“ACQUE D’AUTUNNO” di CIUANG ZE. Introduzione

PREFAZIONE

«Parole come acqua ch’ogni dì empie il bicchiere, temperata e intonata alla Luce del Cielo, sono quelle che sgorgano naturalmente e servono per tutta la vita». Così dice Ciuang ze delle parole sue proprie. Spontaneità, grazia semplice, profondità fluida, limpidezza in cui l’occhio penetra senza giungere in fondo.

Però delle parole come tali volentieri farebbe a meno: «trovassi un uomo che dimentica le parole per parlare con lui!». A chi si avvicina a Ciuang ze con i pregiudizi dei sistemi e delle tradizioni, e la presunzione del sapere, facilmente può capitare come al filosofo Kung Sun Lung (in «La rana della fonte»), quando disse al principe Mau, amico di Ciuang ze: «le parole di Ciuang ze mi hanno sconcertato e sorpreso enormemente. Non so se egli non è capace di esprimere correttamente il suo pensiero, o se la mia intelligenza non può seguirlo». – «Ciuang ze» risponde il principe, «ora pianta i suoi piedi nell’inferno, e ora si leva alle più alte cime del cielo. Non conosce nè sud nè nord; si lancia liberamente in ogni direzione, e si perde in profondità insondabili. Parte dall’abisso più oscuro e ritorna alla più chiara intelligibilità».


Il pensiero suo è tutto una fioritura ed esemplificazione del pensiero di Lao ze suo gran maestro. Lao ze lo chiuse nel famoso Tao Te King che nonostante la oscurità propria e quella venutagli dai danni del tempo è bene lucido e intellegibile; sono poco più di cinquemila parole, un’ottantina di brevi capitoli in versi; in essi nessuna parabola, nessun aneddoto: son puro pensiero, profondo come il cielo, pervaso da un contenuto ardore sperimentato e schiarito in una lunga vita oscura: una Via di vita di chi poggia nel mondo della realtà con occhi chiari aperti e la passa sino alle profondità dove l’uomo che vi giunge è felice.

Cardine di questo mondo spirituale è il Tao, che originariamente significa Via (e dice a proposito Ciuang ze che Tao è una metafora), e viene a dire – per intenderci – Logo, il Logo di Eraclito, l’Uno, Dio, l’Uno di Parmenide, l’Uno o Dio di Bruno, il Dio di Göthe; e la dottrina di Dio.

Il Tao che può essere calcato non è il Tao che dura e non muta. Il terreno che non si calca è quello che fa buono il terreno su che poggiamo: l’apparentemente inutile è il vero utile e buono. Il Tao è invisibile e immenso, sostegno e ragione di ogni cosa; a penetrare il suo mistero bisogna spogliarsi di ogni desiderio, altrimenti non se ne tocca che l’orlo. Pensiero che è la grande esperienza di Göthe – «chi ama rettamente Dio non deve richiedere che Dio lo riami» – nel contatto col suo primo con Spinoza, il maggiore avvenimento nella sua vita spirituale. Amare senza attendere ricambio: è principio fondamentale in Lao ze.

Tao è il mistero, e dove il mistero è più profondo è la porta di ciò che è più sottile e meraviglioso. Le forme (idee platoniche) vengono dal Tao; ma chi può dire la natura del Tao? Sfugge ai sensi, sfugge al pensiero; e in esso le forme durano. Com’è ora fu una volta. Le cose per lui da lui nel loro brillante ammanto (la göthiana «viva veste di Dio») procedono in eterno. Tao veste ogni cosa e non presume di esserne il signore. Può essere indicato nella più vili cose (come in «Dov’è il Tao» di Ciuang ze, che rammenta così vivamente il Bruno dello Spaccio e della Cena), può essere indicato nelle cose più alte. In lui riposo, in lui pace. La musica fa fermare il passante; ma sebbene il Tao sembri insipido e inodoro, il suo uso è inesauribile. – Chi mi dice che è così? Questo, cioè questo Tao stesso che è in me (come nelle Upanisad l’Atman che è in Brama). La legge del Tao è essere ciò che è. Nel suo regolare corso e svolgimento non opera con particolare proposito, e non c’è nulla ch’egli non faccia (nulla fa e fa tutto).

Lo sviluppo avviene attraverso i contrari; l’unità si esplica nell’armonia dei contrari: è il pensiero di Eraclito e di Bruno. Non c’è mira nè amore particolare. E il savio che ne segue la legge non si propone fini personali; è perciò che pure i fini suoi particolari sono realizzati.

Il Tao vuole la semplice vita: la più prossima al Cielo; la vita meccanizzata e della cultura non è la vera vita; la macchina meccanizza il cuore. Nella natura, nell’uomo, nel governo, l’azione del Tao è silenziosa e potente: conoscerla porta a grande capacità e tolleranza: dà un carattere regale, divino – in questa divinità o conformità al Tao è la immortalità.

Nei tempi antichi il popolo non sapeva, non si accorgeva, di essere governato. Nell’età successiva conobbe i principi, li amò li lodò; nella successiva li odiò. Nei tempi antichi l’opera dei reggitori di popoli era coronata di successo, e il popolo diceva «siamo noi stessi che ci siamo fatti quali siamo»: – credeva averne egli il merito. L’opera dei reggitori non era ostentata; come quella del Tao, era invisibile: agivano senza agire, con semplice spontaneità, senza presumere, senza parere: il savio compie i suoi fini senza adoperarvisi. Quando il Tao, la spontanea semplice vita, cessò di essere seguito, apparvero amore e giustizia (non spontanei, sorgenti dalla grazia, ma riflessi, voluti, sforzati, insinceri, ipocriti). Se sapessimo rinunciare alla nostra scienza e sapienza sarebbe molto meglio. Il Tao si trova nell’intimo di ognuno: basta cercarlo; (ma «gli uomini cercano ciò che non sanno e non quello che sanno» scrive Ciuang ze). Se sapessimo rinunciare a amore e giustizia crescerebbe la giustizia e l’amore. Se sapessimo rinunziare alle costrizioni e al guadagno non ci sarebbero ladri nè delinquenti. Le molte leggi fanno il disordine.

L’uomo sia come l’acqua che benefica ogni cosa occupando il posto più infimo che gli uomini sfuggono: soffice vince il duro. Che i fiumi e il mare ricevono il tributo di tutte l’acque della valle viene dal loro essere più bassi di questa: è così che sono re di tutte l’acque. Il savio si fa umile e nasconde la sua persona: così trovasi innanzi agli altri, nè se n’accorgono e non ne sentono il peso. Fa il bene e senza rimerito si ritira nella oscurità. Gli uomini preferiscono essere il primo, egli solo elegge di essere l’ultimo; gli uomini amano ricchezze, egli povertà. Non accumula e ha sovrabbondanza, più dà agli altri e più possiede; è solitario e una moltitudine lo segue. Umiltà, nonresistenza: – «agire senza lottare» è l’ultimo verso del Tao Te King.

Il savio è senza pretese, senza presunzione; parrebbe uno stupido, un folle; operando senza fine personale è come se non agisse: segue con grazia spontanea il Tao: è un fanciullo, ha tutta l’ingenuità del fanciullo. Il savio dice: «non farò nulla, e il popolo sarà da sè trasformato». Chi conosce il Tao non ne parla; chi ne parla non lo conosce. Segue il corso naturale delle cose; sa che l’albero che le braccia non riescono ad abbracciare è cresciuto da piccolo seme, che l’alta torre s’è elevata dal suolo, che il viaggio di mille miglia comincia con un passo. Impara ciò che gli altri non imparano, e si rivolge a ciò che la moltitudine ha lasciato addietro.

Le mie parole, dice Lao ze, sono facili da apprendere, facili da mettere in pratica; ma non c’è nessuno nel mondo capace di apprenderle, capace di metterle in pratica. Sono i pochi quelli che mi conoscono. I più mi deridono. Se il Tao non fosse deriso non sarebbe il Tao. È così che il savio porta rozzi panni, e ha nel cuore il sigillo di giada, il suo tesoro.

Conoscere e credere di non conoscere è la cima; non conoscere e credere di conoscere è il male. Chi pone la sua ragione nel Tao ha vita eterna: si contenta della sua sorte ed è inattaccabile (dalle cose e dagli eventi): non c’è in lui luogo mortale (dove la morte possa entrare).

Verso i buoni sono buono; verso i malvagi sono buono; così tutti si avviano al bene. Verso chi è sincero sono sincero; verso chi non è sincero io sono sincero; così tutti si avviano alla sincerità. Il savio è indifferente a tutto, ama senza amore (senza amore particolare interessato, sforzato), e tratta tutto come suoi figli.

È il pensiero, l’insegnamento di Lao ze che Ciuang ze svolge ampiamente con aforismi allegorie immagini, vestendolo di poesia con ricchezza di fantasia e sentimento. Non che la poesia manchi nel Tao Te King: ma è poesia contenuta, come di polla cupa sorgente; la vena di Ciuang ze oltre questo buiore lucido e fondo spumeggia in rivoli e spruzzi iridati. La sua pronta fantasia crea figure strane significative, dove la grazia, l’ironia il sarcasmo danno risalto al pensiero, e ne rendono tangibili i moti più astrusi e profondi. Con leggerezza mai sorpassata egli tocca le più alte cime del pensiero filosofico e religioso.

Il Tao che è l’Uno, il Tao soggetto che è il Tao oggetto, l’Io che è il Non-io (l’Atman che è il Brama) è mostrato e fatto raggiungere con trapassi di estrema finezza che solo un ignaro potrebbe scambiare per vuote parole. Non è Ciuang ze che cerchi le vuote parole; e se egli sopprime i passaggi o fa a meno di un lungo apparato e sviluppo, è questo un suo precipuo carattere e merito che ha appreso dal suo maestro; non usa termini tecnici, non delinea un chiuso sistema. Di questo c’è anche una particolare ragione ch’egli non cela ma mette bene in vista. Senza indugiarsi in numerosi trapassi che diano la illusione di un senza balzi ragionato e spiegato sviluppo, egli di botto, pur nell’uno, vede il vario irriducibile, e vi pianta il suo piede e il suo occhio. Infine, perchè è così? È così perchè è così. Il mistero è sempre qui accanto, qui prossimo; e non vale occultarlo sotto speciose serie di sviluppi. Non ha un rigido sistema, e libero scandaglia le profondità, e apre meraviglie di dubbi e speranze (concorde con Eraclito: – aspetta l’uomo dopo morte ciò ch’egli non immagina nè spera); nè l’ossatura dell’esistenza può essere tocca dal suo pensiero. La più perspicua profondità meditata ma fatta spontanea evidenza.

Senza pompa sacerdotale nè riti nè formule, senza polvere di scuole e di scritture; chè anzi propriamente la dottrina è intrasmissibile – come in «Feci o parole degli antichi savi» –; deve nascere nel cuore come per grazia; senza meccanismo di ripetuti Om! O stucchevoli tiritere indiane. Così alla buona, con parole come acqua, leggero come un uccello o come un fanciullo – o come l’Etere Originario in «Ritorno alla radice», che saltella a diporto battendosi le natiche, nell’Uno si sprofonda; ma sa che ne vede quanto nulla, e solo con la fede e la grazie vi trova riposo e letizia. Sicuro com’è che gli indizi del vero trovano nell’Uno il loro sperato compimento.

L’Uno, la identità del soggetto e dell’oggetto, del pensiero e dell’essere al di là della comune esperienza, è la medesima che trovarono Eraclito e Parmenide; trovarono i poetifilosofi delle Upanisad; conobbe Bruno (e per Bruno Göthe; le più importanti poesie del ciclo «Dio e mondo» derivano nelle parole, nelle idee, nel sentimento da Bruno; a Bruno Göthe venne nella giovinezza, tornò nella virilità e ritornò nella vecchiaia); è in fondo alla analisi kantiana. Ma quale stile impacciato nei Bramani, quanto peso di scuola e di rito! Tuttavia certe espressioni sono affatto identiche, in un modo che sorprende: dice la Upanisad Ica: «in tutto è dentro; di tutto è fuori: dov’è la pena per chi così vede l’Uno?»; e la Kena: «Solo chi lo conosce non lo conosce», che paiono le proprie parole di Lao ze. E altrove: «Questo Atman (=Brama) è silenzio».

Anche la malcompresa teoria del Farnulla di Lao ze ha riscontro nelle Upanisad: nel Canto Divino dice Krisna a Argiuna: «L’attività è necessaria, ma senza interesse e con indifferenza quanto al frutto (senza desiderio, senza proporsi il frutto) dell’azione»; e anche: «Che è azione, che è inazione? Chi nell’azione vede l’inazione e nell’inazione l’azione è saggio fra gli uomini» (perchè agisce senza attaccamento). È l’identico intendimento di Lao ze col suo farnulla.

Farnulla ha un senso metaforico come il Tao, è azione nella grazia; nella semplicità del fanciullo; spontanea e senza scopo esteriore, ossia senza proposito personale; del tutto libera, non imposta dall’esterno: come quella della natura e del cielo. L’uomo secondo il farnulla ha però dei compiti, e li raggiunge operando senza deliberato proposito, senza egoistici motivi. Il farnulla è esemplificato da Lao ze nell’azione dell’acqua contro le rocce, nell’azione del cielo e della terra che pure fanno tutto, azione che opera senza farsi vedere, paragonabile all’insegnamento senza parole. Il più morbido vince il duro, egli dice: conosco in questo l’opportunità del farnulla.

Non c’è però piena medesimezza fra il Tao e il pensiero vedanta – tanto meno fra il Tao e quello buddistico –, oltre la detta unità dell’io con Brama. Nel pensiero indiano la illusione del mondo è radicalmente illusione dalla quale l’uomo intende sfuggire con un finale assorbimento nell’Uno; il Tao non è una condanna della esistenza; nel Tao l’esistenza mondana è un anello in quell’Uno che la lega all’anello della morte, e l’uomo accetta la vita come è pronto ad accettare la morte non sapendo quale sia il meglio, nè quali altri anelli possano seguire.

La risonanza potente e netta che hanno le parole di Eraclito riecheggia in quelle di Lao ze, suo contemporaneo un po’ anziano, e in Ciuang ze: la medesima semplicità e universalità grandiosa: anche per i due taoisti vale il detto di Eraclito: «oscura tenebra vi regna; ma se uno iniziato ti introduce, vi si fa chiaro come di pieno giorno».

È strano come il pensiero greco abbia altri precisi riscontri, pur senza diretto o mediato contatto, col pensiero cinese. Nei sofisti cinesi ritroviamo i sofismi greci; i tropi profondi degli eleati sono ripetuti con le medesime identiche parole: per es. «la freccia volante è ferma».

La mania del sapere di parata, la ressa dietro i sofisti è la stessa che in Grecia. Li ritrae con evidenza Ciuang ze in «La guardia agli interessi dei gran ladri». Così i sofisti andavano in folla a trovare il nuovo venuto Protagora, quale lo vediamo in Platone con sèguito di un’accolta di gente ch’egli nuovo Orfeo da ogni paese si strascina dietro. Gonfio come Protagora era pure l’amico di Ciuang ze Hui ze; diceva: «chi m’uguaglia?». Nella ostinazione delle dispute era una zanzara, un tafano. I suoi libri avrebbero riempiti cinque carri. Però sottile appunto come gli eleati senza avere la serietà di quelli; ne ripeteva i famosi tropi e particolarmente quelli di Zenone circa il moto e lo spazio, come è detto nell’ultimo, trentatreesimo capitolo, probabilmente spurio, di Ciuang ze, (l’ultimo dei capitoli esistenti, perchè pare che in origine fossero 52).

Il pensiero umano si ripete, si ripete e ricongiunge nelle cose più fonde e nelle frivole. Ma le più profonde rari sono a toccarle. Onde maggiore meraviglia ci sorprende se a millenni di distanza le ignorate parole di Ciuang ze vengono ridette identiche da Göthe. «Ricerca lo scrutabile, e venera l’imperscrutabile» è la più alta sapienza göthiana. È quello che dice Ciuang ze: «La conoscenza che si ferma ai confini dell’inconoscibile è la più alta» (in «Ai confini dell’inconoscibile»). «Chi si ferma dove la conoscenza non arriva, quegli giunge alla perfezione» («Alla scuola di Lao ze»). «Il savio tiene chiuse le labbra e pacato venera» («Vita e sogno»). Ciuang ze con uno dei tratti che lo avvicinano alla parola cristiana e compie il ricordato pensiero di Göthe, aggiunge (in «Fino alla liberazione»): «Con ciò che non è dubbio vogliamo sciogliere il dubbio fino alla liberazione da ogni dubbio». Nutre la sua conoscenza con fede verso ciò che non conosce; e sa che ciò che fa la nostra vita un bene fa pure un bene la nostra morte («Il grande Padre e Maestro»). Le quali ultime parole trovano pure riscontro in Göthe dove disse: «La natura è buona; mi ha posto al mondo: mi condurrà anche oltre».

Ciuang ze dichiara che dei suoi pensieri nove su dieci sono metafore ossia allegorie, parabole: – e infatti il suo dire è tutto un succedersi di aneddoti simbolici, dove personaggi storici entrano in gran libertà insieme ad altre creature mitiche-leggendarie, e altre del tutto fantastiche da lui create. Gli stessi personaggi storici egli tratta secondo il bisogno a suo modo ed arbitrio, senza guardarsi da contraddizioni da uno ad altro aneddoto, usando quella padronale libertà che Göthe venerava in Shakespeare. I primi leggendari-storici re Yao e Sciùn di cui narrò Confucio (con Yao – 2300 a.C. – comincia il libro delle Origini) ora sono i savi perfetti; ora sono i primi iniziatori della corruzione che viene dalla cultura abbandonando la spontanea semplicità primitiva per regolare e disciplinare il consorzio umano con esterne coercizioni.

È una metafora il Tao, una metafora il farnulla; metafore sono le doti dei perfetti. Chi interpreta alla lettera è fuori strada: metafore e allegorie agevolano la intelligenza; ma quando il pensiero è inteso la metafora ha servito al suo scopo, e s’ha da abbandonare per il puro pensiero simboleggiato. I discepoli però hanno la mente ristretta, e spesso non vedono oltre le parole: è così che allora Ciuang ze si ride egli stesso della allegoria sua (ma ride pure della corta mente dei discepoli) e la abbandona passando al senso proprio non figurato (come in «L’oca che non sa schiamazzare»).

Qualcuno degli aneddoti è preso da altri, con lievi ritocchi. Parecchi (Al mattino tre, Il barcaiolo, Il vecchio della cascata, Ammaestramento del gallo lottatore) paiono tolti da Lia ze, scrittore vissuto forse intermedio fra Lao ze e Ciuang ze; se pure Lia ze ne è l’autore, poichè è dubbio, se i passi che si trovano anche nel suo libro siano suoi ovvero presi da Ciuang ze o da altri, e intercalativi posteriormente. Parole di vecchia tradizione ricorrono in tutti e due gli scrittori, e per es. echi e parole dell’Yin Fu King, raccolta di aforismi, pensieri dell’antica sapienza arditi e sorprendenti.

Uno dei personaggi leggendari che compare più spesso è l’Imperatore della terra gialla (Huang Ti, del 2700 a.C.; a Huang Ti è riferito da Lia ze un capitolo, il sesto, del Tao Te king). È introdotto da Ciuang ze quale ricercatore del Tao; ma anche, come Yao e Sciùn, rimproverato per aver interrotto lo stato della perfetta unità e semplicità. Un Beethoven potrebbe mettere in note la musica che Ciuang ze gli fa sonare e spiegare con tanta ispirata potenza.

Altro personaggio che sebbene secondario compare frequente è il filosofo sofista Hui ze, sottile dialettico, suo amico intimo col quale gli è caro discorrere; e morto lo rimpiange; perchè, sebbene ostinato nei sofismi, ha intelligenza fine e forte. Ciuang ze però non si imbarca in dispute e taglia il dibattito: «Voi,» gli dice, troncando il discorso perchè l’altro non vuol capire, «riducete a cosa esterna il vostro spirito, e balbettate le vostre sottigliezze» (Il Pane del Cielo). Platone e Socrate disputano e prendono del sofista; Ciuang ze lo domina e lascia del tutto da parte restando immune. – Con Hui ze passeggia sul ponte dell’Hao e gode osservando i pesci che guizzano fuori dell’acqua e giocano. (La contentezza dei pesci). Ma quando Hui ze, diventato capo dei ministri dei re di Wei pare gloriarsi o temere per gelosia l’amico, egli con cruda ironia lo schernisce facendosi fenice che sdegnosa vola nell’alto e beve alle più pure sorgenti, lasciando un non invidiato putrido sorcio in bocca alla civetta Hui ze, che alla vista della fenice grida sbigottita per timore glielo voglia rubare. (La civetta e la fenice).

Ma le due figure più frequenti e importanti sono Lao ze e Confucio. Lao ze spiega il Tao e per lo più insegna pure a Confucio: egli appare quale lo conosciamo dal Tao Te King; un appunto gli muove Ciuang ze: che abbia ispirato troppo amore ai suoi discepoli, come si vede nel compianto che ne fanno alla sua morte (La morte di Lao ze): «Per attaccarli così a sè bisogna ch’egli abbia detto parole che non doveva dire e pianto lagrime che non doveva piangere».

Confucio è la persona storica che conosciamo dai suoi libri e Dialoghi, ma deformata o adattata secondo l’occorrenza. Ora serve per sfogo della critica di Ciuang ze che la condisce di ironia e sarcasmo; e ora è un convertito di Lao ze che insegna devotamente il Tao. In un passo Ciuang ze, a colloquio con Hui ze, dice che Confucio nel sessantesimo anno mutò; quello che aveva prima tenuto per giusto tenne alla fine per falso. «Confucio con fermo proposito attendeva ad acquistare scienza» osserva Hui ze. E Ciuang ze replica: «Confucio ripudiò questo proposito, ma non ne fece mai parola».

Ciuang ze non tace e non ha riguardo: è senza pietà per l’uomo che la storia posteriore ha consacrato a tipo ideale caratteristico del cinese. Ma la sua critica acerba è giustificata. Il Confucio che egli sgrida è il Confucio autentico che vediamo particolarmente nei confuciani Dialoghi, nella Grande Dottrina e nell’Invariabile Mezzo.

Il gran merito di Confucio è stato di aver raccolte le tradizioni e la poesia cinesi; e creato con ciò monumenti che hanno unificato bensì, ma anche fissato lo spirito della Cina. Egli lo dice: «Trasmetto e non creo nulla di nuovo: con fiducia e affetto mi attacco agli antichi». Stare nell’Invariabile Mezzo è principio e fine del suo insegnamento. Ha avuto un ideale terra terra di onestà, e di rispetto alle tradizioni, rispetto agli antichi riti cerimonie e consuetudini. Ha predicato giustizia e amore, ma con pacato buonsenso e ragionamento. Il popolo cinese via via lo ha più e più riconosciuto e venerato quale suo plasmatore; e il formalismo e il rito, l’ossequio alle tradizioni ha legato il suo spirito togliendogli i grandi orizzonti, la grande libertà la originalità e individualità: la vita più intima che i più nobili spiriti isolatamente ricercarono in Lao ze e Ciuang ze; senza che questi creassero un movimento che avesse vita più lunga di qualche secolo. Infatti il puro taoismo fu presto corrotto e degradò in religione volgare magica di salute, e alchimia mirante al prolungamento della vita e alla produzione artificiale dell’oro. Rifiorì col rifiorire splendido della cultura e poesia cinese nell’epoca gloriosa dei Tang (600-900 d.C.). Il più grande poeta dei cinesi, Li Tai Po, i cui canti dopo oltre mill’anni sono sulla bocca di tutti, e altri con lui (Fu I, Ciang Cien, Se Kung Tu) tornarono a Lao ze e Ciuang ze.

Lao ze e Ciuang ze ebbero e hanno templi, e furono santificati; nel 742 gli scritti di Ciuang ze proclamati libro canonico; ma lo spirito di Lao ze rimase estraneo in Cina, per quanto profondamente e universalmente venerato.

È cosa anche oggi ammessa nella tradizione che Confucio ebbe un colloquio con Lao ze: che ne cadde in ammirazione profonda, ma che tanto erano alte le parole del Maestro che egli non potè comprenderle. Che il colloquio tra i due uomini più rappresentativi della cultura cinese abbia avuto luogo – nell’anno 517 prima di Cristo –, è attestato dallo storico Se Ma Tsien (morto nell’86 d.C.); ma probabilmente è una leggenda, sebbene il fatto sia possibilissimo: Lao ze avrebbe avuto 87 anni e Confucio 34. Comunque i colloqui dei due grandi uomini in Ciuang ze rispondono alla tradizione, e allo spirito della realtà. E in Se Ma Tsien Confucio è trattato da Lao ze con la stessa severità con cui lo tratta in Ciuang ze, e quasi con le identiche parole. «Gli uomini di cui tu parli» dice Lao ze a Confucio secondo lo storico, «sono con le loro ossa da moltissimi anni morti e marciti». Confucio riferisce poi ai suoi discepoli dicendo: «Ho visto Lao ze: è pari al drago che sale al Cielo, e non lo comprendo».

Che il Confucio di Ciuang ze risponde a quello vero lo vediamo nei Dialoghi e dagli altri libri canonici. Fin da fanciullo ebbe la passione dei riti e la passione storico-antiquaria. Tutto è cerimonia e rito. Egli ha le norme per un contegno verso il principe, un contegno verso i superiori, un contegno verso gli inferiori. Misura tutto: «i gradi di affezione verso i parenti, e i gradi di reverenza verso i savi sono determinati dalle leggi delle relazioni». Forme, cerimonie, urbanità, irretiscono il mondo spirituale di Confucio. Nei Dialoghi gli viene chiesto: «Cosa aggiungono le cerimonie alla virtù? non sono inutili?» – Risponde: «Togliete l’ornamento esteriore, e il savio non si distinguerà dall’uomo del volgo». – Dice: «La virtù dell’uomo perfetto si eleva sopra la terra e giunge al cielo. Nella sua immensità abbraccia le trecento leggi della morale e le tremila regole della urbanità. Quando sorgerà un uomo veramente perfetto egli compierà tutte queste cose». «La pietà filiale consiste nel seguire le prescrizioni».

Sono, nei Dialoghi, riferiti a lui tanti detti insignificanti e banali, tante piccole sciocchezze circa il suo vestire e il suo comportarsi davanti al principe, a tavola, a letto, in occasione di digiuno di lutto di mangiare bere sedere. Non sedeva se la stuoia non era collocata secondo le prescritte regole. Non mangiava se la vivanda non era in regola tagliata. La camicia da notte doveva avere una volta e mezza la lunghezza del suo corpo. In vettura non mostrava a dito; vi saliva ritto della persona, tirandosi su con l’aiuto del cordone che vi era fisso a questo scopo. Introducendo gli ospiti al principe di Lu faceva rapidi passi tenendo le mani giunte e le braccia un poco tese come le ali di un uccello, mentre la tonaca dinanzi e dietro restava composta. Vedeva in lutto un uomo, anche un amico intimo, per cerimonia prendeva un’aria di compassione. «Osservare il meglio possibile tutte le prescrizioni del lutto – uno dei quattro meriti principali ch’egli con sforzo compie». È ben giusto che in Ciuang ze («Chi può salire in cielo») Confucio confessi di essere stato uno stupido a mandare un suo scolaro per le cerimonie del funerale di un savio della risma di Lao ze, di «uomini che non osservano le regole, che cantano nella presenza del cadavere senza dimostrazione di cordoglio». Gli fa dire Ciuang ze: «Camminano al di là delle regole. Io cammino dentro le regole. Come potrebbero curarsi delle cerimonie del mondo per far piacere agli occhi e agli orecchi della gente?». – «Ma perchè vi attenete alle regole?» – «È una condanna del Cielo», risponde Confucio. Viene in mente un passo di Lia ze: «Chissà perché il Cielo odia una persona?».

A proposito dei quattro meriti suoi principali ch’egli «compie con sforzo» come è detto nel passo dei Dialoghi sopra citato, è proprio qui che vede Ciuang ze la condanna del cielo: la mancanza della grazia. (In «Confucio visita Lao ze») «Amare tutti! non è stravagante? Con queste parole voi dimostrate la vostra inferiorità. Considerare il disinteresse come dovere questo appunto dimostra che si è interessati». – «Chi con sforzo intende giungere alla perfezione si affatica per ciò che nessuno sforzo può conseguire («Alla scuola di Lao ze»). – «Amore professato nulla compie («Ai confini dell’inconoscibile»). Il perfetto non sa di esserlo». Il Tao vuole autonomia, grazia, ma non imperativi. La «perla smarrita» (il Tao perduto) è ritrovato solo da Senzamèta (da chi s’abbandona alla grazia).

E all’opposto, ancora nei Dialoghi: – «Ze Ciang interrogò Confucio circa gli uomini buoni per natura e senza studio. Rispose: «non camminano sulle orme dei savi e non penetreranno nel santuario della saviezza».

Pure, fra il mare della trivialità e delle regole, qualche raro detto luminoso, quasi straniero nel resto, si trova in Confucio, e lo farebbe consorte in quel Tao che Ciuang ze gli fa a suo talento imparare e insegnare. «La vera perfezione», è scritto nell’Invariabile Mezzo, «non si mostra e risplende; non muove e trasforma, non opera e compie». «La vera perfezione è la Via del Cielo, è la legge naturale che il Cielo ha messo nel cuore dell’uomo. Chi è naturalmente perfetto segue la via senza sforzo, senza pensiero». E ancora: «La virtù del savio ama stare nascosta, e il suo splendore cresce di giorno in giorno. Il savio veglia su di sè, e tutto l’impero è in pace. La virtù è leggera come una piuma. L’azione del Cielo non si vede nè odora». E pure nel senso perfettamente taoistico, tanto che paiono parole di Lao ze, è scritto nei Dialoghi: «Il Maestro disse: – Io non vorrei più parlare –. Maestro, disse ze Kung, se voi non parlate, quali insegnamenti trasmetteranno i vostri discepoli ai posteri? – Disse il Maestro: – Forse che il Cielo parla? Le quattro stagioni seguono il loro corso, e tutti gli esseri ricevono la loro esistenza». Trovano del resto spiegazione nella tradizione più antica. Sia il taoismo che il confucianesimo hanno una origine assai più remota dei loro primi maestri. Lao ze e Confucio rappresentano una più vecchia tradizione cinese, alla quale anche Lao ze spesso si richiama. Si direbbe che se ne sono divisi i rami confusi: il rivo di Lao ze resta puro e pare tutto suo e fuso in forte unitiva originalità; quello di Confucio conserva il carattere di tradizione e porta frammisto qualche elemento taoistico. Così nello Sci King o Libro delle Odi, se ne vedono commiste le tracce; e per es. nel capitolo ultimo e conchiusivo dell’Invariabile Mezzo tutti gli elementi taoistici sono riferiti e derivati appunto dallo Sci King.

Di Confucio si hanno notizie precise e molte. La vita di Lao ze è circondata di mistero e ombra. Quella di Ciuang ze ha poca luce di più. Come forse Lao ze, egli ebbe qualche tempo un modesto impiego in un archivio; ma il più degli anni lo passò libero in povertà («povertà, non miseria!» in «Ciuang ze e il re di We»), ricavando modesto guadagno dai suoi discepoli. Lo vediamo con sarcasmo beffarsi di contenti leccapiedi (lecca qualcosa di peggio) che vantano sfoggi di carrozze e ricchezze dovuti a favori di principi. Passeggia, pesca, contempla, pago nei suoi logori panni e nelle scarpe slabbrate che legaccioli tengono insieme. È un amico reale, il principe di Mau, che lo comprende (La rana della fonte), ma egli non ne ricerca profitto. Ai messi del re We, (Ciuang ze e la tartaruga) che lo trovano a pescare, venuti a offrirgli la carica di ministro, risponde che ama meglio come la tartaruga dimenare liberamente la sua coda nel fango. Anche lo storico Se Ma Tsien ricorda l’offerta del re We di Ciù e i ricchi doni che l’accompagnarono. Alla morte della moglie siede accanto al cadavere e canta. Per la morte sua («La morte di Ciuang ze») cielo e terra saranno la bara; sole e luna i suoi tondi simboli di giada; le stelle e costellazioni le sue perle e i suoi gioielli; e tutto il creato assisterà. Non è un funerale completo? Restare sopra, esser messo sottoterra è indifferente: sopra lo mangeranno corvi e nibbi, sotto i grillitalpa e le formiche. Sia come si vuole; non intende egli di mostrare parzialità.

Ciuang ze, come porta l’indole della lingua cinese, è estremamente conciso (pur meno d’assai di Lao ze): bisogna stare attenti nella lettura a cogliere i trapassi, la opposizione di membri, tutto quanto del pensiero è – per naturale amore di libertà e poesia – taciuto. Lo scheletro e le molle nel discorso restano nascosti: chi legge deve lavorare e ricreare – se no non intende. La libertà e arditezza è qui senza confronto maggiore che presso i greci. E male rendono l’originale le zeppe che i traduttori aggiungono, sempre paurosi di non rendere il pensiero abbastanza liscio e facile, sicuro; mentre ne sciupano uno dei pregi singolari. Questo vale del resto anche per tutta la meravigliosa lirica cinese, la cui popolarità salva la fama dello spirito di quel popolo immenso. E così sono un orrore certe versioni dalla consorella lirica giapponese, dove ben più sono le zeppe che il puro originale. Per un esempio, in «Alla scuola di Lao ze» Nang Yung Ciù parte e arriva al paese di Lao ze con provvisioni prese con sè per il viaggio: lo guarda severo Lao ze e dice: «Perchè tanti attendenti?» Gli attendenti sono le provvisioni; non capisce Nan Yung Ciù che si volge indietro come per dire: – dove sono? –; ma deve capire il lettore senza che espressamente sia detto. Così in «Il gran Padre e Maestro», dove è detto – Alla morte li seppellivano – si deve intendere: con semplicità, senza cerimonie di funerali.

Come nella poesia cinese, accade in Ciuang ze che la parola si ferma e il senso procede oltre. E talvolta il silenzio che segue è più significativo – non senza merito dell’Autore, perchè è un silenzio fatto eloquente dalla suggestione dall’autore svegliata. Ciuang ze ha osservato («Mistero») l’uccellino chiudere il becco e cessare il canto, mentre un eco interminabile ne resta fuori, e dentro di lui un profondo che non trova nota che lo esprima.

Col Tao Te King l’opera di Ciuang ze è il maggior contributo della Cina alla vita spirituale dell’umanità. Non c’è pensiero così originale e ardito in tutta la storia della Cina. Questo filosofopoeta è antico e è moderno quanto un moderno; dopo oltre venti secoli è il filosofo di oggi come di ieri, e un grandissimo poeta sempre vivo. Al suo contatto i più nobili spiriti fanno eco in noi alle sue parole: ora Shakespeare («Ciuang ze e il teschio»), ora Platone e Plotino o Bruno, Rousseau, Tolstoi e il suo più divino maestro (i passi che ricordano il vangelo sia nel Tao Te King sia in Ciuang ze sono molti), o Ruskin (La gru e il tao) o altri. La sua mente è aperta come lo spazio («Nella luce del Tao»), onde nel mondo nostro d’oggi dagli abissi di sistemi di atomi, dai miliardi di stelle, dai milioni o miliardi di vie lattee e sistemi stellari, egli si ritroverebbe più che Aristotele nei suoi inscatolati cieli. E del pari è aperto il suo cuore: «Voler riconoscere il giusto e non l’ingiusto, l’ordine e non il disordine» dice nella «Luce del Tao», «mostra difetto di cognizione». E nella persona di Po Ku («Delinquenti») vuole andare ad abbracciare i cadaveri dei giustiziati: chiamerebbe il Cielo piangendo la loro sorte: «o figli, o figli, il mondo è pieno di miserie, e voi per primi avete avuto a soffrirne».

Mario Novaro

Oneglia, 28 Aprile 1921

NOTA

Degli scritti di Ciuang ze esistono queste versioni: F.H. Balfour, Shanghai 1881, The Divine Classic of Nan-hua being the Works of Chuang Tsze Taoist Philosopher. – H.A. Giles, London 1889, Chuang Tzù, Mystic, Moralist and Social Reformer. – J. Legge, Oxford 1891, The Texts of Taoism (nella collezione The Sacred Books of the East) 2 voll. – C. de Harlez, Paris 1891, Textes Taoistes. – M. Buber, Leipzig 1921, 4.a ediz., Reden u. Gleichnisse des Tschuang-tse, Deutsche Auswahl. – R. Wilhelm, Jena 1920, 2.a ediz. Dschuang Dsi, Das Wahre Buch vom südlichen Blütenland. –

Ignaro del cinese, mi è parso opportuno riparare alla mancanza di una originale versione italiana curando questa scelta che ho condotto sulle versioni di Legge, Giles e Wilhelm raffrontandole minutamente. Anzi quanto al Giles che, esaurito, non mi è stato possibile trovare, me ne sono valso solo dentro i limiti della parziale traduzione che dall’inglese ne ha fatta il Buber con Reden u. Gleichnisse. Le tre versioni concordano quasi sempre del tutto: è questa anche una prova della loro bontà e fedeltà all’originale. Il Giles mostra più fine intuito, più viva penetrazione del pensiero di Ciuang ze, e lo rende con maggior sentimento; ma qualche volta è vago, e qualche rara volta ha frainteso. L’opera del Legge di traduttore dei sacri libri cinesi è stimata dal Giles medesimo un monumento che fa onore alla filologia inglese; e il Grube lo nomina accanto allo Julien come uno dei due maggiori sinologi del secolo scorso. La versione del Legge ha il vantaggio di essere la più scrupolosa e attaccata alla lettera dell’originale. Egli ha però una comprensione limitata del pensiero di Ciuang ze, e cápita non troppo di rado che non lo comprenda e traduca quindi meccanicamente, anche se il senso del pensiero non è reso. La mente del Legge era troppo ristrettamente anglicana. Ma la sua fedeltà scrupolosa fa sì che egli metta fra parentesi quasi tutte quelle aggiunte o zeppe che egli appone al testo per renderlo a suo giudizio più perspicuo: cosicchè fortunatamente riesce più agevole, con la soppressione di esse, indovinare il vero senso dell’originale. – La versione del Wilhelm, anch’essa molto pregevole, s’è giovata grandemente di quelle del Giles e del Legge. E il Wilhelm ha inoltre avuto la fortuna (che Legge rimpiange non aver incontrata) di poter consultare un cinese ottimo intenditore di Ciuang ze. Ma egli modernizza un po’ troppo l’originale con fraseologia tecnico-filosofica: e sopprime qualche particolare prettamente cinese per adattare meglio il testo all’uso europeo, mentre gli toglie il suo schietto sapore, sostituendo il generico al particolare. Qualche rarissima volta ha tradotto ad arbitrio; qualche altra non ha inteso il testo, avendo perduto di mira il senso del passo. Così credo errata la sua interpretazione circa una lode a Confucio che mi pare, conforme al Legge, non esistere né potere esistere nel libro XXVII, 2. Il Wilhelm ha tralasciato i libri XXVIII-XXXI, che secondo la meschina, indegna iscrizione di Su Sci (l’indimenticabile poeta della gita alla Parete Rossa l’autunno del 1081) nel tempio di Ciuang ze, nell’anno 1078, dovrebbero essere spurii. Non paiono in tutto tali. E piuttosto mi sembra certamente spurio il libro XXXIII, sebbene molto interessante come documento. Pertanto per la versione di «Il vecchio pescatore», del libro XXXI, ho avuto dinanzi soltanto il testo quale è nel Legge. Ma ho del resto quasi completamente evitato i passi sulla cui genuinità esistono dubbi. – La versione del De Harlez è una raccolta di passi scelti e ordinati per rendere il pensiero filosofico di Ciuang ze, fatta senza amore, senza gusto, senza comprensione.

Il libro di Ciuang ze, dopo la sua consacrazione nel 742, fu detto per ordine imperiale Nan Hoa King, cioè il Libro canonico del Paese fiorito del Sud. Ho dato a questa scelta il nome di «Acque d’autunno» che è quello di uno dei più famosi capitoli, il XVII (da «La vista del gran mare» a «La contentezza dei pesci» in questo volume). Autore di «Acque d’autunno» fu pure un nome dato a Ciuang ze. Ho scritto Ciuang ze (con zeta forte) secondo la nostra pronunzia.

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.