Marianna de Leyda e il suo Doppio

Alba Avarello, Marianna de Leyva. I segreti tormenti della Monaca di Monza, YouCantPrint, 2023, pp. 92, € 13,00


di Stefano Lanuzza

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Evocate da Alba Avarello in Marianna de Leyva. I segreti tormenti della Monaca di Monza (Lecce, YouCantPrint, 2023, pp. 92, € 13,00) sono come d’un personaggio dostoevskijano le ‘memorie dal sottosuolo’ e della joyciana monologante Molly dell’Ulysses (1920) le ambasce di Marianna de Leyva, personaggio realmente esistito e transustanziato da Alessandro Manzoni nella Monaca di Monza, la suor Virginia figlia del conte di Monza Martin de Leyva dallo scrittore ribattezzata col nome di Gertrude. Lei il personaggio più moderno del romanzo I promessi sposi (1827) ambientato nel Seicento e, nei capitoli IX-X, rivolto all’acuta indagine psicologica di una figura femminile che continua a intrigare lettori e studiosi. Manzoni ne descrive la “bellezza sbattuta” o un po’ sfiorente, il pallore, le labbra esangui, con l’imprevisto segno di civetteria femminile rivelato dalle ciocche di capelli neri che dal velo suorale le spiovono sulle tempie.

C’è questa donna che, dopo la monacazione forzata nel 1591, ritrovatasi fuori del mondo prende a raccontare attingendo alla propria intimità risentita, all’amareza per una condizione non voluta, alla frustrazione e al dolore, al rancore e all’odio per una cenobitica “gabbia di ferro” distruttrice della sua gioia di vivere, alle tenebre in cui è avvolta subendo un’esistenza repressa e senza scampo… Il convento, questo l’unico, dannato posto che suo padre e suo fratello hanno saputo assegnarle fin dalla nascita?

Affliggono il suo Io diviso una nevrosi che non l’abbandona, una forma di psicosi espressa nella continua tensione tra incerti desideri e senso di colpa, obbedienza e trasgressione, verità dei sensi ardenti e castigata ipocrisia comportamentale. Compressa dalle convenzioni, le restano tuttavia immuni la mente in perenne volo e parole vogliose di verità seppure spudorate, talora sordide fino all’indecenza, simili a una confessione lenitrice dell’anima e che, senza cautele, la getta fuori di sé.

Rivisitate dal testo redatto in prima persona dall’autrice aderente al romanticismo ma non al moralismo manzoniano, appaiono delle inermi sfide le profanazioni poste in atto da Marianna/Virginia/Gertrude per affermare una corporalità giammai placata e soverchiante. “Sono un flusso, un fiume,” prorompe con affanno struggente “a tutto mi penso estranea, mio Dio, chi sono io?” (Qui ergo sum, Deus meus? – cfr. Sant’Agostino, Confessioni). La insidiano l’indocile Doppio del suo Io recluso e frustrato, un persecutore che la stuzzica e irrita, una controfigura danzante nei suoi sogni, un Sosia inquieto, una sorta di Horla (cfr. Maupassant, Le Horla, 1886, 1887) che le martella l’inconscio, l’Ombra sfuggente che presto s’incarnerà in un tentatore fascinoso, latore di messaggi di dannazione che, paradossalmente, vorrebbero consolarla.

Chissà se può rivelarsi un ‘buon compagno’ il demone che, contro la domesticità del convento, s’ingegna di tentarla, d’angosciarla e persuaderla a contraddirsi, a essere ‘Altra’: “Un’altra che fa, pensa e desidera ciò che io mai vorrei fare ma che non ha la libertà di fare, se lo volesse”. Senza far trapelare niente di sé, serrata nell’autocontrollo, “Io è un Altro” potrebbe affermare ancor prima d’un Rimbaud. È, il suo, un Io mancante dell’Altro; e che, detto con Freud, “non è padrone in casa propria”.

Non si sente padrona di sé, suor Virginia, ed è stanca di essere come si vorrebbe che fosse: stufa d’annoiarsi, non sopporta di fare quanto “altri hanno deciso per mio conto, non sarà più così!”. Alfine, vuole smentire le altrui aspettative, ridestare il Doppio, da sempre è in lei, giungendo a rinnegare la parte di sé ordinaria, scontata e ovvia per dare spazio alla propria più autentica natura: il Doppio è lei ed è anche un Altro?… Un po’ si vergogna di simili caotici pensieri, ma poi prevale un “amor proprio che non si tace”.

Adolescente, Marianna ha amato col cuore il Crocefisso, quel cadaverino “piagato e segaligno” appeso alla parete d’una stanza rifugio della fervida educanda desiderosa di benedizione. Ma una volta, suscitando scandalo, scrive un biglietto a un paggio e per questo il padre la colpevolizza fino a farle manifestare, a mo’ di preteso risarcimento, l’aspirazione a prendere il velo: con le “nozze mistiche, l’anello al dito e il giuramento”. Ed è davanti al Vicario che – scrive Manzoni – lei pronucia la prima e non ultima delle sue menzogne: “Mi fo monaca, di mio genio, liberamente”.

Ora, nel monastero dov’è ostaggio anche per evitare un matrimonio indesiderato, si guarderà intorno vedendo che non tutte le suore hanno la vocazione: questa è meschinamente simulata, è un’evasione dal dominio delle famiglie, una fuga dalla vita almeno supplita con lo studio assiduo. Cosicché la sua cella diviene una sorta di “cenacolo intellettuale accogliente le assetate di cultura”, sperdute suorine che le si affidano.

Non approva simili sedute culturali l’ambiguo don Paolo Arrigone, uno che ha pure tentato d’insidiare suor Virginia, convinto che alle donne non debba essere consentito, col sapere, il libero pensiero. Eppoi, cosa sono mai le poesie di quella proterva, versi che se pure cantano il Creato ardiscono essere polemici nei confronti dei detentori del potere sulle donne?!

È opportuno” conclude Arrigone “riportare queste donne al silenzio”. Un proposito inaccettabile per Marianna/suor Virginia che, divenuta Madre badessa e Domina del convento, adesso s’induce a prudenti finzioni mentre cova dentro di sé una rivolta che la condurrà oltre i prescritti limiti. Criticamente si guarda intorno: Arrigone e la suor Candida Colomba sono amanti, lo stesso convento coi suoi riti e le usanze è una farisaica sentina di corruttele… Ma in fondo, piuttosto che star sempre a cercare la differenza tra bene e male, non si potrebbe tollerare, andare al di là dell’evidenza troppo palese o, possibilmente, ove sia opportuno, giustificare, sciogliersi da fin troppo prescrittive riserve? La santità? Non è per la carne. La purezza non s’addice al corpo e alla mente che, non tollerando le torture della castità e della solitudine, ricorrono all’immaginazione all’illusione alla fantasia, a una curiosità bramosa e incosciente: “Mi era subentrata una vana curiosità di vedere ciò che avviene nel mondo, i segreti che vi s’annidano”. Una nuova, “dolce concupiscenza” e una piacevole follia stanno mettendo in subbuglio la sua sofferta virtù.

È nel 1597 l’anno dell’incontro col conte Gian Paolo Osio, subdolo seduttore della novizia Isabella Ortensia, un grifagno predatore che da un po’ di tempo la sta osservando puntandola sfacciatamente: “Finché un giorno osò rivolgermi la parola”. Lei gli risponde – “La sventurata rispose” (Manzoni). Poi lo sfugge, poi lo pensa, lo cerca e lo guarda tremando d’emozione.

Rampollo d’una ricca famiglia monzese, Osio è bello, sì, anche se non proprio come lei vorrebbe: c’è in lui – Manzoni lo denomina Egidio e lo definisce “scellerato di professione” – qualcosa che confligge con l’armonia, ma fa trasalire di curiosità suor Virginia – manzoniana Gertrude. Quel blasfemo non crede alla morale cristiana, “una morale da schiavi […,] morale del gregge”. E il bene? Se obbligato, diventa male.

Le s’accosta, la “trattiene per il braccio” e mentre Gertrude, trasalendo, si scansa appena, lui le sussurra dolci parole che la offuscano e la fanno fuggire in preda a una tempesta di turbamenti.

La pervade una febbre che la fa delirare, con Osio/Egidio che la soggioga e le parla dell’inesistenza di Dio, delle utopie del bene e del male… Ma è il Maligno, il Doppio entrato lei quell’Osio che sta diventandole tanto caro? Una nuova energia l’anima facendola sentire spontanea e volubile, libera e irresponsabile. Sta cancellando il passato e il futuro; e, sconcertata, impetra soltanto il presente. Né dice di no al tentatore che con prepotenza le chiede un incontro.

Eccoli in parlatoio. Fuori, la primavera è in boccio. La stordiscono i profumi espansi nell’aria. Non se l’aspettava che Egidio l’afferrasse brutalmente, la colpisse, la gettasse sul pavimento e la violentasse addirittura sotto gli occhi complici di suor Ottavia, suor Benedetta e padre Arrigone. Ha 24 anni, lei; ed era vergine… Tacendo raccoglie le proprie vesti insanguinate e, in silenzio, mestamente s’allontana.

Intanto, il suo animo profano resta sospeso a sentimenti convulsi e contraddittori. Odia e ama colui che l’ha violata. Ha paura di rivederlo, ma l’aspetta. Lui che, provocandola, la fa sentire viva, sopraggiunge ogni volta, la scuote, ne mina le forze, l’annienta e la prende; e non gli importa che lei possa odiarlo. “Sia che mi ami, sia che mi odi, mi fai un favore: mi tieni dentro di te, è ciò che voglio” le dice beffardo.

Vieppiù prevale in lei la Duplicità (“Sdoppiata come sono”), posseduta dal brutale ganimede che nutre il “serpente primordiale, il tentatore”. Ne è preda, e lo accarezza mentre vorrebbe colpirlo. Infine, arrendendosi, non vuole che compiacerlo: “Accetto di essere amata il più ferocemente possibile, e più ne inventa e più lo assecondo”. Ciò, anche al voyeuristico cospetto “di altre consorelle sedotte da lui”, in uno scenario che sembra richiamare il soffocante boudoir del settecentesco De Sade.

Corre l’anno 1606, Gertrude ha 31 anni e c’è la giovane conversa Caterina da Meda che la ricatta: sa dei vizi della Signora e minaccia di rivelarli. Ma quando questa, una sera, si lamenta con l’amante nei confronti della ricattatrice, egli, senza indugio, va con Gertrude nella cella di Caterina e la uccide colpendola in testa con uno sgabello ferrato. Segue, in un orrido crescendo, la decapitazione della vittima fatta poi sparire in un pozzo… “Anche voi farete la stessa fine se vi comportate come lei” minaccia suor Virginia rivolgendosi alle terrorizzate suore, ormai prone all’abominio impadronitosi del convento.

Se mai ha desiderato un po’ di pace, ora un’insonne Marianna/Virginia/Gertrude sente che mai più potrà averne. Nel contempo, credendosi vittima di sortilegio, cerca rimedio rivolgendosi a due medici che, tra le epidemie dell’epoca, non mancano d’includere “il morbo gallico e la possessione diabolica”. Non la guariscono, ma possono appena esortarla ad avere fiducia e speranza non si sa in cosa. Lei fa penitenze digiuni riti magici, si nasconde per flagellarsi e si copre di ferite, ma Osio, avvedendose, la disprezza e deride avvinghiandola spasmodicamente, prendendola con violenza e infliggendole sempre nuovi piaceri esaltati dal dolore… “Siete scissa, amica mia” le dice, rimarcando lo stato di sdoppiamento della donna persuasa di avere ceduto l’anima al diavolo.

Badessa, Madre addolorata, brava Maestra, Signora illustre, puttana… – chi è davvero Gertrude? Estranea è la figura piena di sensualità che l’abita, o è lei stessa davanti a uno specchio che le rimanda immagini di cocente verità? Osio/Egidio la rimbrotta e ancora bruscamente la sveste del velo e degli indumenti baciandola e mordendola, le rinfaccia rabbioso la docilità verso chi le ha imposto l’insensata monacazione – essere una suora ‘tu devi’. Lui, il suo padrone, ora le “pare ubriaco, ma ha ragione”.

Più che mai vorrebbe punirsi, tentata dall’abissale pozzo nel quale vorrebbe precipitarsi. Non si uccide per non perdere la propria anima offerta un giorno al Dio ripudiato dal suo corruttore che non crede al Paradiso, ingannevole fola, e quanto dice di cercare è la “felicità terrena”. Rimane incinta, dopo che già una volta ha partorito (1602) un bambino morto. Adesso, ha il ventre ogni giorno più gonfio di Alma Francesca: che nasce nel 1604 e Osio terrà con sé o, più spesso, affiderà alla propria madre.

Luglio 1607: Marianna/Gertrude incontra l’imperturbabile cardinale Federigo Borromeo, verosimile ritratto della carità cristiana. Non è andato da lei per biasimarla o accusarla, bensì per capirla e confortarla. Ma entrambi non riescono a guardarsi negli occhi e, quando si congedano, appaiono perplessi: lei fingeva di dire la verità, lui ha finto di crederle.

Nel frattempo, settembre 1607, Osio/Egidio si è preso la briga di uccidere due che “parlavano troppo in giro” della Signora del convento: colpi di schioppo allo speziale Raniero Roncino, pugnalate al fabbro Cesare Ferrari. Non bastasse, attenta altresì alla vita di due scomode testimoni a conoscenza della tresca, suor Ottavia e suor Benedetta delatrici al servizio del Cardinale Borromeo.

È ormai con mani insanguinate che Osio accarezza il corpo di Marianna, presto tratta in arresto da otto guardie che ne vanificano i reiterati tentativi di suicidio. Sarà processata a Milano il 25 novembre 1607 in un’aula del Monastero di Sant’Ulderico al Bocchetto alla presenza del cardinale Borromeo. Lei confessa e ritiene d’avere detto l’intera verità confermando la relazione col conte Gian Paolo Osio – però “dichiaro di essere stata vittima di un maleficio”. Il conte, più colpevole di lei, le aveva mostrato una “pietra nera” facendogliela baciare. Da qui la stregoneria che l’ha pervasa, il “mal d’amore” che l’ha perduta, il Doppio impossessatosi della sua anima ancor prima che del suo corpo senza gloria e sitibondo d’amore.

La sentenza di condanna è emessa nell’ottobre del 1608: “Per plurima gravia, et enormia et atrocissima delicta”. Non c’è da sorprendersi, e bisogna accettare. Sarà murata nel Ritiro di Santa Valeria, ma prima le fanno sapere che Osio, tradito dall’amico Cesare Taverna conte di Landriano, è stato trucidato in una prigione del Palazzo Taverna. È il 1608.

Morto lui, anche lei si sente di non esistere: “Non sono più nemmeno io”. Si percepisce lieve, inconsistente, non più costretta a recitare una parte, murata in una prigione che è meno d’una cella: un esiguo sgabuzzino di “un metro e cinquanta per tre, un pertugio per l’aria e il cibo, e uno scolatoio per i bisogni corporali”. Vi trascorre quattordici anni e nel settembre 1622 sarà liberata forse per custodia e intercessione del cardinale Borromeo. Nata presumibilmente nel 1575, muore il 17 gennaio 1650 senza essersi allontanata dal Ritiro di Santa Valeria.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.