Un paio di pagine per Sergio Martinatto (1946-2021)

Un paio di pagine per Sergio Martinatto (1946-2021).


di Luciano Curreri (UNIUPO)

A Pompeo Vagliani e a Torino ritrovata.

NOTA: queste due pagine sono state scritte per la giornata in ricordo di Sergio Martinatto che si terrà alla Fondazione Tancredi di Barolo di Torino il 17 aprile 2024; pubblicate sul sito della stessa quale anticipata traccia promozionale di quell’incontro, sono ora pubblicate su «Retroguardia» con lo stesso scopo, in seno ad altra ma non dissimile amicizia.

Walter Benjamin, quando parla di Eduard Fuchs (1870-1940), può esserci utile per mettere a fuoco qualche aspetto del collezionista che fu Sergio Martinatto in relazione al nostro «Carissimo Pinocchio». Ovvio, se non si replica banalmente quello che Benjamin ha saputo dire non banalmente (e più complessamente) di Fuchs nel suo saggio famoso, ma lo si adatta, in seno a una certa libertà.

Martinatto, come ogni buon collezionista, fu un «pioniere»: un pedone che si apre una via e che avanza in territori più o meno vergini, in boschi di legno e di plastica e di tante altre materie con le quali fu riprodotto il burattino più famoso del mondo, a partire dalle ormai celebri pinocchiate letterarie e su fino ai pupi e ai giocattoli che gli hanno fatto compagnia. Incarna, più precisamente, il tipo del «ramasseur» che «trova un rabelaisiano piacere nella quantità». Ciò, ovviamente non esclude, la finezza dell’apprezzamento di ogni singolo oggetto (anche non pinocchiesco), né la capacità, espressa soprattutto in gioventù (ma non solo), di attraversarlo con creatività, graficamente e secondo altre modalità.

In un mondo che consuma tutto in fretta, via un acquisto che esaurisce in sé qualsiasi attenzione a ciò che si è comprato e vira alla standardizzazione sterile e ossessiva (magazzini riempiti di copie di nessun valore per milioni di euro, come si è potutto leggere ancora di recente, in pagine di cronaca non leggendaria), il collezionista, lungi dall’incarnare un reificatore, è uno dei pochi uomini che sa ancora acquisire, osando, per l’appunto, una collezione, che è poi una specie di ‘catalogo aperto’ ad altre e future archiviazioni, cioè un modo di fare storia, di parteciparvi, assumendone gli aspetti problematici e non azzerandoli in un presente ‘usa e getta’ o ‘compra e conserva n’importe quoi’.

In questa prospettiva, il collezionista conserva un legame con la prassi. Il suo è un lavoro, fisico, che si confronta anche con la fragilità di ogni realtà fisica, di soggetti e oggetti. Anche quando indugia e contempla nella maniera più metafisica quanto ha saputo apprezzare e raccogliere, attraversare ed esaminare, non si accontenta di offrirsi e offrire uno svago, un certo interesse. Detto questo, sa bene che agisce entro gli spazi, sempre più larghi, e i tempi, sempre più stretti, contingentati, della regressione sociale qui sopra appena evocata e sa che il passato non può essere messo «al riparo nei granai del presente». L’umanità muore e il suo inventario resta parziale e tuttavia pesante a tal punto da non concedere a quell’umanità di farlo suo, di continuare a farlo suo.

E qui ci si stacca dalla mentalità formalista di certi archivisti e filologi, la cui ricezione assomiglia talora al salvagente con la paperella di un bimbo lanciato a un’umanità in mare in piena tempesta. Mentre la ricezione del collezionista salva con una quantità sproposita di salvagenti e gommoni atti a recuperare, esprimendo così un’azione di non docile creatività, che è innanzi tutto una sorta di «eccedenza di forze», ottimistica e, per molti versi, democratica, e per davvero.

Seppellire e omaggiare i luoghi del seppellimento è cosa buona e giusta, ma recuperare e curare è cosa sacrosanta e significa diventare il depositario di un tesoro; e di un tesoro che solo un lavoratore indefesso sa mettere in valore, magari in maniera ridondante ma vitale, anche nei termini di una sopravvivenza di noi stessi.

Non è un caso che un documento inedito di Sergio Martinatto (1946-2021), quasi un racconto che sarà letto dall’amico Pompeo Vagliani alla giornata in memoria del 17 aprile 2024, intitolato Perché invidio Pinocchio e datato 27 maggio 2011, inizi con queste parole: «Affezionarsi agli oggetti è forse un modo per sopravvivere a noi stessi».


Breve nota bibliografica. Walter Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico (1937), in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1955), Torino, Einaudi (Nuovo politecnico, 4), 1966, pp. 79-123; Carissimo Pinocchio, Designer e grafici italiani ridisegnano il burattino più famoso del mondo. Italian designers and graphic designers reinvent the most famous puppet in the world, Milano, ADI Design Museum, 2023, con interventi di Luciano Galimberti, Giulio Iacchetti, Marco Belpoliti, Matteo Vercelloni e Andrea Branzi; Luciano Curreri, Play it again, Pinocchio. Saggi per una storia delle “pinocchiate”, Bergamo, Moretti & Vitali («I volti di Hermes», 17), 2017. E infine l’omaggio affettuoso a Sergio Martinatto pubblicato da Pompeo Vagliani e dalla sua équipe sul sito della Fondazione Tancredi di Barolo: https://www.fondazionetancredidibarolo.com/project/in-memoria-di-sergio-martinatto/

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.

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