SUL TAMBURO n.70: Antonio Paolacci, “Piano americano. Il romanzo che non scriverò”

Antonio Paolacci, Piano americano. Il romanzo che non scriverò, Milano, Morellini Editore, 2017

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di Giuseppe Panella
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Antonio Paolacci di romanzi ne ha scritti e uno, il primo, lo ha pure ristampato. Eppure è insoddisfatto della sua attività di scrittore, della sua capacità di investimento sentimentale sulle parole scritte, sulla resa stessa di esse a livello di comunicazione e di confronto. Paolacci non vuole scrivere più e manifesta questo suo desiderio, questa sua necessità nell’unico modo che conosce: appunto scrivendo un romanzo. Rifiutandosi di scrivere un’opera narrativa, in realtà, la scrive (e ricorda molto il metanarrativo Gide quando cita se stesso come autore dell’opera che sta scrivendo e cioè Paludi). Non volendo scrivere un romanzo su un personaggio evanescente che passa inosservato, quasi un “uomo invisibile” e che per questo truffa e rende impalpabili le sue attività ai confini della legalità, lo fissa in realtà sulla carta come il protagonista di una storia che si vuole comunque scrivere, anche se non nella dimensione tradizionale della forma narrativa.

La storia di una storia che non si vuole scrivere fuoriesce comunque dai canoni della scrittura tradizionale. E, infatti, Paolacci si concede di utilizzare tutte le prospettive di linguaggio possibili e sceglie il taglio saggistico per illustrare le sequenze-chiave di Psycho di Alfred Hitchcock (ad esso sono dedicate moltissime pagine), poi la dimensione dell’autofiction per descrivere il periodo precedente alla nascita del suo primo figlio, la parodia (la citazione da Frankenstein junior e Frau Blücher a p. 197), le metanarrazioni sulla scrittura che scandiscono il tempo della stessa scrittura a venire… e si potrebbe continuare a lungo. Piano americano si basa, infatti, su una metafora, quella dell’inquadratura che porta questo nome e che identifica le figure umane nel loro essere riprese a metà, in una situazione di quotidiana intermittenza della vita e non in una prospettiva fuori dal contatto del presente continuo dell’esistenza e della prossimità comune. A Genova – sostiene Paolacci – la maggior parte dei passanti potrebbe essere vista (e inquadrata) in piano americano:

«Si dice Piano Americano (PA) l’inquadratura che taglia l’attore dal ginocchio in su. Di solito viene utilizzata per incorniciare due o più persone o per dare all’attore maggiore libertà espressiva e d’azione. E’ detto “americano” perché lo si ritiene nato nel cinema western, per mostrare le fondine appese al cinturone dei cowboy, ma in verità veniva utilizzato anche agli albori del cinema. Come ogni taglio di ripresa, il PA ha funzioni specifiche all’interno della grammatica filmica. In una scena come questa che avete appena letto, con il personaggio che chiamiamo Paolacci che sta camminando nel centro storico di Genova, potete immaginarne l’efficacia: noterete che se Paolacci fosse ripreso in Primo Piano (PP: inquadratura del solo viso), si darebbe risalto assoluto all’espressione dell’attore. In questo modo la vostra attenzione sarebbe su di lui e sull’emozione che il suo volto esprime (è assorto, Paolacci? Sorride, Paolacci?) e quindi sull’effetto che questa passeggiata in centro sta facendo a lui. La scena intorno sarebbe meno importante delle sue emozioni e dei suoi pensieri intuibili. Se invece l’attore fosse inquadrato in Campo Lungo (CL: inquadratura da lontano, che mostra il personaggio come piccolo elemento del contesto) l’inquadratura darebbe più importanza alla scena che a Paolacci» (p. 62).

Paolacci dunque è un personaggio centrale del libro, ruba la scena anche ai personaggi finzionali di cui avrebbe dovuto narrare la vicenda. Inoltre le sue vicende personali diventano la cartina di tornasole di ciò che avviene nel testo, dalla crisi dell’autore come scrittore alla crisi dell’intellettuale come futuro padre fino alla nascita del suo bambino. Nel mezzo scorre il fiume del mainstream delle considerazioni metanarrative: ne è esempio pregnante la significativa esplorazione del mondo hitchockiano di Psycho e la dialettica – illustrata precedentemente – del McGuffin come chiave di volta della ricerca cinematografica dell’originalità. L’oggetto desiderato del quale non si capisce mai bene che cosa sia ma che tiene in piedi la struttura del film è al centro della ricerca linguistico-stilistica di Paolacci: che cosa vuole comunicare con il suo romanzo, che cosa vuole mostrare in maniera esplicita? Il semplice fatto che il romanzo è composto di innumerevoli elementi di cui nessuno fondamentale e purtuttavia funziona solo se le sue componenti non si saldano soltanto in maniera anonima e conformistica ma creano dei cortocircuiti di senso che lo rendono capace di andare oltre la tradizione consolidata. Paolacci si prova a raccopntare come nasce un romanzo e, in corso d’opera, si accorge che è un non-romanzo ma, tutto insieme, invece, diventa una confessione, un grido di dolore per l’inconsistenza del mestiere di scrittore, una riflessione sulla dimensione inconscia delle visione cinematografica e un’analisi della natura profonda delle parole letterarie.

«Chiudo gli occhi per smettere di pensarci. Nel buio delle mie palpebre mi vedo riverso qui dove sono, sul divano, in una sera di giugno per alcuni normale, per altri noiosa, per altri divertente, e così via. Eccomi: costui sono io nell’anno 2015. Sono rinato molte volte, ho attraversato alcune identità, finora esclusivamente giovani, e questo è il momento più incredibile della mia esistenza cosciente. Ho quarant’anni e non so chi sono stato, non sono chi sarà domani. Mio figlio che ancora non conosco è prigioniero in una bolla di possibilità, e noi con lui. Ho bisogno di vedere il tutto in prospettiva storica, ma è impossibile conoscere cosa accadrà fra poco. Che direzione prenderemo. La prospettiva storica è rivelatrice, sempre. Nella nostra lingua esiste non a caso l’espressione “il senno di poi”, che è un’altra delle materie incandescenti con cui ogni scrittore deve fare i conti. Ogni autore d’esperienza lo sa: il tempo cambia senso alle opere immobili quali i testi scritti» (pp. 213-214).

Ecco allora che cosa rappresenta questo romanzo / non-romanzo: una visione del futuro a occhi chiusi, un sogno a occhi aperti, una dichiarazione di fiducia nel futuro. Nonostante tutto.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.