SUL TAMBURO n.38: Cinzia Della Ciana, “Acqua piena d’acqua”

Cinzia Della Ciana, Acqua piena d’acqua, Arcidosso (Grosseto), Effigi, 2016

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di Giuseppe Panella

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Un romanzo familiare come la grande letteratura del Novecento ha abituato i suoi lettori a partire dai Buddenbrook. Decadenza di una famiglia per finire con Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez o Menzogna e sortilegio di Elsa Morante (uno dei libri certamente presenti nel serbatoio della mente letteraria di Cinzia Della Ciana per via della continuità familiare e il susseguirsi di tre personaggi femminili, nonna, madre e nipote, nella scansione temporale della storia). Tre donne affrontano le loro vicende e si confrontano con l’acqua del fiume dell’esistenza ed è proprio al suo corso impetuoso quando “tira giù argine e macchia“ che il libro è dedicato.

Acqua piena d’acqua è un’espressione tipicamente russa che sta ad indicare l’acqua come pienezza di vita e come metafora della realtà umana, il momento in cui l’essere vivi viene pienamente raggiunto come obiettivo. Ed è all’acqua che Cinzia Della Ciana fa ricorso tutte le volte che deve descrivere le vicissitudini e le peripezie (in gran parte negative) delle sue protagoniste – la piena dell’Arno a Pisa che chiude il romanzo, tuttavia, ne sancisce l’avvenuta liberazione dall’alveo e la sua libertà di dilagare e tracimare felicemente conquistata.

Ma Acqua piena d’acqua non è soltanto un romanzo di storie di famiglia (quelle famiglie che sono tutte “infelici a modo loro” di cui parla Lev Tolstoj nel suo celebre incipit di Anna Karenina) che si intrecciano, si intersecano e si innestano l’una nell’altra. E’ un romanzo che mostra l’Italia nella sua evoluzione, un’Italia provinciale fatta di piccoli borghi e di comunità ciarliere e violentemente reclusorie, dove il pettegolezzo è la regola comune e condivisa e dove le regole di sempre sono difese con ferocia e assurda perseveranza, che passa quasi impercettibilmente dalla dimensione antica di città / campagna vista come imperativa e imperante per giungere all’urbanizzazione e all’apertura sociale sia pure in mezzo a gravi difficoltà e a pregiudizi persistenti.

Acqua piena d’acqua è di conseguenza un romanzo corale dove lo scandire del tempo è segnato dai passaggi delle storie che racconta in maniera sussultoria, con bruschi scivolamenti temporali (il romanzo inizia il 1 gennaio 1961 e cioè a circa metà del suo sviluppo lineare) e con una volontà di mostrare e non soltanto di spiegare. Narratrice di notevole impatto lirico, Cinzia Della Ciana non si limita alla storia e alla sua evoluzione ma si prova il più delle volte a scavare in profondità nei suoi personaggi. La nonna, Letizia detta Titti, con la cui morte misteriosa inizia il romanzo, è una vittima delle circostanze sociali e delle sue difficoltà esistenziali, incapace di imporsi al marito farfallone e infedele (magari solo nelle intenzioni) e a una suocera pestifera e feroce nei modi e nei toni. La sua fine corrisponde all’inizio del romanzo, con un’immagine vivida e crudele:

«In primo piano, verticali, le erano apparse le suole di cuoio nero di due scarpe col tacco squadrato, un po’ consunto ai lati esterni, due piedi appesi a due gambe che si sfilavano accorciate in prospettiva, sdraiate sopra ad un letto che raccoglieva un corpo goffo, ormai inerte, quello appunto della mamma Letizia. Una fuga di linee convergenti che trascinava l’occhio al centro del dramma, come nel Cristo morto del Mantegna. E quella mattina il fuori campo aveva ancora riproposto la macabra inquadratura che aveva fatto sobbalzare Anna. Era l’uno gennaio del 1961» (p.12).

Letizia è sempre stata malaticcia, non ha mai avuto le physique du rôledella madre contadina capace di figliare senza problemi e di dedicarsi alla cura della casa e del marito, la sua mente tende a vagare, a concentrarsi su questioni apparentemente marginali, in una parola a naufragare in un mare pieno di acqua limacciosa e perfida. Finita in una casa di cura dove sarà curata a botte di elettrochoc e di farmaci calmanti, si trasformerà in una sorte di cadavere vivente e scomodo, in un ingombro per la famiglia la cui fine sembrerà naturale al coro perfido delle prefiche del borgo le cui voci risuoneranno a lungo per le strade e perfino nel corridoio della chiesa del paese.

La figlia, Anna, sarà ossessionata per tutta la vita dall’immagine della madre morta e i suoi rapporti con il mondo ne risulteranno definitivamente rovinati. Anche la nascita di due figli, Giorgio e Ludovica, non basteranno a restaurare il suo rapporto con il mondo. Ma, quasi come una palingenesi, sarà la nipote di Letizia con la forza della sua volontà tenace e lungimirante a ristabilire l’equilibrio e a ritrovare la verità dal fondo di un polveroso archivio legale.

«Ludovica era fiume che aveva unito, alle proprie, le acque carsiche di altri due fiumi e che ora si intrecciavano assieme, in unico nastro iridiscente. E l’acqua piena di acqua non era più tinta di pece, né intrisa di melma, finalmente scorreva, correva vicina alla foce. Letizia era divenuta sasso. Sasso di fiume fermo nel bacino calmo di Anna. Anna finalmente poteva aprire le paratie e lasciare fluire l’acqua in abbondanza, quella che da troppo tempo era ferma e stagnante. Ludovica, invece, aveva innanzi a sé il mare. La vita. L’immenso. Specchio di luce. Caldo di ambra, fervido di vita. L’avrebbe accolta. La sera stessa Ludovica fu a casa. Era stanca, ma desiderava far tramontare la giornata sul tramonto di Pisa, la “fiamma del vespro” immortalata da D’Annunzio, sorseggiata da Byron, passeggiata da Leopardi. La sua Pisa, come lei “viva e austera”, ondulata di fiume, costruita sul fiume, issata sugli argini a siepe, gravida di quell’aria sorniona che le metteva addosso la strana voglia di partire e di restare al tempo stesso» (p. 177).

A Pisa, Ludovica troverà un riscatto (forse parziale, ma non importa se è così).

La vicenda tutta al femminile narrata nel romanzo di Cinzia Della Ciana (gli uomini vi hanno poco spazio e soprattutto poco spicco) si proietta su un orizzonte di poesia (è il romanzo di una poetessa più che di una storyteller) e trova il suo punto di forza nell’uso della “metafora ossessiva” del fiume, dell’acqua che lo riempe e lo consacra, della natura fluida della vita rispetto alla terra, inamovibile e impassibilmente monolitica, che costituisce il suo contraltare / opposto maschile.

L’ “acqua piena d’acqua”, allora, è anche splendore e pienezza di vita, non solo tensione distruttiva e morta gora dell’esistente: la sua doppia natura emerge con forza in questo romanzo intessuto del dolore di esistenze mancate e di possibilità sfuggite, di “illusioni perdute”, di momenti di perdita e di sofferenza. In fondo ad esso, però, la speranza nel futuro si appaga della stessa turbinosità dell’acqua che, in passato, ne aveva provocato l’appannamento e la chiusura nella pozza di fango delle impossibilità esistenziali più ostili e distruttive.

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Pubblicato da retroguardia

Docente e critico letterario. Dirige la rivista di critica letteraria "RETROGUARDIA". Si è occupato in particolare della narrativa di Guido Morselli e Gesualdo Bufalino. Altri interessi di ricerca riguardano anche la poesia contemporanea, la teoria della letteratura, il romanzo fantastico e comico, la metrica italiana. Suoi interventi critici sono apparsi in rete (Musicaos.it, Retroguardia, La poesia e lo spirito, ecc) e su alcune riviste di letteratura (Tabula rasa, Narrazioni, ecc). Socio fondatore dell’associazione culturale e membro del comitato di lettura di vibrisselibri, redattore de “La poesia e lo spirito” dal 2007.