivania, per appoggiarci un po’ d’inchiosto e caratteri nel dovuto modo.

[E questo, purtroppo, un po’ è vero…]

Io sono cosciente della difficoltà di misurarmi con Manganelli, in codesta maniera per di più, e tuttavia, come portatore mezzo sano, mezzo malato, di destino siffatto, o quanto meno non così dissimile, ho dovuto provare a rileggere, tra racconto, saggio e traduzione, un altro libro-fondatore del ‘parco giochi’ immaginario di lettori nati lungo gli anni Sessanta, ma già senza boom e senza troppi fiori e canzoni, in quartieri dormitorio, e nondimeno via via dotati di edicole-librerie, di biblioteche e piscine comunali e scuole medie (quelle che nel mezzo sta la virtù per tutte e tutti).

Lettori non saputi, con pulci da spulciare ma senza un Pulci a colazione, eppure in grado, in qualche modo, di intuire un «libro parallelo» mentre tentavano di confrontarsi col libro «già esistente», che stavano leggendo. Certo, non per ‘sfavoleggiarlo’ altrimenti via quella fantasia che veniva sbandierata in una scuola che forse era ancora troppo foriera di crociana ‘purezza’, né per farne una specie di “gordonpymata” sull’esempio delle “pinocchiate”, e neanche per svelarne il mistero, come volle fare Jules Verne in Le Sphinx des glaces, nel 1897, sessant’anni dopo l’uscita del volume di Edgar Allan Poe, The narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket, del 1837.

[Non ho capito tutto ma forse c’è del buono…]

C’era e c’è l’inizio di un libro, bello, di un altro autore sempre abbastanza ubriaco anche lui (anche al Salone del Libro: scriveva un racconto sulla lavagna e beveva birra, beveva e scriveva, ‘pisciava scrittura’, mi viene da dire in seno a rispetto: è un’immagine, suvvia!). Lo cito a memoria, non me lo ricordo bene ma è carino, sociologicamente divino e mi pare che faccia un po’ al caso mio, che carino e divino non sono. Lo metto comunque tra virgolette: «non so sciare, non so giocare a tennis, nuoto così così ma ho il senso della frase».

[E allora?…]

Ecco, per me il libro era ed è una piscina. E che tu lo voglia o no, imparerai a nuotare, come imparerai a leggere; perché una volta c’era ancora chi aveva il coraggio di buttarti dentro la piscina e il libro. Ai nostri giorni, in un mondo liquido, tutto dovrebbe essere più facile e invece si può quasi solo far finta di avere imparato a leggere e a nuotare, in corsie predestinate a tale messa in scena: un leggiucchiare e uno stare a galla sempre più uniformato, che non ha niente del coraggio del corpo e dell’intelletto che più di mezzo secolo fa la società italiana chiedeva, forse un po’ meno distrattamente, ai suoi figli. E lo chiedeva anche ai più diseredati, periferici, lontani dal centro e dalle attenzioni delle parche e silenziose «olimpiadi» che vi si svolgevano per élites sempre più sterili e paurose: quelle che oggi ci danno in pasto una più che insipida cultura, perché il sale della critica non rientra più – neanche cum grano salis – nella dieta nostrana.


*Luciano Curreri (1966) ha provato — ci prega di scrivere proprio così: è una persona semplice — a formarsi, insegnare e fare ricerca all’Università di Torino, Savoie, Grenoble Alpes e Firenze. Dal 2002 è professore di Lingua e letteratura italiana all’Université de Liège, dove è diventato ordinario nel 2008. Dopo aver partecipato alla prima edizione del famoso manuale di Baldi-Zaccaria, ha cercato di essere sempre più attivo come saggista e narratore. Tentiamo di ricordare (o dimenticare): Le farfalle di Madrid. L’antimonio, i narratori italiani e la guerra civile spagnola (2007, tr. sp. 2009), D’Annunzio come personaggio (2008), Pinocchio in camicia nera (2008, 2011), L’elmo e la rivolta (2011, con Giuseppe Palumbo), L’Europa vista da Istanbul. Mimesis e la ricostruzione intellettuale di Auerbach (2012, 2014), Solo sei parole per Sciascia (2015), Play it again, Pinocchio (2017), La Comune di Parigi e l’Europa della Comunità? (2019), Tutto quello che non avreste mai voluto leggere – o rileggere – sul fotoromanzo (2021, con Michel Delville e Palumbo), Il mondo come teatro. Storia e storie nelle narrazioni di Ernesto Ferrero  (2021), Cent’anni di Mario Rigoni Stern. Intergenerazionali consegne del testimone tra saggio e racconto (2021, con Alex Bardascino); pare che, tra le sue ultime prove narrative, ce ne siano un paio di cui è straordinariamente fiero, Volevo scrivere un’altra cosa (2019), candidato da Alessandro Barbero allo Strega nel 2020, e Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine (2021), apparso in una collana di Filippo La Porta. Su RAI 3 ha animato (riempiendo lo schermo) alcune puntate di «Il Tempo e la Storia» (2013-2016) e «Passato e presente» (2019-2020), dedicate a «cose di cui ha tentato di sapere qualcosina»: Spartaco, Salgari, l’Italia in miniera, Pinocchio e le pinocchiate, Pastrone, la Commune de Paris. Ha finito financo per partecipare a film-documentari pluripremiati e nel 2020 gli è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia per la promozione della cultura italiana (ha detto: «sono birichino, comunardo ma anche patriotto [scrive proprio così, ancora ai nostri giorni, non sappiamo il perché]»). Ha curato con trasporto edizioni di Collodi, Gualdo, Salgari, Dessì, Baravalle e tradotto dal francese all’italiano — Antologia essenziale dei poeti del Belgio francofono. Un esperimento (1835-2015) (2019) — e dall’italiano al francese: Raul Rossetti, Échine de verre (2013; Schiena di vetro, 1981) — ci prega di fermarci qui e, soprattutto, di fermarlo, qualora possibile, un de ces quatre


NOTE

1 Con RC indico la trad. It. di Roberto Cagliero, che è alla base di Edgar Allan Poe, Il racconto di Arthur Gordon Pym, Introduzione di Francesco Binni, Traduzione, premessa e note di Roberto Cagliero, Milano, Grazanti («I grandi libri»), 1990 e 1993; con EV quella di Elio Vittorini, che è in Edgar Allan Poe, Le avventure di Gordon Pym, Traduzione di Elio Vittorini, Introduzione di Maurizio Vitta, Milano, Mondadori («Oscar»), 1981.

2 Si dia un’occhiata almeno al panorama offerto da Luciano Curreri, Play it again, Pinocchio. Saggi per una storia delle “pinocchiate”, Bergamo, Moretti&Vitali, 2017.

3 Con GM indico Giorgio Manganelli, Pinocchio: un libro parallelo, Torino, Einaudi («Super Coralli Nuova Serie»), 1977 e Milano, Adelphi («Biblioteca»), 2002.

4 Si scorra Luciano Curreri, Tre brevi paragrafi discontinui per una fenomenologia plurale del libro parallelo. Arthur Gordon Pym/Edgar Allan Poe e Gaston Bachelard, «Ermeneutica letteraria», XI, 2015, pp. 95-99.

5 Gaston Bachelard, L’air et les songes. Essai sur l’imagination du mouvement, Paris, Corti, 1943 e LGF, Le Livre de Poche («Biblio Essais»), 1992.

6 Luciano Curreri, A ciascuno i suoi morti. Un album di racconti, Cuneo, Nerosubianco («le golette»), 2010, pp. 27-33 in particolare (ma un po’ tutto il volumetto è importante in tal senso, nella disillusa dialettica di teso e disteso, di movimento verticale e immobilità orizzontale, come ha intuito e suggerito bene un avvertito recensore dell’epoca, Pierluigi Pellini, su «L’indice dei libri del mese», 2, 2011, p. 41, per cui cfr. https://www.ibs.it/a-ciascuno-suoi-morti-album-libro-luciano-curreri/e/9788889056493?inventoryId=53964911 ).

7 Ci si riferisce all’antologia (niente affatto revisionista) Pinocchio in camicia nera. Quattro “pinocchiate” fasciste, raccolta illustrata, a cura di Luciano Curreri, Cuneo, Nerosubianco, 2008 e, seconda edizione corretta e con l’aggiunta di una nuova Postfazione, 2011.

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.