di Antonino Contiliano
La forza dell’esempio/ Il paradigma del giudizio (Feltrinellli, 2008) di Alessandro Ferrara mette all’ordine del giorno una filosofia politica e morale che, in tempi di crisi degli Stati nazionali e di pluralismo, riprende, aggiornandolo, il presupposto del “sensus communis” del giudizio riflettente sulla esemplarità estetica kantiana. Lo spunto viene preso dall’interpretazione politica che ne ha dato Hannah Arendt durante le lezioni americane su Kant. Sono le implicazioni della “facoltà” e “Critica del giudizio” (Kant) del singolo che, come soggettività sociale, e in uno spazio estetico-politico di condivisione allargata, comportano l’assunzione del punto di vista dell’altro.
La condivisione, nonostante i conflitti della pluralità dei soggetti e delle soggettività, è possibile e praticabile lì dove il proprio di ogni singolarità umana cede il passo all’universalità concreta che ogni essere umano porta con sé, e che si coagula nel punto d’intersezione delle dimensioni fondamentali (oggi diremmo beni comuni), materiali e non, per essere soggetti plurali di una stessa identità umana, e in quanto tali, però, riconoscibili nella pratica dell’esempio o del comportamento esemplare coerente.
L’esemplarità è così vista come una universalità di libertà e uguaglianza socio-politica che si è concretizzata come stile di vita rispondente, per dirla con Spinoza, a una perfetta connessione di idee e cose pur nel rispetto delle differenze e delle pluralità pratiche di vita.
Ma il precedente filosofico, a sostegno di una tale pratica etico-politica, come già detto, è dato dal giudizio riflettente kantiano. È qui che la proposta del libro di Ferrara va a cercare il suo aggancio, e più propriamente nell’universale concreto di tipo estetico dell’“interesse disinteressato” che, secondo la Arendt, è intrinsecamente politico; e lo è perché in quanto giudizio non può che essere prassi o azione che richiede necessariamente l’interazione “pubblica” nello spazio della polis: presenza degli altri e azione di discussione dei singoli, dialogo e condivisione “disinteressata” come quando il bello estetico, altresì il comune politico esemplare, oltre i limiti delle differenze e dei confini di ogni tipo, accomuna tutti in un unico sentire. Un sentire della molteplicità che è un pensare e agire d’intesa unanime, anziché un dividere e un eliminare.
E l’esemplarità accomuna, oltre ogni differenza e conflitto ideologico di esclusione, perché potenzia il fondamentale senso della vita e dello stare insieme in un contesto di singolarità molteplici (individui, gruppi o comunità più vaste); per la qualcosa, infatti, argomenta Ferrara, aggirando i limiti della sola posizione di diritto (Rawls) o di politica (Habermas), l’esemplarità del giudizio riflettente kantiano può essere presa come un “paradigma” di riferimento per costruire una comunità cosmopolitica plurale e globale, e ciò a partire dal riconoscimento comune dei diritti umani fondamentali.
Diritti fondamentali, come ebbe a dire Kofi Annan, che non si limitano più a quelli tradizionali e sanciti nelle varie Carte di dichiarazione dei diritti fondamentali, se
«Le minacce alla pace e alla sicurezza nel XXI secolo non includono soltanto la guerra e il conflitto fra Stati, ma anche la violenza civile, il crimine organizzato, il terrorismo e le armi di distruzione di massa. Includono inoltre la povertà, le malattie infettive mortali e il degrado ambientale, dal momento che queste calamità possono avere conseguenze catastrofiche. Tutte queste minacce possono causare morte o diminuire le chances di vita su vasta scala. Tutte quante sottraggono agli Stati il ruolo di unità di base del sistema internazionale» (p. 187).
Se le chances di vita, in tempi di “cosmopolis” atopica, devono essere uguali per tutti, allora è necessario che i bisogni fondamentali, uguali per ogni vita umana di questo pianeta, alla stregua del bello del gusto del “sensus communis”, di cui si parla nell’esemplarità del giudizio riflettente kantiano, siano assunti come un universale piacere disinteressato e su questo si cominci a lavorare per la costruzione di una comunità europea o mondiale che non separi più diritti umani universali, etica e politica, e perciò in grado di una trans-contestualità che coniuga universalità e pluralità.
E ciò sarà non tanto una scommessa quanto la possibilità di una nuova universalità concreta repubblicana, se già è, pur generalmente, operante nel concreto dell’odierna vita globalizzata dal momento in cui tutti, di fatto, si vive come cittadini interdipendenti e migranti nella rete cosmopoliticizzata.
Questo non ha messo, poi, in crisi solo i confini delle nazioni, ha denunciato, pure, senza infingimenti, la violenza colpevole delle guerre, delle politiche razziste e antimigratorie; ha altresì fatto appello per una democrazia né ipocrita né illusoria.
Se è vero che le società complesse in cui viviamo sono delle democrazie i suoi cittadini “non sono soltanto i destinatari delle leggi ma anche i loro autori” (p. 154); se è vero che ci sono delle condizioni inospitali, è anche vero che ci sono condizioni di pluralismo culturale senza precedenti che convergono tutti i cittadini su un singolo insieme di principi politici – sebbene sia diventato più difficile che in passato adeguare cose e idee – a partire dalla pratica di comportamenti/esempi esemplari. “In un contesto del genere […] la persistenza del repubblicanesimo consiste nella sua affinità […] con un modello di normatività basato sul giudizio e sull’esemplarità” (ibidem), e non sul dettato del “discutibile presupposto che esistano principi transculturali” (ibidem).
Ora, l’esemplarità, scrive Alessandro Ferrara, citando la soggettualità pratica di certi organismi collettivi come l’ONU, Amnesty international o Greenpeace (et alia), “è utile non soltanto per chiarire in cosa consistano la normatività del ragionevole, la radicalità del male radicale e la specificità della tradizione repubblicana, ma anche per giustificare i diritti umani nel più ampio quadro di una concezione della giustizia su scala globale” (p. 155). Una giustizia globale, però, che richiede alcuni no e alcuni sì, e l’impegno (non solo la speranza) concreto a creare istituzioni e certezze giuridiche all’altezza dell’evento:
«a) di essere “politica”, nel senso di non poggiare su presupposti la cui accettazione è coestensiva con l’accettazione dei fondamenti del costituzionalismo liberai-democratico; b) di non legittima-re, indirizzandosi a un insieme implicito di “destinatari della giustizia”, uno status quo internazionale puramente contingente; c) di includere fra i principali contenuti della giustizia anche il rispetto dei diritti umani, ma senza con ciò dedifferenziare le sfere della morale e del diritto e senza tornare alla postulazione di un primato della morale sulla politica; e d) di tracciare almeno in linea di massima il rapporto che intercorre fra una certa idea di giustizia su scala globale e il contesto istituzionale da essa presupposto» (pp. 183-84).
Se la globalizzazione economica e culturale in corso ha prodotto i primi segni di una società civile mondiale, e di una sfera pubblica mondiale dell’essere in presenza e simultaneamente insieme, l’idea di umanità, quale universale concreto (singolare e plurale al tempo stesso), “intersezione” riconoscibile nei diritti umani fondamentali e nel loro esercizio non differito, non può non essere un fondamento nell’accezione estetico-politica rinnovata del “sensus communis” kantiano. L’idea di umanità non può più essere, infatti, un’idea regolativa e del dover essere, ma un esempio concreto (un è come deve essere) di universalità vivente nella storia di oggi, e un progetto in itinere di giustizia quale espressione di autoconsapevolezza basta su un nuovo “principio della libertà intersoggettiva” che già sottende una istituzionalizzazione e una giuridificazione “cosmopolitica in via di formazione” (p. 185).
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