UN LETTORE DI PROVINCIA. Serra, la letteratura e altro. Saggio di Giuseppe Panella

Un lettore di provincia. Serra, la letteratura e altro (Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato, a cura di Vincenzo Gueglio, Palermo, Sellerio, 1994; Renato Serra, Mio carissimo. Un carteggio con Luigi Ambrosini (1904-1915), a cura di Andrea Menetti, Parma, Monte Università Parma, 2009)

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di Giuseppe Panella

Quando Renato Serra muore sul monte Podgora il 20 luglio del 1915, meno di due mesi dopo l’inizio della Grande Guerra, è ormai un critico letterario abbastanza conosciuto. La sua fama, però, sarà in gran parte postuma e alimentata dagli amici della “Voce” con i quali era in dimestichezza non solo culturale. La prima edizione degli Scritti venne, infatti, curata da Giuseppe De Robertis (in collaborazione con Alfredo Grilli), uno degli interlocutori primari dell’ Esame di coscienza di un letterato, pubblicato il 30 aprile 1915 proprio su “La Voce” e, quasi subito dopo la morte, ristampato insieme ad altri testi e lettere per le edizioni dei fratelli Treves di Milano nel 1916. Nonostante la grande fortuna di questo testo, tuttavia, e nonostante l’utilizzazione fattane da una generazione intera di critici italiani di grande spessore e qualità, il rischio di una sua (sotto)valutazione in chiave storicistico-biografica è ancora grande. Un testo come l’Esame…, infatti, può essere considerato una sorta di testamento spirituale (alla luce di quanto sarebbe accaduto di lì a poco) mentre, invece, non lo è affatto a meno di non credere in misteriose qualità medianiche del suo autore e le diatribe per anni succedutesi sulla religiosità o il laicismo di Serra poco aggiungono a un sistema di lettura dei testi che è realmente in anticipo rispetto ai risultati migliori della critica letteraria a venire (stilistica o meno).

La qualifica che Serra si diede di “lettore di provincia” era probabilmente ben azzeccata ma non veritiera (1). La “provincia” cui alludeva era quella reale da lui abitata (la Cesena fin de siècle e di inizio Novecento [2]) , ma non si trattava certo di una “provincia” culturalmente datata.

Le letture di Serra furono tali da coprire in maniera rilevante e massiccia le lacune della formazione universitaria precoce e se il magistero di Carducci pesò evidentemente sempre sulla sua formazione, l’ultimo suo modello di riferimento fu certamente un Nietzsche acquisito in maniera non corriva (è degli ultimi suoi anni di vita la lettura della Vie de Frédéric Nietzche di Daniel Halévy pubblicata da Calmann-Lévy nel 1909 e poi tradotta nel 1912 proprio da Luigi Ambrosini per l’editore Bocca di Milano – un libro che per molti anni è stato una delle principali forme di accesso in Italia al pensiero del filosofo tedesco prima dell’edizione critica e gli scritti relativi di Giorgio Colli).

L’ Esame di coscienza di un letterato, dunque, è tutt’altro che uno scritto d’occasione biografica – è un progetto di vita che considera la letteratura come una parte essenziale di esso.

«Ripetiamo dunque, con tutta la semplicità possibile. La letteratura non cambia. Potrà avere qualche interruzione, qualche pausa, nell’ordine temporale: ma come conquista spirituale, come esigenza e coscienza intima, essa resta al punto a cui l’aveva condotta il lavoro delle ultime generazioni; e, qualunque parte ne sopravviva, di lì soltanto riprenderà, continuerà di lì. E’ inutile aspettare delle trasformazioni o dei rinnovamenti dalla guerra, che è un’altra cosa: come è inutile sperare che i letterati ritornino cambiati, migliorati, ispirati dalla guerra. Essa li può prendere come uomini, in ciò che ognuno ha di più elementare e più semplice. Ma, per il resto, ognuno rimane quello che era. Ognuno ritorna – di quelli che tornano – al lavoro che aveva lasciato; stanco forse, commosso, assorbito, come emergendo da una fiumana: ma con l’animo, coi modi, con le facoltà e le qualità che aveva prima» (3).

E come potrebbe essere stato o essere ancora diversamente? Per Serra la letteratura, buona, cattiva, scadente o meravigliosamente articolata e scandita resta sempre letteratura; non è e non potrà mai essere la Vita. L’illusione era però stata questa e, soprattutto, che essa sola potesse investire e surrogare la realtà e la natura dell’esistenza. Dopo aver esibito con competenza le sue conoscenze nell’ambito della letteratura francese a lui contemporanea e aver ricostruito l’atteggiamento assunto in quei primi due anni di guerra dai vari Barrès, Bergson, Boutroux e Claudel e il da poco caduto sul fronte della Marna Charles Péguy, (4) il tono di Serra si fa più amarognolo e deluso:

«O in Italia; quante rivelazioni, spostamenti, di gente che nell’agitazione che ci trasporta ha cambiato figura: gente seria, stimata, valente che ha lasciato vedere angustie insospettate dell’intelligenza, debolezze, bassezze dell’anima: e altri, accidiosi, che si sono svegliati; spiriti difficili, che si sono fatti semplici; anime leggere, vane, che hanno obbedito a una voce austera di dovere. Così diciamo, e sappiamo che non c’è niente di vero. All’infuori di qualche modificazione di accento, portata dalle circostanze, o sia guadagno di semplicità o sia peggioramento di enfasi, all’infuori del mutar materialmente gli argomenti e le occasioni dello scrivere, tutto è com’era; un seguito della letteratura di prima, una ripetizione, se mai, per la fretta del lavoro, che approfitta delle abitudini più facili e più alla mano. Non c’è mai stata tanta retorica e tanto plaqué come in codesta roba della guerra» (5).

La letteratura non aggiunge nulla alla guerra e la guerra non aggiunge nulla alla letteratura. Per Serra neppure la vita è capace di dare qualcosa alla letteratura se quest’ultima non è capace di sorreggersi da sé, con le proprie forze, con la propria capacità di essere qualcosa che vale e che resiste nel tempo, che si propone come un dato culturale in grado di funzionare senza bisogno di altro e di esterno:

«Sempre lo stesso ritornello: la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia. Il cuore dura fatica ad ammetterlo. Vorremmo che quelli che hanno faticato, sofferto, resistito per una causa che è sempre santa, quando fa soffrire, uscissero dalla prova come quasi da un lavacro: più puri, tutti. E quelli che muoiono, almeno quelli, che fossero ingranditi, santificati; senza macchia e senza colpa. E poi no. Né il sacrificio né la morte aggiungono nulla a una vita, a un’opera, a un’eredità. Il lavoro che uno ha compiuto resta quello che era. Mancheremmo al rispetto che è dovuto all’uomo e alla sua opera, se portassimo nel valutarla qualche criterio estraneo, qualche voto di simpatia, o piuttosto di pietà. Che è un’offesa: verso chi ha lavorato seriamente: verso chi è morto per fare il suo dovere» (6).

Con poche battute e definitive, Serra salda il conto ai teorici della guerra come “sola igiene del mondo”, ai sostenitori della guerra come “lavacro di sangue”, ai dannunziani di basso profilo che approfittano della guerra in corso per farsi belli delle penne di un pavone che non hanno mai catturato in prima persona e anche e soprattutto a D’Annunzio stesso così come ai futuristi che non gli erano mai stati particolarmente simpatici o vicini. La guerra non ha nulla a che vedere con la letteratura perché in battaglia ci vanno sempre dei soldati, non degli scrittori o degli artisti o dei letterati e l’attività bellica non ha nulla di bello o di sublimemente condotto seguendo i dettami dell’epica (come si illudevano, infatti, D’Annunzio o Marinetti). La natura dell’agire condotto sotto il comando militare non può essere che legata all’adeguamento e all’obbedienza agli ordini ricevuti – è legato alla pratica quotidiana della rispondenza passiva agli stimoli, è “attività macchinale” (come Serra aveva appreso da Nietzsche e dalla sua Genealogia della morale[7]). Di conseguenza, in guerra la letteratura va lasciata da parte e non può essere considerato un modello di riferimento o un metodo di giudizio per chi combatte e soffre e muore. La letteratura che nasce dalla narrazione delle vicende belliche è altra cosa e vale come opera della scrittura, non dell’azione condotta nelle “tempeste d’acciaio” (come le chiamerà poi Ernst Jünger). Il modo e le forme con cui giudicare i libri sono altri e risultano interni alle opere stesse da analizzare e da verificare nelle loro espressioni profonde di rappresentazione dello stile e della scrittura dei loro autori. Su questo punto, Serra non defletterà né verrà meno e non si appiattirà mai su un contenutismo di maniera o di moda.

Nell’Esame…, è esaminata e analizzata per quel che è e la capacità di vederla a distanza come una parte della vita e allo stesso modo della natura e del sentimento del mistero che in essa alberga rimane intatta, non contaminata dalla polemica con gli avversari morali di sempre.

«Sull’orlo estremo della guerra, a poche settimane dalla morte, la vita consente a Serra quest’ultimo dono: i sei giorni cesenati in cui scrive l’Esame, un’intuizione rigorosa di se stesso, ma insieme una spettroscopia straordinariamente lucida e penetrante dei bisogni psichici d’una generazione, a cui l’ora si appresta a dare finalmente, dopo una lunga attesa, una risposta. Ma lo specifico serriano consiste in questo, che – nella sua divinazione di se stesso e degli altri – egli non sente il bisogno di ripari ideologici, non cerca moventi e legittimazioni esterne alla sua interna brama, e non si giustifica. Ci si apre dinanzi, con il suo disperato desiderio di lasciarsi andare a ciò che sensualmente gli promette appagamento, senza cercare di razionalizzarlo, di porlo al servizio d’un fine, schivando quelli che non gli appaiono che dei pretesti. Quest’abbandono alla guerra trova il suo fine in se stesso, è estraneo alla storia e non si legittima nell’ideologia. A questo modo illumina, anche negli altri, i risvolti e le contraddizioni interne degli alibi patriottici e delle razionalizzazioni a posteriori» (8).

Le lettere ad Ambrosini e non soltanto quelle dell’ultimo periodo (ben curate da Andrea Menetti cui si deve anche un prezioso lavoro di ricerca e di cura grafica) testimoniano di un’amicizia e di un apprendistato, fatte come sono di narrazioni spesso minutissime di eventi personali (e spesso pubblici), arricchite da bozzetti quasi narrativi (9) e da considerazioni dal sapore di una già conseguita saggezza. Ma sono anche preziose per capire come si è potuti arrivare a costruire una mitografia di Serra che travalica e va assai spesso al di là le ragioni pur imperiose del suo magistero critico-letterario. Nell’ultima lettera presente nella raccolta a cura di Menetti e che è del 12 luglio 1915 si possono leggere ancora espressioni che sembrano prese dall’Esame…:

«Se dovessi scrivere, son queste le impressioni che vengon fuori prima: contatto con la terra, colori e respiro di questa campagna carica di verde – finalmente siamo arrivati fra le colline, e cominciano i boschi – di cui si empiono gli occhi in tutte le ore dei giorni lunghi e pieni come secoli. Come si fa subito l’abitudine a tutte le altre cose: il rombo della granata che t’ha scottato colla vampa, lo senti rotolare via per il cielo vuoto come una cosa indifferente. Questo per l’esperienza fisica. Per gli uomini e per la vita, ci sarebbe molto di interessante da notare; ma son cose complesse, e non si possono scrivere. E poi non son fatti, ma stati d’animo e adattamenti. In Tolstoi c’è quasi tutto, ma sotto un aspetto solo, forse. Quanto a me, son contento anche di chi mi sta vicino, e di tante cose: non sono una rivelazione, ma una conferma di ciò che ho sempre conosciuto. In ogni modo si va» (10).

L’accenno a Tolstoi è significativo – Serra si riferisce all’episodio del principe Bolkonskij ferito ad Austerlitz  che riprende conoscenza dopo il fatto d’arme in cui è stato colpito e vede il mondo con occhi diversi e stupiti – e qualifica in modo esplicito il legame tra vita e letteratura rivisto e rivissuto

dall’uomo in procinto di cimentarsi con un evento di cui non ha esperienza (se non libresca). Non è la letteratura a prenderlo ma le sensazioni che ad essa sono ascrivibili. Allo stesso modo, in tutto il carteggio con Ambrosini, tra vita e letteratura c’è lo spessore di un distacco che trasforma l’arte in oggetto di affezione ed evita la molesta contrazione tra letterarietà ed esperienza esistenziale (al contrario della tradizione decadente e poi futurista). In Serra non c’è mai l’idea che la vita possa farsi un’opera d’arte ma le due sponde sono vedute da lontano perché non siano attraversate troppo facilmente. Nella lettera del 7 agosto 1905 che per l’amico e sodale De Robertis segna la nascita dello “scrittore” Serra, finalmente liberatosi del mantello dell’erudito e del “lettore di professione”, si possono leggere accenti non lontani dal futuro Esame…:

«Questa veste ondeggiante di monaco, queste ciabatte che m’obbligano a una lentezza capricciosa e tranquilla, tutto ciò che qua dentro mi sequestra dagli uomini, dai loro usi e dagli affanni, mi rende più sicuro più lieto di me; il mio corpo e il mio spirito ritrovano un’agevolezza, così lontana dalla goffaggine ben nota delle vesti e delle parole e dei modi che sempre m’ha afflitto: e conto il sole, filtrandomi tra le grandi persiane verdi nella camera tacita, sui letti bianchi e sui muri celestini, par che mi bagni di frescura e di pace così le amarezze e i rimpianti degli anni perduti, della dolce vita ch’io non so bere, dell’amore che non ebbi, dell’arte che non so, mi si tramutano qui in un piacevole incantamento di memorie serene, in un sopore di quieti desideri, in uno splendore di fantasmi molto grato – ch’io posso rimirare e fingere a mille e mille più nuovi, poi ché nulla mi urge, nulla mi tocca da presso; tutto è indefinito, indistinto, tra il sonno e il sogno. Tutti uguali i giorni; e immobile l’ozio: e ogni azione, decisione, ogni battaglia lontana. – » (11).

Non manca poi molto all’explicit dell’Esame…. , all’idea cioè di una vita piena ancora da vivere di cui la letteratura è parte ma non esaurisce e non tracima nell’esistenza e nel suo sentimento del tempo, a quella convinzione di essere arrivato a una sorta di compiutezza che include la critica letteraria senza escludere la capacità di vivere e di capire la realtà del mondo esterno (sia esso l’Ospedale descritto in quella lettera lontana sia esso il Campo di Battaglia o la Guerra come fenomeno da comprendere e analizzare e dal quale non bisogna lasciarsi fagocitare o completamente annichilire). Era quello stesso sentimento di comprensione del testo che attraversava le sue letture, mettiamo, di Paul Fort o di Carducci o di Pascoli o di D’Annunzio:

«Tutte le inquietudini e le agitazioni e le risse e i rumori d’intorno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia speranza. Quando tutto sarà mancato, quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione, allora ci umilieremo: oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza. E questa è tutta la certezza che mi bisognava. Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione. Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un minuto dell’attesa, che mi appartiene. Dirai che anche questa è letteratura? E va bene. Non sarò io a negarlo? Perché dovrei darti un dispiacere? Io sono contento, oggi» (12).

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NOTE

(1) E assai lucidamente ha fatto Ezio Raimondi a scegliere di convertire il titolo del suo libro aurorale da Il lettore di provincia, pubblicato da Le Monnier di Firenze nel 1964 in Un europeo di provincia. Renato Serra adottato nella sua ristampa aumentata e rivista per l’editore Il Mulino di Bologna effettuata nel 1993.

(2) Rievocata ad esempio in una delle ultime lettere ad Ambrosini: “[…] Forlì, Cesena vuote, colle strade chiare e fresche nel torrente del sole, le donne smarrite in casa e la vita che non ha ancora ripreso il suo meccanismo ma lo cerca – tutta un’infinità di cose che io non sono arrivato a stabilire se siano nuove e curiose, o piuttosto vecchie e semplici solite e naturali: mi parevano interessanti quando non avevo voglia di muovermi dal mio vagone per osservarle; e poi quando c’ero in mezzo mi pareva che fossero proprio quelle che avevo preveduto sempre, che conosco da prima di nascere; e infine mi indispettivo contro me stesso per questa conoscenza che prova solo d’esser già quasi vecchio (forse hai ragione tu: bisognava aver vent’anni e non trenta)” (R. SERRA, Mio carissimo. Un carteggio con Luigi Ambrosini (1904-1915), a cura di A. Menetti, Parma, Monte Università Parma, 2009, pp. 217 -218 – la lettera e datata 7 giugno 1915). Per molti particolari biografici, cfr. G. PACCHIANO, Renato Serra, Firenze, La Nuova Italia (IL Castoro 39), 1970.

(3) R. SERRA, Esame di coscienza di un letterato, a cura di V. Gueglio, Palermo, Sellerio, 1994, pp. 12.-13.

(4) R. SERRA, Esame di coscienza di un letterato cit. , pp. 19-20: “Parlavo prima di letterati e pensavo a quel povero caro Péguy. Come avremmo voluto, dopo aver saputa la sua fine, accordargli per un momento un poco più di quella poesia e di quella felicità a cui tendeva la pena della sua vita! Mi ricordo di avere riletto molte pagine del suo Mistero [della carità di Giovanna d’Arco] con una attenzione e una premura quasi dolorosa; per scoprire nella sincerità di quel linguaggio così laborioso e scrupoloso e tenace la bellezza e la forza lirica che non avevo mai saputo veder prima: che non c’è. Così ho seguitato a commemorarlo, sulle pagine un po’ scure e solide dei suoi libretti, dov’è scritta la sua giovinezza e la sua mistica e la sua battaglia, punto per punto, e passo per passo, e presa per presa, con quella complicazione che pare intricata e spezzata ed è semplice e aderente come il passo di un campagnolo sulla terra, ho seguitato a commemorarlo, con una malinconia che l’umiltà faceva più dolce. Nessun bisogno di ingrandire l’uomo che ha scritta Notre jeunesse, che parlava dei settantacinque così gracili smilzi damerini o di sé così nodoso rugoso contadino: la guerra l’ha fermato, l’ha coricato sul suolo del suo paese, calmo, fermo, superiore a tutti i nostri movimenti di un’ammirazione inutile come i rincrescimenti e le resipiscenze”.

(5) R. SERRA, Esame di coscienza di un letterato cit. ,  pp. 13-14.

(6) R. SERRA, Esame di coscienza di un letterato cit. ,  p. 19.

(7) Su questo aspetto fondamentale della teorizzazione dell’ultimo Nietzsche, mi permetto di rimandare al mio “Assassini nati. Ressentiment e compassione nella Genealogia della morale di Friedrich Nietzsche”, in Aa. Vv. Nietzsche. .La stella danzante, a cura del gruppo Quinto Alto, con una bibliografia a cura di G. Panella e L. Scopelliti, Firenze, Shakespeare & Company, 1996, pp. 29-62.

(8) M. ISNENGHI, Il mito della Grande Guerra.da Marinetti a Malaparte, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 135-136.

(9) Il racconto della disastrosa seduta di laurea di Ambrosini, ad esempio, con le figurine campite sullo sfondo dei vari e svagati commissari d’esame, tra cui uno sconsolato e sconsolante Pascoli, è in realtà da antologia  (è la lunga lettera a Serra del 3 luglio 1907).

(10) R. SERRA, Mio carissimo. Un carteggio con Luigi Ambrosiani (1904-1915) cit. , p. 241.

(11) R. SERRA, Mio carissimo. Un carteggio con Luigi Ambrosiani (1904-1915) cit. , pp. 56-57.

(12) R. SERRA, Esame di coscienza di un letterato cit. , p. 49.

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Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.