TEMPO DELLA RIVOLTA E MOMENTO DEL QUOTIDIANO. Il racconto degli anni di piombo. Saggio di Giuseppe Panella

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di Giuseppe Panella

«Battete in piazza il calpestio delle rivolte! In alto, catena di teste superbe! Con la piena d’ un nuovo diluvio laveremo le città dei mondi … »
(Vladimir Vladimirovič Majakovskij )
 
«Ciò che rende terribile questo mondo è che mettiamo la stessa passione nel cercare di essere felici e nell’impedire che gli altri lo siano»
(Antoine de Rivarol)

 

 

ultimo-sparo_-cesare-battisti1. L’ultimo sparo (ovvero la Terra vista dalla Luna)

 

Individuare nella narrativa italiana e, in particolare, in quei romanzi che possono essere considerati significativi riguardo all’argomento, non foss’altro che per la loro successiva trasformazione in opere cinematografiche (quale condizione esemplare per tutti gli altri può essere considerata quella di Caro Michele di Natalia Ginzburg che, pubblicato nel 1973, diventa un film diretto da Mario Monicelli nel 1976), evidenziando in essi i rapporti tra vita quotidiana, immaginario collettivo e vicende legate al terrorismo, appare un’impresa oltremodo interessante anche se di certo difficile per l’eccessiva vicinanza dei fatti in essi narrati. In questo caso, è particolarmente significativa la capacità di cogliere tali aspetti attraverso la narrazione e la messinscena teatrale presenti in Corpo di stato di Marco Baliani (Milano, Rizzoli, 2003) che, pur partendo da un canovaccio drammatico corredato però di musiche e foto d’epoca, diventa poi l’analisi descrittiva di alcune vicende (certamente pubbliche ma poi mescolate a quelle più private) di quegli anni.

Piuttosto che cercare la risposta nella ricostruzione storica o nella diatriba ideologica, sarà forse opportuno, in sede critica, provare a leggere, in quello snodo indissolubile che si crea tra immaginario e scrittura (il che, di solito, costituisce, la realtà della pratica letteraria), il senso di quegli anni sia dalla parte degli attori diretti (anche se non protagonisti) quanto dalla rappresentazione degli spettatori, di chi visse quella stagione, cioè, senza esservi coinvolto completamente ma la osservò con gli occhi della quotidianità e ne venne colpito, ma non in maniera definitiva o tale da impedirgli degli sviluppi futuri in senso diverso.

E’ quello che accade al protagonista-Narratore in prima persona di Piove all’insù:

 

«Chissà dove saremmo arrivati se avessimo puntato alla precisione, invece di accontentarci di quelle nostre astrazioni desideranti. Avevamo così forte nelle viscere il malessere del mondo agonizzante che se ci fossimo armati di esattezza forse ne avremmo deciso noi le sorti. Ma ci bastava il linguaggio contorto e oscuro delle nostre emozioni. Uno dei nostri giornali ora titola così: La rivoluzione è finita, abbiamo vinto. E’ il pensiero più lucido di quella stagione. Ma pensare la fine con lucidità è biologicamente impossibile: puoi enunciarla, puoi pensare che dovresti pensarla, puoi avvicinarti come fanno i matematici, allontanandosi in realtà a distanze siderali, inserendo fra il pensato e l’impensabile infiniti pensieri sempre più piccoli, e ognuno di questi pensieri dice che arrivarci è impossibile. Siamo di fronte alla fine, motore di ogni mercato, virtù delle banche, lacuna delle utopie: il denaro, nei suoi canali immateriali, conosce le ragioni del tramonto e sa metterne a frutto le risorse. Noi, inadatti alla rivoluzione perché il luogo della rivoluzione è l’infinito, il futuro, sogno da figli dei fiori in tempo di benessere, svanito, noi passeremo dal potere infinito della nostra adolescenza carnale all’infinita frustrazione che muove al consumo. Di sé o di merci. E di vite come merci. Vite di morti, persi in grovigli di ribellione, furti d’appartamento, droghe pesanti, pistola, delusione o carriera. Alcuni finiranno per decidere che sopravvivere significa emergere, schiacciare, tagliare, votati infine alla regola della supremazia naturale, partiti da lontano per approdare al fascismo elementare della vita vissuta come un diritto del migliore, del più forte, della più bella. Di qui a pochissimo, tanti di noi parleranno come gangster, orgogliosi d’essere entrati nel mondo degli adulti: “Gli ho fottuto la donna”, “Sua madre è piena di soldi, facciamogli l’appartamento”, “Hai pulito la baiaffa? Oggi si spara”, E’ un frocio, non ha le palle”. “Deve morire”. E’ pieno di gente che invoca il salto di qualità. Clac! Quasi sempre è il rumore che fa il coperchio di una bara» (1).

 

Luca Rastello coglie in questa riflessione affidata ai ricordi del protagonista del suo splendido romanzo Piove all’insù la sostanza morale di quello che avvenne tragicamente negli anni a partire dalla rivolta studentesca del 1977. Passando attraverso l’evoluzione strategico-militare dei cosiddetti “anni di piombo” (culminati nei drammatici cinquantacinque giorni del sequestro di Aldo Moro), la capacità di dissenso e di rivolta della generazione post-sessantottesca dei contestatori del sistema politico italiano sarebbe stata praticamente cancellata dalla diaspora o dall’arresto e la detenzione di molti degli elementi più significativi militanti nell’organizzazione dell’ Autonomia Operaia in quel periodo. In sostanza – la militarizzazione di quella rivolta ad opera delle Brigate Rosse e dei gruppi combattenti ad essa affini e convergenti comportò sì un “salto di qualità” nella lotta anti-sistema ma ne ridusse le capacità creative di trasformazione sociale appiattendole sulla pura dimensione reificata della violenza contrapposta a quella istituzionale. L’applicazione delle regole dello scontro militare a quelle che fino ad allora si erano proposte come pratiche di trasformazione della soggettività emerse nella riflessione teorica e antropologica di quegli anni ne rese in pratica impossibile la praticabilità. La fine dell’attività rivoluzionaria coincise con l’esclusione della logica di movimento e la sua sostituzione con la volontà di portare lo scontro a livelli fino ad allora mai praticati. La maggior parte dei libri scritti sugli anni di questa periodizzazione politico-sociale insiste molto su questo punto di passaggio. Va detto però che solo oggi i diversi elementi che compongono la possibile narrazione di quell’epoca della storia italiana sono disponibili per un’analisi non ideologica e storicizzabile forse solo attraverso l’ausilio degli strumenti della letteratura. La situazione descritta da Rastello, infatti, è solo il punto d’arrivo di una dinamica di speranze e di delusioni succedutesi nel breve arco di quegli anni e che, però, non fu compresa in maniera adeguata nel fuoco concitato degli eventi. Ne è traccia evidente in un romanzo del 1998 di Cesare Battisti, L’ultimo sparo. Un delinquente comune nella guerriglia italiana, non a caso scritto molto tempo i fatti raccontati:

 

«Un giorno di primavera, dopo l’ennesima caduta di un covo, dove i carabinieri avevano arrestato una decina di compagni e recuperato una buona parte dei nostri sforzi di finanziamento, decisi di sciogliere la batteria e tornare a Milano per un periodo di riflessione. Non c’era da essere chiaroveggenti per indovinare che ormai era finita. Il Potere aveva giocato la carta dello scontro armato e l’armata Brancaleone era caduta nel tranello: ci stavano massacrando. Ripensai all’epoca in cui ci ponevamo problemi di coscienza sull’omicidio politico e sentii vergogna per il nostro dilettantismo. Rividi anche la faccia della “signora nera” che non voleva cadere sotto i colpi della mia pistola, l’odio m’invase il petto. Non c’erano abbastanza pallottole per farli fuori tutti questi porci! Della decennale ricchezza culturale e politica di un movimento sociale, sicuramente il più ampio e irriducibile che il mondo occidentale avesse prodotto dal dopoguerra in poi, alla fine degli anni Settanta rimanevano appena qualche sacca di resistenza civile e degli sparuti fuochi di guerriglia. Lo Stato, che aveva vigliaccamente fatto ricorso alle bombe stragiste per contenere le masse in rivolta, infine vittorioso, si sentiva più che mai legittimato ad agitare lo spauracchio del terrorismo rosso contro la democrazia. Una volta rotto il vincolo di solidarietà che li legava al mondo operaio e intellettuale, le organizzazioni armate e i Comitati autonomi si dispersero nella sterilità di mille rivoli divergenti. In quanto a me, non avevo più niente da dire, né voglia di fare. Un giorno mi sedetti sulla soglia del limbo e provai a guardare lontano» (2).

 

La crisi dichiarata dei movimenti di lotta armata, ormai spappolati e ridotti a galassie impazzite di uomini disperati, comporta l’abbandono della speranza in nome della propria volontà di resistenza e di auto-conservazione. Nonostante la buona volontà e la capacità di analisi della situazione presente, il muro di gomma della realtà rifiuta di farsi sfondare dalle poche armi a disposizione dei combattenti per il comunismo a venire. Per loro non c’è a disposizione nemmeno la “geometrica potenza” di chi aveva provato l'”assalto al cielo” per accorgersi che si trattava di un pugno di terra sporca del sangue di chi pagava per tutti. Così Battisti sembra contemplare il suo stesso percorso di ex-militante armato (mascherato dall’esile finzione di un alter ego che gli assomiglia fin troppo) da un posto ormai lontano anni luce, come se vedesse la terra del suo passato dalla luna di un presente che la rende straniata e bugiarda. In tutto L’ultimo sparo, infatti, che è il romanzo della liquidazione della precedente stagione non-letteraria, si respira l’atmosfera della smobilitazione e della disperata ricerca di una ragione valida e precisa per continuare dopo la catastrofe e la sconfitta. La vittoria (in cui si credeva ancora? forse…) non era più possibile e avrebbe rappresentato, in sostanza, soltanto l’altra faccia della sconfitta ma con le stesse caratteristiche comuni e le stesse dinamiche di auto-annichilimento e di auto-denegazione della creatività e della passione che avevano allignato prima in misura sempre crescente. Una rivoluzione sconfitta prima ancora di essere cominciata (come i gruppi armati proponevano all’alba della fine e cioè subito dopo l’insuccesso strategico del sequestro Moro) non era altro che il frutto della consapevolezza di una crisi generazionale metabolizzata troppo tardi per poter avere dei risultati. La necessità della morte dei “padri nobili” della sociademocrazia e del vecchio Movimento Operaio di stampo ancora rigidamente stalinista non era stata accettata in tempo e i figli avrebbero pagato così le colpe di quei padri tanto restii a terminare la loro esistenza politica terrena.

Il personaggio principale di L’ultimo sparo, dunque, pur nella disperazione che lo ha portato a scegliere la clandestinità e la lotta militare, è consapevole della propria diversità rispetto ai rivoluzionari del passato e, soprattutto, rispetto agli stessi esponenti delle Brigate Rosse che pur sembravano aver egemonizzato l’area più estrema del dissenso (e che, sia pure per un breve periodo, ricevettero consenso e collaborazione da fasce di militanti pur non completamente in accordo con loro [3]). Parlando del suo rapporto con due compagni più grandi di lui e soprattutto più acculturati che lo avevano ospitato per un po’ di giorni, egli scriverà:

 

«Da Kino non rimasi più di qualche settimana. Ma la traccia che quel periodo ha lasciato nei miei ricordi è un sentiero battuto dagli anni. Un’impressione che senza dubbio devo a un lasso di vita tra parentesi e al fascino di una realtà impossibile. Ma, soprattutto, alla delicatezza con cui Kino e Marina sgrossavano il mio spirito ribelle orientandolo verso nuovi orizzonti culturali. Con loro appresi che il nostro obiettivo, quello del movimento autonomo in tutte le sue espressioni, non era di conquistare il potere ma di dissolvere quello di un paese che non aveva ancora mai conosciuto una vera democrazia. La nostra era una stagione creativa dove si scopriva, per esempio, la liberazione del corpo, l’ironia, la trasgressione, la comunicazione libera. Il nuovo soggetto eravamo noi, e il nostro compito era di minare il monopolio della Democrazia cristiana e del Partito comunista, mettere fine al loro bipolarismo arcaico, corrotto, assassino, fascista e stalinista. Ero come una spugna, assorbivo tutto. Un mondo nuovo mi si stava rivelando. Ma furono anche giorni difficili. Lottavo contro me stesso in un lacerante conflitto interiore. Dopo aver battuto le strade per anni per costruirmi una corazza da uomo, era dura digerire d’un colpo che le sole cose interessanti realizzate nella mia vita erano le sculture in argilla e i quaderni ripudiati dello scrittore in erba. In quei giorni mi sorpresi spesso a pensare alla vecchia professoressa di lettere, a quando le brillavano gli occhi mentre leggeva ad alta voce i miei temi di fine trimestre. Mi sembrava fosse passato un secolo da quando avevo disertato il Liceo. Invaso dalla frenesia di sapere, leggevo tutto ciò che mi capitava sotto mano: romanzi, volantini, documenti e giornali di svariati gruppi politici. Perfino quei pallosissimi saggi che mio fratello maggiore non era mai riuscito a farmi sfogliare. Ma lo facevo di nascosto. Mica potevo fare la figura dello scolaro, del terrone ignorante! Loro, l’Organizzazione, volevano un uomo d’azione, competente, e io glielo servivo su un vassoio. Ora mi pare di sentirle le risate soffocate dei compagni, quando sfoggiavo le letture del giorno prima pretendendo di argomentare strategie politico-militari » (4).

 

La lotta armata, il tempo della rivolta investe, dunque, il quotidiano – dalla formazione politico-culturale all’educazione sentimentale (il grande romanzo di Flaubert ad essa dedicata resta pur sempre l’archetipo di ogni ricostruzione letteraria della vita all’epoca delle grandi rivolte in Europa dal 1848 al 1968 e oltre). Ma il progetto di ricostruzione letteraria del periodo difficile vissuto dall’Italia in quegli anni poi detti assai impropriamente “di piombo” (da un’orrida traduzione di una grande poesia di Hölderlin) era cominciato ben prima, nelle pagine cioè, del romanzo di Natalia Ginzsburg con il quale si era iniziato a discorrere di questi problemi.

 

 

caro-michele-ginzburg2. Caro Michele (ovvero lettere da lontano ad uso di chi è rimasto vicino)

 

«Londra, 3 dicembre ’70. Cara Angelica, sono partito in fretta perché mi hanno telefonato di notte che avevano arrestato Anselmo. Ti ho telefonato dall’aeroporto, ma non ti ho trovato. Consegno questa lettera a un ragazzo che te la porterà a mano. Si chiama Ray e io l’ho conosciuto qui. E’ un ragazzo di Ostenda. E’ fidato. Dagli da dormire se hai un letto. Dovrà fermarsi a Roma per qualche giorno. Bisogna che tu vada subito in casa mia. Fatti dare la chiave da Osvaldo con una scusa. Digli che devi cercare un libro. Digli quello che vuoi. Mi dimenticavo di dirti che devi portare con te una valigia o una sacca. Dentro la mia stufa c’è un mitra smontato e involtolato in un asciugamano. Partendo me ne sono totalmente dimenticato. Ti sembrerà strano, ma è così. Un mio amico che si chiama Oliviero me l’ha portato una sera qualche settimana fa perché aveva paura che da lui capitasse la polizia. Gli ho detto di cacciarlo nella stufa. Non l’accendevo mai quella stufa. Va a legna. Non avevo mai legna. In seguito dell’esistenza di questo mitra nascosto nella mia stufa mi sono dimenticato. Me ne sono ricordato sull’aereo improvvisamente. Ero in pieno cielo. Mi sono sentito a un tratto coperto di un sudore bollente. Dicono che è freddo il sudore della paura. Non è vero. Certe volte è bollente. Mi sono dovuto levare la maglia. Tu allora prendi questo mitra e caccialo nella sacca o valigia che avrai portato con te. Consegnalo a qualcuno di insospettabile. Per esempio a quella donna che viene da te a pulire. Oppure puoi restituirlo a quell’Oliviero. Si chiama Oliviero Marzullo. Il suo indirizzo non lo so, ma te lo fai dare da qualcuno. Pensandoci bene però quel mitra è così vecchio e rugginoso che forse potresti anche buttarlo nel Tevere. Questa incombenza non la do a Osvaldo. La do a te. Anzi Osvaldo preferirei non ne sapesse niente. Non voglio che mi giudichi un completo imbecille. Però se invece ti viene voglia di raccontarlo a Osvaldo, raccontaglielo. In fondo, che lui mi trovi un imbecille mi è indifferente. Naturalmente avevo il passaporto scaduto. Naturalmente Osvaldo mi ha aiutato a rinnovarlo. Tutto questo in poche ore. All’aeroporto c’era anche Gianni e abbiamo litigato perché secondo Gianni nel nostro gruppo c’è una spia fascista. Forse anzi più di una. Sono sicuro che se lo sogna. Gianni non se ne va a Roma, semplicemente ogni sera cambierà stanza» (5).

 

Scrive Michele alla sorella chiedendole di far partecipare della sua vita quotidiana anche la propria assai più disastrata e di far irrompere la dimensione della lotta armata nell’esistenza assai più pacifica di lei (6). Michele fugge perché un suo compagno di lotta è stato arrestato. Probabilmente non è veramente in pericolo dato che Gianni, un altro membro del suo stesso gruppo eversivo, pur credendo paranoicamente di essere spiato da fascisti infiltrati (eventualità poco probabile secondo Michele) si limiterà a dormire ogni notte in un luogo diverso (pratica assai diffusa all’epoca e prolungata fino a tutti gli anni Novanta per molti membri dell’ultrasinistra).

Il mitra “vecchio e rugginoso” che Michele tiene in casa nascosto nella stufa è, in realtà, trasparente metafora dell’ideologia del passato, uno strumento vecchio che il giovane rivoluzionario pentito si lascia dietro senza neppure ricordarsi di averlo conservato per pura amicizia nei confronti di una persona considerata amica (e che pure, tutto sommato e a pensarci bene, gli apparirà, poi, quasi completamente sconosciuta – ne conosce, infatti, a malapena il nome) o per indifferenza nei suoi confronti (è perfettamente mimetizzato in una stufa che non viene mai accesa per mancanza di legna). Esso non serve a niente come le idee ormai tra-passate dei suoi compagni di lotta.

Michele non sembra avere neppure convinzioni ideologiche profonde e, seppure le ha avute, le ha dimenticate come il vecchio arnese militare il cui ricordo gli balena all’improvviso in mente mentre già si trova sull’aereo per l’Inghilterra. Quel mitra è il vecchio modo di fare politica e di vivere la militanza che ormai sembra obsoleto e inutilizzabile al giovane ormai deciso ad avere una vita diversa e forse più “regolare”di quella precedente (come il suo matrimonio in terra straniera sembrerà dimostrare). Che Michele sia destinato a scomparire e a dileguarsi in un mondo diverso da quello nel quale è vissuto fino ad allora (il mondo del padre pittore e della madre sepolta in una grigia casa di campagna, delle sorelle perse dietro le loro aspirazioni piccolo-borghesi e del concreto quanto abulico Osvaldo, amico fraterno e disincantato) è chiaro anche alle persone a lui più vicine. E’ parte del suo orizzonte esistenziale questo, del suo modo di vivere – come afferma anche Ada, la moglie separata di Osvaldo, che non sopportava lui e quelli come lui:

 

« “Ti dirò la verità, non mi piacciono questi ragazzi che girano adesso. Randagi e pericolosi. Quasi io preferisco i ragionieri. Dello scantinato in sé non me ne importa niente. Però mi secca se qualcuno me lo fa saltare in aria” (7). “Anche perché in questo caso salterei in aria anch’io che sto al piano di sopra, e anche la sarta che sta all’ultimo piano” disse Osvaldo. “Ma questo Ray non mi sembra uno che fa saltare in aria niente. Non mi sembra che abbia scoperto la polvere”. “Ti pregherei di non farmelo conoscere, questo Ray. Non me lo portare qui. Michele, tu me lo portavi sempre qui. Non mi era simpatico. Non lo trovavo divertente. Si metteva seduto e mi fissava con quei suoi occhietti verdi. Credo che mi trovasse una stupida. Ma io non lo trovavo divertente. Mi sono spesa per farlo partire, l’ho aiutato, ma non per simpatia”. “Per gentilezza” disse Osvaldo. “Sì. E anche perché ero contenta di non vederlo più. Ma ho trovato enorme che non tornasse quando è morto suo padre. Enorme”. “Aveva paura di essere arrestato” disse Osvaldo. Di quelli del suo gruppo, ne hanno arrestati due o tre”. “Lo trovo enorme lo stesso. E anche tu l’hai trovato enorme. Eri stupefatto. Perché uno si fa anche arrestare, per accompagnare al cimitero la salma di suo padre”» (8).

 

Dopo aver battibeccato un po’ con il marito, Ada conclude:

 

« ” […] Però sotto sotto pensava che ero scema, e io me ne accorgevo, e mi dava noia”. “Perché parli di Michele all’imperfetto” disse Osvaldo. “Perché ho l’idea che non ritornerà mai” disse Ada. Non lo rivedremo più. Finirà in America. Finirà chissà dove. Cosa farà non si sa. Il mondo ora è pieno di questi ragazzi, che girano senza scopo da un posto all’altro. Non si riesce a capire come invecchieranno. Sembra che non debbano invecchiare mai. Sembra che debbano restare sempre così. Senza casa, senza famiglie, senza orari di lavoro, senza niente. Con i loro due stracci e basta. Non sono mai stati giovani, perciò come fanno a diventare vecchi. Per esempio quella ragazza col bambino, anche lei come farà a invecchiare. E’ già vecchia adesso. E’ una pianticella appassita. E’ nata appassita. Non fisicamente. Moralmente. Io non riesco a capire come mai una persona come te perda il tempo in mezzo a tutte queste pianticelle appassite. Io forse mi sbaglio, ma ho un’alta opinione di te”. “Ti sbagli” disse Osvaldo “Sei troppo ottimista su di me”. “Io sono ottimista per temperamento. Però non riesco a essere ottimista su questi ragazzi che girano. Li trovo insopportabili. Trovo che fanno disordine. Sembrano tanto gentili, ma sotto sotto magari covano la voglia di farci saltare in aria tutti”. “In fondo non sarebbe un gran male” disse Osvaldo. Si era infilato l’impermeabile, e si lisciava sulla testa i radi capelli biondi» (9).

 

Ada, nonostante il suo livido moralismo piccolo-borghese e la sottile invidia che nutre nei confronti della vita libera dei giovani vagabondi di cui ha paura e non si fida, in realtà ha ragione. Essi sono pronti a far saltare tutto in aria e lo farebbero appena appena gliene se ne desse la possibilità. In primo luogo, perché hanno tagliato i ponti con il passato (è questo il senso simbolico dell’avvenuta partecipazione ai funerali del padre da parte di Michele piuttosto che il timore per un possibile arresto) e in secondo luogo perché sanno di rimanere eternamente giovani se continueranno a vivere la loro vita senza gli obblighi che vorrebbero imporgli. Michele (e i suoi amici transfughi dalle norme del vivere borghese) giocano tutte le loro carte su una differenza generazionale, non politica con coloro i quali li hanno preceduti (anche politicamente) e, nonostante il loro apparente disinteresse e la loro placida quanto amorevole rabbia, sono ben consapevoli della differenza rispetto a quelli che li hanno preceduti, i “ragionieri” della rivoluzione – come il marito di Angelica.

In fondo, Ada sa bene di essere simile nel profondo ad essi (loro piccolo-borghesi convinti di essere rivoluzionari, lei alto-borghese inquieta e incapace di assumere un ruolo, un impegno purchessia).

Osvaldo, che è rimasto sempre un essere un po’ amorfo e incerto tra le scelte radicali che potrebbe e dovrebbe fare (“un frocio completo” – dirà malignamene Mara, la vera protagonista femminile del romanzo, una ragazza sbandata che ha avuto – probabilmente – una storia d’amore e un figlio da Michele, anche se entrambi lo negano), è attirato dalla vita “negativa” delle persone da lui completamente diverse tra le quali pure si aggira e con le quali non riesce a trovare un rapporto, una forma di contatto, un elemento di adiacenza emotiva e sociale (nel film di Monicelli avrà il volto un po’ misterioso e apparentemente insondabile di Lou Castel, attore francese specializzato in ruoli di italiano). Per lui anche l’esplosione e la lotta armata potrebbero essere una soluzione decisiva che gli impedirebbe così di dover prendere una autentica decisione.

Eppure, nonostante il suo vagare e il suo rifiutare il mondo da cui proviene per nascita e per censo, anche Michele, ad un certo punto, nonostante la decisione (del tutto avventata, quasi disperata) di mettere radici in Inghilterra, proverà una sorta di rimpianto per la sua vita passata e per “la penombra” dei luoghi che ha attraversato nella sua vita precedente:

 

«Leeds, 27 marzo ’71. Cara Angelica, mi ha scritto Mara. […] Forse verrò nelle vacanze di Pasqua, ma non ne sono sicuro. Qualche volta, ho nostalgia di voi, cioè di quelli che uso chiamare “i miei”, anche se non siete per niente miei, come io non sono per niente vostro. Ma se venissi, voi mi osservereste, avrei i vostri sguardi fissi su di me. Ora io in questo momento non ho voglia di avere i vostri sguardi su di me. Inutile aggiungere che siccome avrei con me mia moglie, osservereste anche mia moglie con attenzione, e vi studiereste di capire di che natura e qualità sono i rapporti fra mia moglie e me. E anche questo non lo potrei sopportare. Ho molta nostalgia anche dei miei amici, di Gianni, di Anselmo, di Oliviero, e di tutti gli altri. Qui, sono senza amici. E ho nostalgia anche di alcuni quartieri di Roma. Di altri quartieri, e di altri amici, ho nostalgia ma anche repulsione. Quando alla nostalgia viene a mescolarsi la repulsione, succede allora che i luoghi e le persone che amiamo li vediamo situati in una grande lontananza e le strade per raggiungerli ci sembrano rotte e impraticabili. Certe volte, la nostalgia e la repulsione sono in me così avviluppate insieme e così forti che le sento mentre dormo, e allora mi sveglio e devo buttare via le coperte e sedermi a fumare. Eileen piglia il suo cuscino e se ne va a dormire nella stanza dei bambini. Dice che lei ha diritto alle sue ore di sonno. Dice che ognuno deve arrangiarsi da solo con i suoi incubi. Ha ragione, non ha mica torto. Non so perché ti sto scrivendo queste cose. Ma è un momento che mi metterei a parlare anche con una sedia » (10).

 

E’ in questo impasto di nostalgia (per una vita possibile come quella che è già passata) e di repulsione (per quella stessa vita) che si consuma la rivolta esistenziale di Michele. La sua lotta politica e la sua critica alla società gli sono ormai alle spalle. Ma in questa sua straziante confessione (la mancanza di amici, il dialogo non avvenuto prima e non vigente ora con la sua donna) c’è tutto il senso di ciò che una generazione di giovani italiani provarono allora: nostalgia per ciò che erano stati e repulsione per ciò che in quello stesso contesto furono e dovettero essere. Alla volontà di cambiare il mondo non corrispose (come voleva Rimbaud) la capacità di cambiare la vita. E’ quello stesso che accadrà a Michele, morto miserevolmente in terra straniera in una rissa senza scopo e senza finalità alcuna:

 

«4 giugno ’71. Cara Mara, le scrivo per darle una notizia dolorosa.  Mio fratello Michele è morto a Bruges in un corteo di studenti. E’ venuta la polizia e li hanno dispersi. Lui è stato inseguito da un gruppo di fascisti e uno di questi gli ha dato una coltellata. Sembra che lo conoscessero. La strada era deserta. C’era con Michele un suo amico e questo è andato a telefonare alla Croce Rossa. Michele intanto è rimasto solo sul marciapiede. Era una strada dove c’erano tutti magazzini ed erano chiusi a quell’ora, cioè le dieci di sera. Michele è morto al Pronto Soccorso dell’ospedale alle undici. Quel suo amico ha telefonato a mia sorella Angelica. Sono andati a Bruges mia sorella, suo marito e Osvaldo Ventura. L’hanno portato in Italia. Michele è stato sepolto ieri a Roma, accanto a nostro padre, deceduto lo scorso dicembre come forse lei ricorda. Osvaldo mi ha detto di scriverle. Lui è troppo sconvolto. Sono anch’io sconvolta, come lei può immaginare, ma cerco di farmi forza. La notizia è uscita su tutti i giornali, ma Osvaldo dice che lei certo non legge i giornali» (11).

Così la sorella Viola a Mara per informarla della morte di Michele. Sempre a Mara anche Angelica scriverà successivamente per informarla degli sviluppi dell’omicidio del fratello. I suoi assassini non saranno mai trovati (anche perché probabilmente nessuno aveva interesse a cercarli). Ma quello che importa in un contesto come il nostro (la vita quotidiana che persiste e permane con i suoi ritmi anche nel tempo della rivolta) è quello che viene dopo:

 

«Quelli che l’hanno ucciso non li hanno trovati, e le indicazioni che ha dato quel ragazzo che li ha visti sono confuse e incerte. Credo che a Bruges Michele avesse avvicinato di nuovo dei gruppi politici, e credo che quelli che l’hanno ucciso avevano delle ragioni precise per ucciderlo. Ma sono tutte ipotesi. In verità noi non sappiamo niente e tutto quello che riusciremo a sapere saranno altre ipotesi, che riporremo dentro di noi continuando a interrogarle ma senza leggervi mai nessuna risposta chiara. Ci sono delle cose a cui non posso pensare, e in particolare non posso pesare a quei momenti che Michele ha passato da solo su quella strada. Anche non posso pensare che mentre lui moriva io me ne stavo tranquillamente nella mia casa facendo i gesti di ogni sera, lavando i piatti e lavando le calze di Flora e appendendole con due pinze sul balcone fino a quando non è suonato il telefono. Non posso pensare nemmeno a tutto quello che ho fatto il giorno prima, perché tutto portava tranquillamente a quello squillo del telefono. Il mio numero di telefono l’ha dato Michele a quel ragazzo, un momento che ha ripreso conoscenza, ma è morto subito dopo e anche questo è per me spaventoso, che il mio numero di telefono gli sia passato nella memoria mentre moriva» (12).

 

La morte in un contesto di assoluta quotidianità appare più spaventosa, più terribile, più assurda.

La morte di Michele è una morte qualunque in un momento qualunque – solo che è un fatto definitivo ed è questo che la rende un momento assoluto di dolore e di incomprensibile follia.

Se i romanzi alla stregua di L’ultimo sparo o Piove all’insù rappresentano lo stadio di chi guarda ormai la Terra dopo essere passato per la Luna, qui la Luna e la Terra si equivalgono. Natalia Ginzburg ha scritto un romanzo apparentemente semplice e cristallino come la sua scrittura limpida e “manzoniana” ma che è fatto di indizi, anche tenui, di connotazioni implicite, di sospetti lasciati sottotraccia e di accuse lasciate sottaciute. Sono lettere da lontano quelle scritte dai protagonisti della storia che non servono tanto a far avanzare la trama verso la sua tragica conclusione ma a lanciare dei segnali a coloro i quali vogliono capire per davvero che cosa sia accaduto davvero in quegli “anni di piombo” di contestazione, di morte, di rabbia e di amore infinito.

 

 

marco-baliani-corpo-di-stato3. Corpo di Stato (ovvero qualche gesto per chi vuole capire)

 

Il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse sequestrano Aldo Moro. Il 9 maggio dello stesso anno, all’alba, lo giustiziano con una scarica di mitraglietta Skorpio. Sono passati 55 giorni in cui la vita, tuttavia, non si è fermata. E’ quello che Marco Baliani racconta in un testo teatrale poi pubblicato sotto forma di libro (con l’aggiunta di un Diario della sua prima rappresentazione) (13).

Le racconto attraverso l’esperienza della sua vita, della sua mente lucida e osservatrice e soprattutto le vicende concrete che attraversa con il suo corpo. Chi era presente in Italia in quei giorni continuò certamente a vivere – eppure fu segnato in prima persona dallo scarto esistente tra la sua quotidianità e lo sfondo di morte e di terrore in cui essa galleggiava. Un episodio raccontato da Baliani è, a riguardo, assai significativo:

 

«Posto di blocco. Qualche giorno dopo l’attacco di via Fani, sarà stato il 21 di marzo, stiamo scendendo, io, Maria la mia compagna e nostro figlio, lungo via Gregorio Settimo, con la nostra Cinquecento gialla tutta scassata. Aveva una portiera bianca che avevamo sostituito dopo un incidente, bisognava tenerla con la mano mentre si guidava, se no si apriva in corsa. All’altezza del ponte sul lungotevere c’è un posto di blocco, come ormai ce ne sono centinaia a Roma. Hanno i mitra in pugno, ci fanno scendere, ci spingono, sempre tenendoci sotto tiro con le armi, ci strattonano, perquisiscono Maria per vedere se magari al posto del bambino tenga nascosta un’arma. Mio figlio Mirto, di appena un anno, comincia subito a piangere. Aprono il cofano, spalancano le portiere, ribaltano i sedili, rovesciano a terra la borsa di Maria, un biberon pieno di latte rotola sul marciapiede, io faccio per chinarmi a raccoglierlo ma non ci riesco, le mie gambe sono irrigidite, ho paura. Guardo i carabinieri, sono tutti più giovani di me. Vedo con quanta facilità potrebbe partire un colpo da quelle armi maneggiate così. Ecco, loro adesso potrebbero sparare e noi crepare qui sull’asfalto, e la legge sarebbe dalla loro parte. Ecco la legge Reale, ora ce l’avevo davanti concreta, tangibile. Per fortuna ci risbattono in auto infuriati perché non hanno trovato nulla. Mirto continua a piangere e io dopo un po’ mi accorgo che sto guidando con le mani contratte sul volante, col corpo inarcato sul sedile. “Essere odiati fa odiare” diceva Pasolini. Sì, è vero, c’era odio nei loro sguardi, ma c’era anche qualcos’altro, una specie di impotenza, di rabbia contenuta a stento, e non solo per l’attacco che lo Stato aveva subito, ma perché cinque dei loro compagni erano stati massacrati. Era il loro senso di appartenenza a un corpo, al corpo dei carabinieri, era questo che era stato violato e loro adesso volevano vendicarsi, presto, subito, solo che non sapevano cosa fare, come comportarsi, erano sbandati, e allora si sfogavano, scaricando la loro rabbia su quelli come noi» (14).

 

Di episodi come questi – di vita quotidiana attraversata dall’odio e dalla violenza, di giorni simili a quelli precedenti ma popolati di episodi aberranti e disumani dove non si riesce a capire chi sia dalla parte della ragione e chi del torto – è composto il mirabile tessuto del testo teatrale-libro di memorie di Baliani. La vita quotidiana attraversa il vissuto di quel periodo convulso e costernato e diventa occasione di riflessione politica, sociale, umana, esistenziale. Gli episodi si susseguono e gli uomini e le donne che ne sono protagonisti si rivelano tante facce di una stessa medaglia – quella della rivolta e della sua sconfitta, il momento che assomma e riunisce il grido collettivo del rifiuto del mondo presente e il clangore delle celle che si richiudevano alle spalle di chi aveva lanciato quel grido selvaggio e meraviglioso. Nel testo di Baliani si inseguono storie personali e aneddoti narrati da altri o letti sulla stampa del periodo in un caleidoscopio di immagini che hanno il sapore amaro del ricordo di un incubo. Quello dell’utilizzazione sempre più massiccia delle armi da fuoco (fino ad allora sconosciute o escluse all’interno del Movimento come strumento di lotta al posto della dialettica politica delle manifestazioni di piazza) sembra a Baliani il segno di un mutamento epocale e drammaticamente esponenziale – una volta cominciato a usarle si entra in un tunnel dal quale si rischia di non poter più uscire:

 

«Ma come si era arrivati a tutto questo? Com’era successo che amici, compagni di gruppo, di corteo, improvvisamente s’erano messi a parlare di armi? Da un giorno all’altro avevano cominciato a usare termini tecnici, da riviste specializzate, come se se ne fossero infatuati. Ma non erano sempre stati i fascisti gli innamorati delle pistole? Adesso invece, a vedere quella fotografia, di quel giovane a Milano, col passamontagna in testa, le braccia in avanti a stringere la pistola in quella posa da agente speciale, come in un film americano… armi. Forse quando lo Stato aveva decretato che anche le spranghe e le chiavi inglesi erano da considerarsi armi, qualche compagno del Movimento aveva pensato: “Arma per arma, tanto vale avere una pistola”. Sì, se uno voleva vedere davvero, i segnali c’erano stati e da tempo, anche. Bastava stare dentro un gruppo per preparare una manifestazione e t’accorgevi che la parte più importante era ormai riservata al servizio d’ordine, a come organizzarsi, a come difendersi, a come armarsi. Ma d’altronde che si doveva fare se i poliziotti giravano travestiti da studenti durante le manifestazioni, con le pistole in mano, per provocare? Che si doveva fare se sparavano lacrimogeni ad altezza d’uomo nei cortei? Non avevano ammazzato così Francesco Lo Russo a Bologna? E Giorgiana Masi, a Roma, a ponte Garibaldi? Che dovevamo fare se i fascisti facevano esplodere bombe ammazzando gente innocente, aiutati magari dai servizi segreti, come nella strage di piazza Fontana a Milano o a piazza della Loggia a Brescia? Che dovevamo fare? Quand’è che lo scontro s’era fatto pesante, senza più controllo, quando? Quando s’era cominciato a parlare di guerra? » (15).

 

Il Movimento contro le forze di polizia e la macchina di guerra dello Stato – i fiori contro i carri armati – diventa assai presto (e viene sostituito) dalla logica dello scontro frontale tra due apparati militari di senso contrario che si fronteggiano in una dimensione conclamata di guerra civile.

Il tempo della rivolta e della de-negazione dello stato di cose esistente si rovescia nel momento del conflitto e della morte e quando questo accade non c’è più scampo per nessuno.

Di fronte alle provocazioni aperte (e poi successivamente avallate e teorizzate dai suoi dirigenti, anche in anni recenti) la risposta dei compagni è la loro accettazione. Baliani parla apertamente di assemblee allargate in cui si parla di “salto di qualità” nella lotta, di passaggio alla “clandestinità”. Scelte che oggi potrebbero apparire (con gli occhi della storia esaminata a posteriori) folli esistenzialmente e senza la consapevolezza politica del lungo periodo necessario a raggiungere gli obiettivi desiderati venivano consumate con grande rapidità e bruciate insieme alle vite che le facevano e spesso senza rendersi conto di quello che avrebbero comportato.

I casi di esistenze consumate nel fiore dei loro verdi anni (il caso di Giorgio ancora studente alle Medie superiori ucciso dalla polizia dopo la sua prima rapina di autofinanziamento del gruppo clandestino cui apparteneva o quello del medico Armando finito in carcere per aver accettato di conservare in cantina una pistola che apparteneva a un suo amico e compagno di vecchia data) e distrutte per effetto di una scelta magari nobile ma spesso inconsapevole del suo destino futuro sono al centro del testo di Baliani più del racconto dei giorni del sequestro Moro.

Alla fine del racconto resta un senso di amarezza profonda, di dolore straziato, di angoscia mai sopita, di sentimento tradito nei confronti della propria storia e della propria vita.

 

«Qualche mese dopo sono solo in casa, è notte fonda, fa caldo, le finestre sono aperte. Sono seduto al mio tavolo, sopra è poggiata la mia agenda, tutta consumata. E’ piena zeppa di numeri, vie, telefoni. La prendo in mano e comincio a sfogliarla. Sulla copertina nera c’è la data di quando l’ho comprata, 1970. Sono passati otto anni. Comincio dalla lettera A. Stacco la prima pagina, poi la seconda, la terza, accendo un fiammifero, avvicino i fogli e li lascio bruciare. Poi continuo con le altre pagine, la lettera B, C, D… alla lettera P c’è Peppino Impastato, il numero di Radio Aut.  Via via lascio bruciare tutte le altre pagine. Avrei tanto desiderato quella notte che il mio gesto fosse stato dettato da umana vigliaccheria, sì, che io fossi stato preso da paura, per possibili collegamenti con persone divenute pericolose. Era accaduto anche questo in quegli anni, quanti compagni erano finiti dentro per un indirizzo sull’agenda. Che insomma il mio fosse stato un atto di cedimento. No, non era così, stavo bruciando qualcos’altro e ne ero perfettamente consapevole. Per tutti quelli che non presero le armi e che erano la maggioranza, quelli furono tempi in cui via via ci ritrovammo costretti al silenzio Come se il nostro essere contro quel potere, contro quello Stato, contro quel sistema di vita non avesse più possibilità di parola se non con le armi. Eppure venivamo tutti dallo stesso ’68, venivamo tutti dagli stessi bisogni di eguaglianza, di giustizia, venivamo tutti dallo stesso grande sogno » (16).

 

Il tempo della rivolta viene scandito dalla capacità dei corpi desideranti di scatenarsi alla ricerca della soddisfazione della loro volontà estrema di durare e decidere di se stessi; l’incontro con la dimensione della morte legata strettamente alla scelta delle armi e del sangue versato lo trasforma in tempo della fine. Ma intanto la vita continua…

 

 

Note

 

(1) Luca Rastello, Piove all’insù, Torino, Bollati Boringhieri, 20082, p. 155.

 

(2) Cesare Battisti, L’ultimo sparo. Un “delinquente comune” nella guerriglia italiana, con un’Introduzione di Valerio Evangelisti, Milano, DeriveApprodi, 1998, p. 126. Poco opportunamente rievocando quegli anni e riducendo tutto alla propria autobiografia (dopo aver negato, invece, il carattere fin troppo evidente dell’autobiografismo di questo romanzo di Battisti), Evangelisti scrive: “Accadde che, impregnati di ideali egualitari, tantissimi giovani (non certo la maggioranza, e meno che mai un’intera generazione) si ribellassero alla gabbia di squallore che li imprigionava. Si formarono aggregazioni variopinte e selvagge, in cui lo studente fuorisede viveva in simbiosi con il piccolo delinquente politicizzato, la femminista con il ragazzo cresciuto tra lavori precari e la frequentazione del bar di quartiere. Una teoria nuova e stimolante, che si pretendeva marxista ma che di Marx accoglieva solo le suggestioni di alcuni scritti giovanili o secondari, dava un’identità politica a questa coesistenza. Tramontata la centralità della vecchia classe operaia, emergeva l’ “operaio sociale”, disgregato sul territorio e tuttavia funzionale ai processi di accumulazione imposti dal sempre più accentuato ricorso alle macchine; oppure il “non garantito”, figura di proletario che, esclusa dal sistema produttivo, non aveva accesso ai benefici del Welfare State e li rivendicava. Il passaggio alla lotta armata non fu né automatico né graduale. Una società che aveva saputo assorbire senza troppi traumi la protesta del ’68, si trovò paralizzata a fronte delle istanze egualitarie ben più radicali del ’77” (p. 9). Proprio nella rielaborazione dell’impianto critico e nel recupero di interi pezzi della teoria marxiana, invece,  è evidente la novità dell’apporto del movimento del ’77 in Italia.

 

(3) Ne è testimonianza esemplare il racconto autobiografico (ma forse ancora un po’ troppo reticente) di Enrico Fenzi nel suo Armi e bagagli. Un diario dalle Brigate Rosse, Genova, Costa & Nolan, 19982.

 

(4) Cesare Battisti, L’ultimo sparo. Un “delinquente comune” nella guerriglia italiana cit. , pp. 58-59.

 

(5) Natalia Ginzburg, Caro Michele, Milano, Mondadori, 1973, pp. 39-40.

 

(6) E’ quello che accadrà anche nel romanzo Assedio preventivo (Fürsorgliche Belagerung) di Heinrich Böll  pubblicato nel 1979 e tutto dedicato alla ricostruzione delle conseguenze che l’adesione di una parte di essa alla lotta armata innescata dalla Banda Baader-Meinhof ha su una ricca famiglia borghese tedesca.

 

(7) Nella stanza sotto il livello stradale, lo “scantinato”, dove viveva Michele prima della fuga a Londra, Osvaldo ha sistemato Ray, un amico dello stesso Michele, che era stato cacciato dalla casa della sorella Angelica dove era andato provvisoriamente a stare e dove aveva avuto delle pesanti discussioni ideologiche con il marito di lei, funzionario di un partito di sinistra.

 

(8) Natalia Ginzburg, Caro Michele cit., pp. 70-71.

 

(9) Natalia Ginzburg, Caro Michele cit., pp. 71-72..

 

(10) Natalia Ginzburg, Caro Michele cit., pp. 147-148.

 

(11) Natalia Ginzburg, Caro Michele cit., pp. 171-172.

 

(12) Natalia Ginzburg, Caro Michele cit., pp. 174.

 

(13) Marco Baliani, Corpo di stato. Il delitto Moro, Milano, Rizzoli, 2003.

 

(14) Marco Baliani, Corpo di stato. Il delitto Moro cit. , pp. 23-25

 

(15) Marco Baliani, Corpo di stato. Il delitto Moro cit. , pp. 28-29.

 

(16) Marco Baliani, Corpo di stato. Il delitto Moro cit. , pp. 70-71

 

 

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.