Resistenza resilienza desistenza. Al Caffè Letterario “Le Giubbe Rosse”

Resistenza resilienza desistenza

Al Caffè Letterario Le Giubbe Rosse


di Stefano Lanuzza

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La città  [Firenze] è buia alle dieci e si dà il naso nei passanti. Lampadine a pila, azzurrate, come lucciole. Ci sono Montale ingrugnato, la Mosca ospitale, il conte Landolfi giocatore pazzo, il Luzi, il Bigongiari, mentre Carlo Bo fa il soldato a Genova, con facoltà di lettura di Malebranche in fureria. Verso sera la solita seduta alle Giubbe Rosse (ora bianche con controspalline rosse) dove il Poeta siede, in tre sedute (mattutina, vespertina e serale) quattro ore al giorno da tredici anni a questa parte, senza essere ancora morto di noia. Poi si mangia riuniti nella bettola di Bruno, col Poeta, col Conte, coi minori, col Rosai enorme, con tutte le gomita sulla tavola, col grifo nel piatto, orrendi intingoli e miserandi pezzi di palombo ed infinita fagioleria.

(C. E. Gadda, Lettera a P.G. Conti, luglio 1940)

Un argomento circa la resistenza, la resilienza e poi la desistenza, ossia la perseveranza, l’adattabilità o, infine, la rinuncia dei poeti a Firenze – città dove sembra concentrarsi tutto il maggiore Primonovecento letterario – può proporsi anche da quando la questione della qualità della poesia diviene un fatto di quantità. Infatti, col proliferare dei libri di versi, stampati, deplorevolmente, quasi sempre a spese degli stessi autori, quanto emerge di più non è la poesia bensì una poltiglia di confluenze forme linguaggi codici autodesignatisi ‘poetici’ e fin dal loro nascere destinati alla disattenzione, alla non-lettura o all’indifferenza.

Si dice che il pubblico della poesia sia costituito dagli stessi poeti o presunti tali, ma ciò è vero solo in astratto perché accade che gli stessi, pur conoscendosi (o proprio per questo), nemmeno si leggano fra loro… C’è da credere che non esisterebbe la crisi dell’editoria di poesia se ognuno di loro acquistasse almeno un libro di versi. Ne deriva che la poesia fallisca il proprio scopo conoscitivo ripiegando su un’onnicomprensiva autoreferenzialità dove i versificatori inscenano il loro isolamento che metaforizza un’incurabile solitudine collettiva… Temi, questi, riguardanti il duttile rapporto tra gli scrittori e l’habitat dello storico Caffè Giubbe Rosse in decorsi caratterizzati dall’obsolescenza delle ideologie, dalla vanificazione dell’impegno e da un qualunquismo rifluente nella ciarlatanesca subcultura new age.

In una Firenze commerciale città per turisti e ricchi imprenditori, sembrava venir meno la tradizione propulsiva delle Giubbe Rosse senonché, nel 1989, in quel Caffè epicentro di Piazza della Repubblica sembra assistere a una ripresa dell’antico fervore, qualcosa di più d’un fuoco fatuo. Ciò grazie a un rilancio rappresentato dalle iniziative del gruppo intermediale di Ottovolante che dà vita a un Festival della poesia con interventi d’autori di varie parti d’Italia. Nello stesso anno, il 19 aprile esce la rivista “Parapluie. Cantiere aperto di ricerca artistica e sperimentazione poetica”, dedicata al racconto breve.

Gli Incontri di filosofia e letteratura di un Gruppo Quinto Alto caratterizzano gli anni 1992-1993 segnando un altro ciclo del Caffè e prospettando diligenti riflessioni sulla contemporaneità.

Un’inedita presenza della critica letteraria a Firenze è compendiata nel Convegno nazionale sulla Letteratura italiana alla fine del Millennio organizzato dalla redazione di “Molloy” e tenuto alle Giubbe Rosse (16,17,18 dicembre 1994) a sottendere propositi progressisti di svecchiamento che al giorno d’oggi possono apparire generosamente ingenui, ma che furono autentici… Finché, nel 2013, una schierata gestione delle Giubbe Rosse accoglie il 10 novembre un incontro neofascista di Casa Pound.

Quelli cui ci si riferisce, all’inizio d’una crisi identitaria del Caffè, sono anche gli anni della contemporanea desistenza delle ultime sopravviventi riviste, benemeriti mezzi per poeti saggisti narratori che, mancando di supporti distributivi, hanno trovato alle Giubbe Rosse un tramite discretamente promozionale o una sopravvivenza sebbene non durevole. Come accade alla rivista “Molloy”… “Che bel titolo! Ho letto tutto: e mi sento d’accordo (tranne alcuni punti, qua e là)” scrive il critico e politologo Gianni Scalia in una delle lettere pubblicate nel n. 3/4, aprile-settembre 1989 della rivista. S’accodano il critico letterario Giacinto Spagnoletti (“‘Molloy’ costituisce un notevole sforzo di sincerità e di intransigenza […]. Si tratta di un inizio davvero magistrale con un coro di collaboratori di prim’ordine”) e la scrittrice Idolina Landolfi: “Complimenti per ‘Molloy’, di gran successo, a detta dei librai”.

Riporta il nr. 33, agosto 1990, del mensile milanese “Millelibri. Il piacere di leggere” (1987-1993): “Si contraddistingue sempre più per l’originalità delle proposte il trimestrale ‘Molloy’ [che] viene a colmare una lacuna nella vita culturale fiorentina, riallacciandosi alla grande tradizione delle riviste letterarie dei primi decenni del secolo, prima fra tutte ‘Solaria’. Il trimestrale – che si occupa sia di poesia sia di narrativa – prende il nome da un celebre personaggio di Samuel Beckett e si muove in un’area precisa, sia pure con eleganza e al di fuori di qualsiasi schematizzazione programmata: nei primi numeri della rivista i riferimenti sono stati Dino Campana, Tommaso Landolfi, Savinio e, fra gli stranieri, Rainer Maria Rilke, Franz Kafka, Dylan Thomas, Paul Celan”… Con successive apparizioni dei Masini Contini Ernestina Pellegrini Paul Celan Benjamin Péret D’Arrigo Strati Gabriel Cacho-Millet Sgalambro Ripellino Walter Pedullà Francesco Muzzioli Michel Butor Jean-Charles Vegliante Paolo Emilio Poesio Ikuko Sagiyama Hagiwara Sakutarô Jacques Bertoin Guillermo Fernandez… et alii.

Né l’esaurimento delle copie in libreria, né i prestigiosi collaboratori e nemmeno gli abbonati riescono a impedire la fine di “Molloy” dopo l’esordio e un dibattito pubblico nel 1989 alle Giubbe Rosse… La rivista (ISSN, International Standard Serial Number: 1120-2661), nata nel 1988, s’arresta nel 1994 – e predittiva circa il suo destino resta una lettera dell’allora direttore della casa editrice Feltrinelli Aldo Tagliaferri, studioso di Beckett, pubblicata nel citato fascicolo 3/4: “‘Molloy’: bel titolo, [ma] imprese del genere hanno un futuro, nel nostro paese, se hanno alle spalle un retroterra compatto, e amici degli amici […]. Non è poi un po’ troppo audace un impegno editoriale trimestrale in un paese dove scorre troppa carta stampata e dove l’analfabetismo di ritorno è onnipresente?… Quanto a ‘Molloy’, non si scoraggi, qualsiasi cosa accada. Nessuna impresa culturale libera e ‘spontanea’ ha serie possibilità di essere incoraggiata dai media”. Un realistico monito, questo di Tagliaferri; e, insieme, un cortese viatico per la desistenza. Pertanto, nella consapevolezza di un incombente, fatidico desistere, l’ultimo numero di “Molloy” esce, dopo una segnalazione della rivista da parte del giornalista e scrittore Gianni Barbacetto con l’articolo Dalla parte dell’alfabeto (“Leggere”, n, 49, aprile 1993), annunciando, un po’ beffardamente, di voler dedicare i futuri fascicoli – peraltro mai stampati – a un fantomatico personaggio dai connotati coerentemente beckettiani, tale Joseph Anepeta: qualcuno che non esiste, oppure… desiste.

(Dal libro inedito Porto franco della letteratura)

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[Leggi tutti gli articoli di Stefano Lanuzza pubblicati su Retroguardia 3.0]

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.

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