“La Volonté du roi Krogold” di Louis Ferdinand Céline (appunti di lettura) [Parte 2/3]

La Volonté du roi Krogold di Louis Ferdinand Céline (appunti di lettura)


di Luisa Crismani

.

Sequenza IV (p.63-74)

La prima parte descrive la paura nella città di Christianie. Il Re arriverà domani, si pensa, e si cerca di immaginare a quali punizioni tutti e ciascuno saranno sottoposti. La paura li fa pensare al peggio, e c’è una specie di corsa al rialzo sulle pene che si prevedono. Ma, oltre alla descrizione dei terrori, c’è, nell’elenco dei singoli o dei gruppi, il ritratto della vita in una grande città nordica nel medioevo: mestieri, professioni, infermità e malattie, ricchezze e povertà, superstizioni e religiosità, amministrazione della giustizia, pene e strumenti per metterle in atto.

La seconda parte, che è quella con una scrittura molto arcaicizzante, si sposta in un sotterraneo segreto, dove i sindaci del quartiere Arstrom sono riuniti per cercare di trovare un rimedio o magari una soluzione all’angoscia generale che minaccia di per sé di travolgere la città, ben prima dell’arrivo del Re.

Fanno venire, per affidargli in gran segreto una missione, tale Marchowy, facendogli balenare la possibilità di guadagnare cento o magari duecento scudi… Dovrebbe andare dal Re, nel suo accampamento, da solo e molto umilmente, e consegnargli le chiavi della città, implorandolo in ginocchio di perdonare la città e tutti i cittadini, per il loro peccato di ribellione, dovuto all’inganno e, tutto sommato, all’opera del Demonio, che era stato visto trascinare con sé l’anima di Gwendor tra nubi sulfuree, inseguito dagli arcangeli.

Marchowy si mostra titubante: è padre di famiglia, modesto artigiano, e non un eroe! Il suo mestiere è fabbro ferraio, da trenta e più anni, giurato, e conosce tutti i segreti di tutte le famiglie. Sa che molti nascondono in casseforti, sacche, sotterranei, sotto terra, tesori inestimabili. Perché dovrebbe andare lui da solo, con misere parole, a cercare di convincere il Re? A rischio della vita? E poi un re non si fa convincere da lamentele e pianti… per convincerlo bisogna presentarsi, i sindaci e lui tutti assieme con borse piene di denaro sonante! Denaro che può essere utile per assoldare nuovi eserciti…

I sindaci si spaventano, pensano che Marchowy possa venderli al Re e decidono di farlo fuori gettandolo dall’alto di una finestra. A nulla servono le sue implorazioni. Verrà gettato giù con una grande spinta, giù, sulla folla che arriva da ovunque, scappando spaventata perchè «Il Re arriva! Il Re arriva!».

Nuovi sfracellamenti, il povero Marchowy ma anche gli altri che hanno i corpi maciullati, nel fuggi fuggi generale. In realtà il re non è proprio arrivato ma un uomo ha visto i Tartari, i loro ciuffi sopra i campi d’avena, che salivano verso le fortificazioni.

L’interesse maggiore di questa sequenza sta nella scrittura. Quasi un Féerie pour une autre fois ante litteram. Con in più il linguaggio: tutto inventato, tutto creato, molto musicale, soprattutto nella seconda parte. Céline inédit, certo, ma completamente Céline. Non ha più bisogno di cercarsi, come in Londres. Si è trovato.

Sequenza V (p. 75-84)

Sequenza molto interessante per due motivi: la presenza di un personaggio, tardo di mente, che risolve una situazione critica; il fatto che Krogold, re nordico, ariano, si rivela più crudele dell’infedele Turco.

La storia è semplice: mentre Christianie aspetta con terrore il Re e la punizione, un vecchio racconta un episodio accaduto secoli prima, quando la città era assediata dai Turchi. Protagonisti stavolta sono gli “imagiers”, i depentori, che altro non sono se non fabbricatori di immagini sacre, specie di santini, che riproducono su cartoncini a vividi colori, vite di santi, episodi del Vangelo, miracoli…

Interessante come molto spesso, in questo romanzo, l’autore si affidi al racconto di qualcuno, stavolta un vecchio, prima abbiamo visto Wanda, che racconta cos’è successo al castello durante e dopo la battaglia, in seguito ne vedremo altri.

Ma cos’era successo, durante l’assedio dei Turchi? Larconief, un ragazzo ritardato, che ricorda il Jonkind di Mort à crédit, sentita una musica che gli viene dal cielo, preso da una specie di raptus, cuce e incolla su di sé quelle immaginette multicolori e così agghindato comincia una danza e invita gli altri depentori a ballare dietro di lui, e si avvia verso l’accampamento dei Turchi… i quali tutti scoppiano a ridere al vederlo… e poi eccitati dalla sarabanda (anche gli altri depentori dopo molte perplessità si sono uniti a Larconief), si ubriacano. Incattiviti dall’alcool cui non sono abituati, non ridono più tanto, violentano venti ragazze, ne rapiscono dodici e tre ragazzini grassocci per il Pascià, e abbandonano la città assediata, senza metterci piede, né prima né ora.

Questo il racconto del vecchio, che adesso ha un’idea: provare la stessa tattica con Krogold.

«Vestiamoci, cari compagni! Vestiamoci con i nostri fronzoli […] immagini a colori smaglianti e danziamo davanti al Re, voghiamo in tondo, all’avventura, allegri, e cantando, come i nostri compagni antichi, come loro con cuore coraggioso… […] Avanti tutti verso il nostro Re! Verso i suoi virtuosi e devoti arcieri! fratelli nostri in Gesù sulla Croce! Molto meno orribili e malefici! Molto meno crudeli e vandali dei Saraceni idolatri!»

Invece: quando gli arcieri laggiù in agguato vedono arrivare i depentori fu silenzio.

«Poi dal vallone salì il grido, poi due, poi dieci, un gran lamento, un clamore… a spaccare il cielo. Innalzandosi sopra le fortezze, la città, la torre… lontano sopra la foresta… E poi non si sentì più nulla».

Anche qui, in questa leggenda medioevale, Céline fa trasparire la sua pietas nei confronti dei più indifesi: Larconief è detto sempre “lo scemo”, come Jonkind era chiamato “l’idiota”, nessun “diversamente abile”, Céline non è mai ipocrita. E il suo senso della giustizia: gli infedeli sono stati più umani dei cristiani.

Un’ultima nota. Sul “tempo” Céline passa da anni a secoli a giorni a stagioni…

«Et lors passèrent bien des ans, et d’autres jours, et d’autres mondes, à saisons folles et saisons tendres, saisons de feu, saisons de givre. Larconief périt un Noёl, au point de l’aube, le pauvre niais gracieux au ciel.»

(E passarono ancora molti anni, e altri giorni ancora, e altri mondi, con stagioni folli e stagioni tenere, stagioni di fuoco, stagioni di brina. Larconief mori un Natale, all’alba, il povero ingenuo gradito al cielo).

Anche qui la sua poesia, fatta di piccole indimenticabili cose.

Sequenza VI (p.85-93)

E’ collegata strettamente alla sequenza precedente, e insieme segna un punto di svolta.

«Allora ci fu uno spavento, un terrore, un panico come non si era mai visto».

Dopo aver assistito al massacro dei depentori, tutta la città si precipita a cercare rifugio nella cattedrale, implorando pietà. Nelle case, nelle strade non rimane più nessun “vivente”.

E altre moltitudini, dalle campagne, dalle periferie, tutti sotto le volte dell’immensa cattedrale, scavalcandosi a vicenda, uno sopra l’altro “otto strati di corpi”. E molti muoiono soffocati o schiacciati. Mentre pregano, mentre cantano, implorando misericordia.

Il grosso dell’esercito arriva a mezzogiorno, saggiando per le strade porte e vetrine a colpi d’ariete e di lancia, rubacchiando qua e là, non grandi cose. Subito dopo seguono le legioni leggere e le lance franche, quindi gli scudieri del re che lo precedono su esuberanti cavalli da parata. Clodion il vescovo, fratello del re, in mezzo alla folla supplice, prega Dio di far ravvedere il re, che risparmi quella povera gente.

Il re arriva al tramonto e si ferma, sul suo cavallo nero, solo, davanti al portale. Il resto dell’esercito lo raggiunge in un poderoso schieramento, a dimostrazione di potenza: province, ducati, baronie, guardie Scite, Tartari, Kirghisi, il gran Khan dei balti. Nitriscono e scalpitano i cavalli, tutto il respiro dell’armata, uomini e animali, sembra la fucina di un ciclope.

Per tutta la sequenza il Re è descritto immobile a cavallo, con la pesante armatura addosso, faccia truce, pensieroso, non parla con nessuno. Intorno a lui una muta di cani, molossi forti e minacciosi, che abbaiano, saltano, ringhiano, si azzuffano tra loro, e la gente dall’interno della cattedrale li sente e ne ha paura.

Un pezzo di bue, crudo e sanguinolento, con l’osso, che il re si fa portare dal suo cuoco, li eccita ancora di più. Il re mangia, azzanna quella carne e il sangue cola sulla corazza e sul cavallo. Frusta i cani e si diverte alla loro rabbia. Poi fa cenno a Excelras, il suo indovino che se ne sta appartato su una mula, di avvicinarsi e gli dà un pezzo di quella carne, che Excelras addenta con denti aguzzi. I cani impazziti adesso saltano anche intorno all’indovino.

Il re entra nella cattedrale, sul cavallo che sprona sui due fianchi ma al passo. I cani gli vanno dietro, azzannano la gente e il cavallo alle froge, e il povero animale barcolla, poi scavalca la gente inginocchiata, verso l’altare. Adesso i cani si gettano sui fedeli, strappano coi denti vesti e carni… ce ne sono che muoiono in pozze di sangue. I paggi tentano una traversata ma la folla è troppo fitta, non ce la fanno.

Finalmente il re si gira e getta la carne sopra la gente, fuori dalla porta della cattedrale. E i cani corrono furiosi, fuori, sulla carne. Allora i fedeli ricadono in ginocchio e implorano pietà dal Re. Il quale passa in mezzo, scartando la folla, con gli occhi fissi sull’altare, dove il vescovo suo fratello continua a dire messa circondato da diaconi che cantano in coro.

Il re si ferma, estrae la spada, ne bacia il filo e poi la getta sopra la gente fino ai gradini dell’altare, dove cade con un rimbombo tale che la vetrata sul soffitto va in pezzi “facendo cadere briciole di luce”. Il vescovo solleva la spada, ne bacia il filo anche lui e la solleva a mo’ di croce, benedicendo i fedeli. E’ questo il segno che il re ha perdonato la città.

Osanna, segni di giubilo, messe una dopo l’altra, a sera un angelo scende dal cielo e una piuma dell’ala si brucia sulle candele, con un profumo talmente intenso di ambra, incenso e muschio che “molti caddero in estasi prosternati privi di sensi e vedendo Dio”.

Termina così la sequenza e anche la prima parte del romanzo. Con la spada che si trasforma in croce. Anche questo è Medioevo, sembra significare Céline. Ma oggi che leggiamo le cronache da Gaza, così simili a quelle da Christianie, ci chiediamo se non aveva davvero ragione lui, quando affermava che niente di nuovo ci sarebbe stato sotto il sole, perché la guerra e l’istinto di morte avrebbero sempre avuto la meglio…

(Continua…) 


[Leggi tutti gli articoli di Luisa Crismani pubblicati su Retroguardia 3.0]

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.