IL TERZO SGUARDO n.23: Vivere per raccontarla e scrivere per viverla. Marilù Oliva, “Cent’anni di Márquez. Cent’anni di mondo”

Vivere per raccontarla e scrivere per viverla. Marilù Oliva, Cent’anni di Márquez. Cent’anni di mondo, prefazione di Omero Ciai, Bologna, CLUEB, 2010

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di Giuseppe Panella*


Gabriel García Márquez è ormai universalmente riconosciuto come un maestro della narrazione romanzesca e l’autore di romanzi importanti e molto letti costruiti con il metodo letterario del “realismo magico”. A questa prospettiva di poetica sono legati romanzi ormai considerati come opere-mondo quali Cent’anni di solitudine e l’ Autunno del patriarca.

Eppure fino alla consacrazione ufficiale come scrittore con la saga secolare dei Buendía, García Márquez era stato quello che lui stesso definiva “un giornalista felice e sconosciuto” (1).

In buona sostanza, per lo scrittore colombiano, il percorso da compiere per arrivare alla fama è stato lento, faticoso e lastricato da una serie di vicende spesso entusiasmanti, spesso molto meno. Forse egli vive oggi una grande nostalgia per quel tempo – come sostiene Omero Ciai nella prefazione al saggio di Marilù Oliva:

«Qualcuno tra i suoi amici assicura che dietro alla sua ostinazione, alla sua lotta per evitare di concedersi, ci siano ragioni scaramantiche. Io temo invece che ci sia un rimpianto e tanta nostalgia del “giornalista felice e sconosciuto” che si divertiva a raccontare ai lettori colombiani litigi e dispetti delle attrici italiane del neorealismo e che, nella notte del suo 79° compleanno – quando, grazie a un tranello ideato da suo fratello Jaime, cenai con lui – avrebbe voluto perdersi ubriaco di whisky in qualche bar del casco viejo di Cartagena de Indias» (p. 8).

oppure si trova soltanto ad essere un grande scrittore che da qualche tempo non scrive più le straordinarie fabulazioni che affascinano per il fatto stesso di mescolare vero e falso, realismo e onirismo profondo, densità psicologica di costruzione dei personaggi e atmosfere nitide e intense.

Studente di giurisprudenza (una disciplina che non amava) all’ Universidad Nacional de Colombia a Bogotà, a diciannove anni, lo scrittore di Aracataca resta folgorato dalla lettura di La metamorfosi di Franz Kafka. Davanti ai suoi occhi si apre un mondo nuovo: quello della letteratura. Legge poi i quarantanove racconti di Hemingway, i romanzi spirituali e avventurosi insieme di Graham Greene, dove impara a capire l’essenza profonda dei Tropici, il loro mescolarsi continuo di follia e di ostinazione a vivere. Impara ad amare una molteplicità di esperienze:

«Delle quattro cose che Gabriel García Márquez ha dichiarato di amare davvero, il whisky – ma solo quello di malto e ben invecchiato –, il baseball, la musica popolare del suo paese – in particolare bolero, vallenatos, rumba –, e la diplomazia segreta, l’unica in cui sono ravvisabili risonanze latino-americane è la terza. Allo stesso modo, le sue preferenze rivelano un’indole aperta a molteplici contemplazioni: Béla Bartók come musicista, Francisco Goya come pittore, Orson Welles e Akira Kurosawa come registi, Il generale Della Rovere di Roberto Rossellini e Jules e Jim di François Truffaut come film, Giulio Cesare come personaggio storico, il giallo come colore ma solo quello scintillante del mar dei Carabi alle tre del pomeriggio, visto dalla Giamaica. Inoltre Edipo re come tragedia ma Gargantua e Pantagruel come libro, anche se tra i romanzi più cari figurano anche Edmond Dantès e il Conte Dracula. Nelle sue opere i personaggi europei si confondono con le creature della sua terra, poetas y mendigos, músicos y profetas, guerreros y malandrines, e il suo cuore resta affacciato sul Golfo del Caribe, là dove il vento soffia soavi brezze atlantiche sui porti di città coloniche depredate secoli fa dai pirati» (pp. 12-13).

In queste righe di presentazione generale si può già intravedere un possibile ritratto a tutto tondo dello scrittore, dei suoi temi maggiori, delle sue preferenze e delle sue proposte di scrittura.

Coprendo parallelamente lo spazio della sua vicenda personale con quella delle sue opere letterarie e giornalistiche, Marilù Oliva procede efficacemente nella ricostruzione del personaggio e delle sue ossessioni letterarie, mostrandole in atto nei suoi romanzi e nei suoi racconti e derivandole dalle sue vicende personali. García Márquez risulta, allora, una figura che potrebbe tranquillamente essere presente come personaggio in un suo romanzo (e spesso credo che lo sia). Inoltre la sua formazione culturale non è soltanto latino-americana ma si avvale della sua propensione al viaggio e allo sradicamento (pur con una sostanziale vocazione al recupero di una tradizione orale che è quella della sua infanzia e che ne mantiene il fascino inesitabile e inevitabile). Le lunghe permanenze a Roma, a Parigi, a Barcellona (più breve quella a Londra) spesso in condizioni di forte disagio economico e in una forma che ricorda molto le esperienze dei bohémiens di inizio secolo nelle grandi capitali della cultura fanno un tutt’uno con la passione dell’origine da lui dimostrata nel narrare la storia (e le storie) del suo continente di appartenenza. E non è un caso che, oltre a Cent’anni di solitudine, i suoi romanzi maggiori (Cronaca di una morte annunciata, L’autunno del patriarca, Il generale nel suo labirinto) siano tutti il frutto o di uno scavo nella memoria (2) o di un tentativo di ricostruzione storica delle vicende che hanno portato al presente del paese latino-americano (3). García Márquez, quindi, non ha mai troncato il cordone ombelicale che lo collegava alla sua infanzia in Colombia e alle storie ascoltate da nonni e zie nell’infanzia poi mitizzata trascorsa ad Aracataca. Il libro di Marilù Oliva segue con interesse i diversi passaggi della scrittura e dell’elaborazione linguistica messa in atto dallo scrittore colombiano, ne sviluppa i temi più importanti (il “tempo curvo” di Cent’anni di solitudine, ad esempio, per utilizzare un’espressione resa famosa da Cesare Segre che l’utilizzò come titolo di un suo testo contenuto nella raccolta I segni e la critica [4]), ne analizza le ossessioni e le metafore fondamentali, ne traccia, alla fine, un bilancio sia pure provvisorio. Se García Márquez può essere considerato uno dei maggiori affabulatori del Novecento questo è dovuto alla sua capacità di mescolare ricordo collettivo e vicenda individuale riletta però in una chiave mitopoietica prepotentemente onirica (5). La sua vicenda di uomo rappresenta il contraltare scanzonato e spesso irridente della sua carriera di scrittore. Merito di Marilù Oliva è di averlo saputo mettere in evidenza e con autorevolezza.

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NOTE

(1) Il richiamo è a una importante raccolta di scritti giornalistici dello scrittore colombiano che reca questo stesso titolo (G. GARCÍA MÁRQUEZ, Un giornalista felice e sconosciuto, trad. it. di E. Cicogna, Milano, Feltrinelli, 1974).

(2) Cronaca di una morte annunciata del 1981 (trad. it. di D. Puccini, Milano, Mondadori, 1982) è “un falso reportage e falso romanzo allo stesso tempo. Una falsa storia di un vero delitto, così dichiarò l’artista in un’intervista a Le Monde. Quanto abbia reso giustizia alla tecnica adottata, quella di rispettare la veridicità dei fatti e, al di là del perseguimento dei momenti autentici di un dramma, di riedificarne in forma fittizia alcune sezioni, è comprovabile solo confrontando la versione reale con quella artefatta” (p. 108). Cronaca fittizia di un delitto realmente avvenuto (il protagonista del romanzo, Santiago Nazar, in realtà si chiamava Cayetano Gentile e le ragioni della sua uccisione – il defloramento di una fanciulla poi ripudiata dal marito dopo le nozze per questo motivo – sono le stesse sia nella realtà che nel racconto di García Márquez), è probabilmente uno dei testi narrativi meglio riusciti dello scrittore di Aracataca.

(3) L’autunno del patriarca (trad. it. di E. Cicogna, Milano, Mondadori, 1983), considerato dal suo autore il romanzo più importante della propria produzione narrativa, è la storia della fine di un dittatore ormai di più di cento anni che racchiude nella sua parabola di vita le vicende di gran parte dei dittatori militari e non che hanno infestato nel secolo scorso l’America Latina. Esso “non ha un principio né un finale, la progressione che solca i paragrafi non è indicativa ai fini strutturali. La storia non poggia su un’impalcatura cronologica ma solo sull’idea del disordine e della distruzione. La mancanza i un sostegno cronologico conduce a un anacronismo che relega il tempo ad un’elaborazione degli eventi in balia dei capricci del popolo. Anche in questo caso – come nelle opere precedenti – realtà e mito si intrecciano in un contorsionismo caleidoscopico difficilmente ricostruibile ab imo. Ne esce un patriarca inventato ma riflesso negli specchi dei tanti dittatori che hanno devastato l’America del Sud negli ultimi duecento anni.  Gli esempi sono in ogni direzione e ciò spiega come la letteratura sudamericana trabocchi di romanzi incentrati sullo stesso tema…” (pp. 101-102). Il generale nel suo labirinto (trad. it. di A. Morino, Milano, Mondadori, 1989), invece, “è dedicato agli ultimi anni di vita di Simón Bolívar, el Libertador, e ai ricordi della vicenda che lo rese tale” (p. 115).

(4) Cfr. C. SEGRE, I segni e la critica. Fra strutturalismo e semiologia, Torino, Einaudi, 1969.

(5) García Márquez condivide quest’indubbio merito con il suo ex-amico Mario Vargas Llosa dalle cui posizioni politiche (il rifiuto del castrismo, la passione filo-occidentale) sicuramente è assai lontano. Non va dimenticato, però, che Vargas Llosa ha dedicato allo scrittore colombiano un libro assai denso e teoricamente molto intenso (M. VARGAS LLOSA, l García Márquez. Historia de un deicidio, Barcelona, Editores Barral, 1971). In esso, lo scrittore peruviano sostiene che “scrivere romanzi è un atto di ribellione contro la realtà, contro Dio, contro la creazione di Dio che è la realtà. E’ un tentativo di correzione, cambio o abolizione della realtà concreta, il tentativo di sostituirla con la realtà fittizia inventata dall’autore. Lui è un dissidente: crea una vita illusoria, crea mondi di parole perché non accetta la vita e il mondo così come sono (o come crede che siano). La radice della sua vocazione è un sentimento di insoddisfazione verso la vita; ogni romanzo è un deicidio segreto, un assassinio simbolico della realtà” (citato dall’originale e poi tradotto in italiano in nota dall’autrice di questo saggio alle pp. 48-49). Su questi stessi temi, cfr. anche E. CLEMENTELLI, Gabriel García Márquez, Firenze, La Nuova Italia (Il Castoro 95), 1974.

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*Il primo sguardo da gettare sul mondo è quello della poesia che coglie i particolari per definire il tutto o individua il tutto per comprenderne i particolari; il secondo sguardo è quello della scrittura in prosa (romanzi, saggi, racconti o diari non importa poi troppo purché avvolgano di parole la vita e la spieghino con dolcezza e dolore); il terzo sguardo, allora, sarà quello delle arti – la pittura e la scultura nella loro accezione tradizionale (ma non solo) così come (e soprattutto) il teatro e il cinema come forme espressive di una rappresentazione della realtà che conceda spazio alle sensazioni oltre che alle emozioni. Quindi: libri sull’arte e sulle arti in relazione alla tradizione critica e all’apprendistato che comportano, esperienze e analisi di oggetti artistici che comportano un modo “terzo” di vedere il mondo … (G.P.)

Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.